Le panchine giganti e la maionese

Marcare il territorio, imprimere un segno che duri oltre il nostro passaggio è più che un’abitudine: piuttosto una necessità che condividiamo con buona parte del regno animale. Ma a differenza delle fatte e delle secrezioni ghiandolari, alcuni dei segni che ci lasciamo alle spalle sono più permanenti, differenziati e controversi nel messaggio. Sono due in particolare i modi – individuali o collettivi – di marcare il territorio in montagna su cui merita soffermarsi.
Il primo potremmo chiamarlo la sindrome della maionese sui tajarìn al tartufo (o del Parmigiano sul pesce o della panna nella carbonara…). Consiste nell’installare in ambienti montani remoti e ancora relativamente integri (i tajarìn al tartufo) degli elementi di per sé validi (come la maionese, verso la quale non ho alcun pregiudizio), che avrebbero lo scopo di esaltare il contesto, ma che di fatto lo peggiorano perché sono di troppo.
Oltre all’italianissimo fenomeno delle panchine giganti che ormai fa categoria a sé, appartengono a questa famiglia le targhe, le installazioni artistiche o i pannelli dai contenuti scientifici o poetici che dovrebbero elevare il nostro spirito e aiutarci a interpretare il paesaggio. Tuttavia questi elementi, se troppo numerosi o invadenti finiscono per diventare inopportuni: impedendo di restare da soli con la montagna, di fatto impoveriscono la nostra esperienza. Due cose buone male assortite non ne fanno una ottima.

[Tratto da Irene Borgna, Note di antropologia alpina. Lasciare traccia, su “La Rivista del Club Alpino Italiano” n°1, marzo 2023.]

Non posso che condividere convintamente le osservazioni della mirabile Irene Borgna – ancor più sviluppate poi nel resto dell’articolo sul bimensile del CAI (al quale vi rimando per la lettura integrale): peraltro, l’impressione ulteriore che da sempre ricavo dalle fenomenologie citate, quand’esse diventano eccessive, è quella di trattare i frequentatori dei luoghi montani adornati da quegli elementi come dei bambini un po’ stupidotti che hanno bisogno di qualcuno che gli dica cosa fare, lì dove sono. Se il pannello con le nozioni culturali su un certo luogo altrimenti ignorate dai più è importante e certamente utile, molti altri che sostanzialmente impongono una determinata interpretazione del paesaggio finiscono per uniformarne inesorabilmente la visione, mentre il paesaggio, essendo un costrutto che potenzialmente viene elaborato da ciascun individuo in modo singolare, al netto degli immaginari convenzionali in uso, potrebbe essere uno oppure potrebbero essere innumerevoli – e di certo tali sono nella componente mentale e emozionale del costrutto che il paesaggio rappresenta. Per non parlare poi delle panchine giganti, a mio modo di vedere uno dei punti più bassi della fenomenologia pseudo-turistica in questione, senza la cui presenza si direbbe che a molti non verrebbe in mente di visitare il luogo nel quale sono installate ma, nel momento in cui lo visitano, il valore principale di esso diventa la stessa megapanchina e non il luogo, mera scenografia che fa da sfondo al manufatto (e ai selfies di circostanza) nonché alla sua fruizione ludica. Tutto ciò senza che alcuna nozione culturale sul luogo venga trasmessa e, soprattutto, possa essere appresa, non essendoci le condizioni affinché ciò avvenga e non essendo questo lo scopo dei suoi fruitori, trattati (e portati a comportarsi) come bambinoni a cui venga offerto un giocattolo con il quale sollazzarsi e così attrarli in loco ma, come dice Borgna, offrendo loro un’esperienza impoverita e banalizzata ovvero una relazione futile, mediata e deviata con il luogo, a sua volta trattato come fosse poco interessante e carente di bellezza tanto da dover essere “agghindato” dalla panchinona.

D’altro canto, se due cose buone male assortite non ne fanno una ottima, figuriamoci se una delle due è pure brutta, oltre che fuori contesto. Il danno al territorio e al suo paesaggio è bell’e servito, inevitabilmente.

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Un’immagine speciale per un luogo speciale

Crocus ai Piani di Artavaggio, Piani di Artavaggio (Lecco), 22 maggio 2009.

Mauro Lanfranchi, fotografo di mirabile bravura tra i più quotati nel mondo della fotografia naturalistica – che ho la gran fortuna di conoscere, seguendone peraltro l’attività da decenni – sta partecipando al Concorso Fotografico a tema botanico bandito dall’Orto e Museo Botanico del Sistema Museale di Ateneo dell’Università di Pisa, con una foto (quella lì sopra, sì) che offre una spettacolare veduta floreale dei Piani di Artavaggio, sulle montagne della Valsassina.
Ciò che determinerà le immagini vincitrici del concorso sarà il maggior numero di apprezzamenti (like e “cuoricini”) raccolti sulle pagine Facebook e Instagram dell’Orto Botanico entro le ore 10:00 del 7 maggio 2023. Un metodo di valutazione che trovo alquanto opinabile ma tant’è; in ogni caso potete trovare ulteriori informazioni sul Concorso sul sito web dell’Orto Botanico.

Tuttavia qui mi preme non solo invitarvi caldamente a votare l’immagine di Mauro Lanfranchi, nelle modalità suddette, quale forma di omaggio alla sua arte fotografica e al fondamentale lavoro culturale che con essa ha portato avanti nel tempo a favore delle montagne – lombarde soprattutto e lecchesi in particolare ma non solo – e del loro paesaggio, ma pure mettere in evidenza proprio grazie all’immagine fotografica in questione la grande bellezza dei Piani di Artavaggio e l’inestimabile patrimonio naturale che sanno offrire ai propri visitatori, generando il valore di un luogo più unico che raro il quale chiede solo di essere ammirato, compreso, amato in ciò che realmente è: una delle località più belle e speciali di questa regione montana. Pensare e pretendere di poter “valorizzare” un luogo del genere con infrastrutturazioni turistiche banalizzanti, come si vorrebbe fare, e non capire quali siano invece le reali potenzialità di Artavaggio e quanta bellezza vi sia lassù, che abbisogna solo di essere còlta e goduta – e semmai su ciò costruire e strutturare una frequentazione turistica capace di esaltare il luogo e di renderlo speciale come è – mi pare realmente desolante. Col rischio per giunta di degradare quelle sue peculiarità per lungo tempo e di generare un nuovo oblio come già accaduto in passato – cosa peraltro probabile in caso di interventi turistici di matrice meramente speculativa e privi alla base di un pensiero culturale e di una pari relazione con il luogo.

Insomma: votate l’immagine dei Piani di Artavaggio di Mauro Lanfranchi anche per rivendicare la salvaguardia di un luogo così speciale e della sua grande bellezza. È un gesto piccolo ma importante e altamente significativo.

Così tanti paesaggi, così poco tempo

[Foto di Tom Morel su Unsplash.]
«Così tanti libri, così poco tempo». Così, pare, un giorno disse Frank Zappa: e se in tale affermazione io mi ci trovo alla lettera, una versione simile l’ho fatta mia e la interpreto in modo che diventi un principio ineludibile: così tante montagne, così poco tempo. Ma anche – in “geoextended version” – così tanti paesaggi, così poco tempo.

Quando sono in viaggio – ovunque mi trovi, a partire dal primo millimetro al di fuori dell’uscio di casa fino in capo al mondo – e osservo senza sosta i territori che attraverso cercando di coglierne più dettagli possibile, mi sorge spesso il pensiero che di spazi e di luoghi da scoprire, esplorare, conoscere, ve ne sono così tanti che veramente un’intera esistenza sembra pochissima cosa. È ovvio e banale dirlo, lo so, ma forse lo è meno se si considera che questo esercizio elementare e ordinarissimo non è così praticato nonché se si reputa che è da una cosa così semplice e ovvia come l’osservare ciò che abbiano intorno che si genera la relazione fondamentale con il mondo che viviamo.

D’altro canto da sempre guardo al territorio come fosse un grande libro sulle cui pagine di roccia e di terra che sono i versanti e le varie forme morfologiche che lo configurano, si possono leggere le sue principali peculiarità e non solo: se quel territorio è antropizzato, vi si può leggere anche la storia che vi hanno inscritto le genti che lo hanno abitato lungo i secoli, raccontando il legame reciproco attraverso i “segni” della loro presenza – le case, i villaggi, le strade, le coltivazioni, i muri, i modellamenti del terreno e finanche le piccole cose, le staccionate, i sentieri, le pietre di confine, gli ometti di pietra…La lettura di tutto ciò è la narrazione del paesaggio, che è sempre un costrutto mediato tra elementi naturali e antropici.

Ma in questa “biblioteca” infinita che è il mondo, può ben essere “paesaggio” anche una piccola valletta nascosta dal bosco, un modesto rilievo roccioso, una semplice radura apparentemente simile a tante altre… Non solo dalle più grandi e imponenti montagne può nascere il paesaggio, seppur qui lo si possa cogliere nei modi più compiuti e spettacolari: anche nei minimi spazi si può riscontrare qualcosa di peculiare, un microambiente che si anima di tante relazioni infinitesimali il cui compendio traccia una narrazione peculiare di quel luogo minimo, che aspetta solo di essere còlta e letta.

Da ciò in fondo nasce quella mia sensazione di illimitatezza dei paesaggi in relazione al tempo a disposizione per esplorarla in maniera soddisfacente. Ma al riguardo mi torna in mente un’altra affermazione letteraria alquanto significativa, di Jules Renard che disse «Quando penso a tutti i libri che mi restano da leggere, ho la certezza d’essere ancora felice». Ecco, quando penso a tutti i luoghi, i paesaggi, le montagne, i territori che mi restano da scoprire e conoscere, ho la certezza di non dover preoccuparmi troppo per la mancanza di tempo e di poter essere ancora, e sempre, felice.

Fare cose belle e buone, in montagna: sul Monte Tamaro (Canton Ticino, Svizzera), ad esempio

Il comprensorio turistico situato sul Monte Tamaro (Canton Ticino, Svizzera), sommità delle Prealpi Luganesi alta 1962 m tra Sopraceneri, Sottoceneri e Lago Maggiore, è stato uno dei primi in assoluto nelle Alpi a chiudere per ragioni climatiche la propria attività sciistica e convertirla a meramente estiva, attrezzandosi di conseguenza: in tal senso e tutt’oggi rappresenta un modello di lungimiranza e intelligenza imprenditorial-turistica esemplare al riguardo, anche in forza del notevole successo, per nulla scontato ma conseguito e ben consolidato fino a oggi.

Nata come località sciistica a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, già a metà del decennio successivo registra le prime difficoltà legate alla diminuzione delle nevicate e all’aumento delle temperature, con conseguenti difficoltà di gestione economica dell’attività. I gestori del comprensorio allestiscono un progetto per l’impianto di innevamento artificiale, il quale viene però abbandonato a causa delle forti opposizioni di ecologisti e associazioni di salvaguardia del paesaggio. Si comincia dunque a sviluppare la stagione estiva, inizialmente con poca convinzione: «Fu una decisione sofferta, perché il Tamaro era nato proprio come destinazione invernale» dichiara Anna Celio Cattaneo, membro della famiglia che gestisce la società Monte Tamaro SA. «Stravolto l’investimento iniziale, bisognava completare l’offerta prolungando la stagione estiva e facendo investimenti supplementari, come la slittovia, il parco avventura, il ristorante, il parco giochi. Fortunatamente non ci siamo mai pentiti di questa decisione.» Infatti, chiusa definitivamente l’era sciistica nei primi anni 2000, si realizzano un parco avventura e un parco acquatico coperto alla partenza della telecabina che sale in quota, percorsi agonistici per la mountain bike, una slittovia, un ristorante con cucina gourmet, si cura in maniera ottimale la rete sentieristica e si sviluppano molte altre attività collaterali di matrice culturale, tra cui un percorso artistico con opere realizzate on site e integrate in occasione di “Una montagna d’arte”, biennale d’arte la cui prima edizione è del 2018. Senza dimenticare l’architettura contemporanea della Chiesa di Santa Maria degli Angeli, opera di Mario Botta inaugurata nel 1996.

La telecabina è attiva da aprile a novembre dunque coprendo esclusivamente la bella stagione, ma ciò basta per assicurare al Monte Tamaro la sostenibilità economica delle proprie attività, ormai sancita da un numero di frequentatori in crescita costante che nel 2016 l’ha persino resa la montagna elvetica maggiormente ricercata su Google, più del Matterhorn, della Jungfrau, del Pilatus o di altre icone assolute delle Alpi svizzere. L’epoca dello sci sembra lontanissima e, nonostante le remore iniziali e il salto nel buio che appariva la riconversione estiva delle attività, nonché grazie alla già citata lungimiranza imprenditoriale dei gestori che, appunto, appare ancora oggi emblematica soprattutto se confrontata con gli insensati esempi di accanimento terapeutico-turistico di numerose località “sciistiche” (ma che definire tali appare sempre più un eufemismo) oggi il Monte Tamaro può ben dirsi al riparo dalle conseguenze dei cambiamenti climatici e in grado di sviluppare un’offerta turistica peculiare e dinamica. Obiettivamente ora non manca qualche infrastrutturazione opinabile, da mero divertimentificio alpestre, ma soprattutto nell’avvedutezza e nella capacità di visione del proprio futuro il modello del Tamaro appare ampiamente virtuoso, lo ribadisco: un “caso” che molti comprensori sciistici in balia dei cambiamenti climatici dovrebbero studiare a dovere e applicare al più presto, prima di fallire miseramente e malamente con gravi ripercussioni in primis per chi ci lavora nonché per le montagne sulle quali stanno e le loro comunità residenti.

(Tutte le immagini qui pubblicate sono tratte dalla pagina Facebook del Monte Tamaro.)

N.B.: altre cose belle e buone fatte in montagna:

Fare cose belle e buone, in montagna. Sulle Madonìe (Sicilia), ad esempio

Le Madonìe (in siciliano Li Marunìi) sono tra le montagne più belle della Sicilia e del Mediterraneo. Tanto poco esteso quanto ricco di angoli spettacolari e in costante vista del Mar Tirreno, il gruppo presenta le più alte vette dell’isola dopo l’Etna, sfiorando i duemila metri di quota con il Pizzo Carbonara (1979 m) che domina una morfologia parecchio variegata nonché alcune peculiarità notevoli come la faggeta di Piano Cervi, la più meridionale d’Europa. D’altro canto l’ambiente naturale delle Madonìe è talmente pregiato che la zona, il cui parco è inserito già dal 2004 nella Rete Mondiale dei Geoparchi, dal 2015 si fregia del titolo di Geoparco Mondiale UNESCO.

Nonostante ciò, anche le Madonìe non sono sfuggite al tentativo di imporre ai loro territori i modelli del turismo di massa più banalizzanti e decontestuali: la località sciistica di Piano Battaglia, pur piccola, è il frutto di quell’imposizione, dagli scopi ben più attenti al consumo del luogo che alla sua valorizzazione autentica e con la solita cronaca di pasticci finanziari, chiusure, riaperture, richiusure, soldi pubblici malamente spesi, problematiche legate al clima, eccetera: la sua storia è raccontata – succintamente ma compiutamente – nel libro Inverno Liquido di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli.

Anche per i motivi che ho appena citato, qualche anno fa un gruppo di cittadini madoniti per passione, interesse, competenze, ha deciso di impegnarsi alla promozione e sviluppo dei territori montani delle Madonie, creando un’associazione culturale che oggi si può ben indicare come un esempio mirabile e assai efficace di valorizzazione della montagna in senso generale: è Identità Madonita, nata proprio per attivare e promuovere nuovi processi di sviluppo, reti di aziende, persone e servizi dedicati non solo al visitatore ma anche ai giovani madoniti. L’associazione promuove forme di sensibilizzazione attraverso attività mirate ad accrescere la conoscenza ed il valore del territorio, a combattere lo spopolamento e attivare nuove visioni e interpretazioni del territorio locale. Inoltre usa lo sport per attivare forme di sensibilizzazione dei giovani madoniti in base al principio per il quale la conoscenza approfondita di pratiche che agevola la scoperta dei luoghi del territorio può essere potente volano di nuove forme di coscienza, di attività imprenditoriali e di attrazione, così da innescare nuovi meccanismi di sviluppo benefici per l’intero territorio.

Infine, Identità Madonita sfrutta la conoscenza dei suoi membri per promuovere e incentivare forme di reti di persone e servizi al fine di facilitare la fruizione e la coltivazione della cultura delle Madonie. Per questo tra i soci dell’associazione si trovano maestri ceramisti, agronomi profondi conoscitori delle tradizioni contadine, maestri pupari, esperti cuochi, ex componenti dei reparti speciali dell’esercito, artisti pittori, e soprattutto appassionati esperti di sviluppo locale: un ambiente umano ideale per implementarvi la collaborazione di partner commerciali accuratamente scelti per supportare la permanenza e le attività dei visitatori, i quali a loro volta possono approfittare di tale rete per scegliere servizi e aziende innanzi tutto dell’entroterra madonita ma anche della zona costiera, che ha nella cittadina di Cefalù, con la sua rinomanza turistica riconosciuta a livello internazionale, un importante e emblematico legame referenziale tra il mare e il comprensorio montano delle Madonie.

Un’esperienza veramente notevole e ammirevole, quella di Identità Madonita, che ha molto da insegnare a tante altre località montane alpine e appenniniche dalla storia assimilabile che ancora, per motivi di vario genere ma che ormai tutti conoscono bene, non riescono a liberarsi dal giogo della monocultura dello sci nonostante nulla vi sia più – in senso geografico, climatico, ambientale, economico, sociale, culturale, eccetera – nella realtà effettiva di quei luoghi che possa giustificare questo soffocante accanimento turistico. Insomma: chapeau!

(Tutte le immagini presenti nell’articolo sono tratte dalla pagina Facebook dell’Associazione Identità Maronita.)

N.B.: altre cose belle e buone fatte in montagna: