Il presente e il futuro delle montagne e delle loro comunità, con Dislivelli

Da quindici anni l’Associazione Dislivelli, con base a Torino, rappresenta una delle realtà italiane più avanzate e innovative nei campi della ricerca, dello studio e della comunicazione nei riguardi dei territori montani. Una vera e propria eccellenza nazionale, dotata peraltro della capacità di mettere a terra la propria attività in progetti e iniziative di grande concretezza e valore. Ne ho parlato con il direttore di Dislivelli, Maurizio Dematteis, e ne è uscita una bella e articolata chiacchierata che tocca numerosi temi cardine della realtà montana contemporanea e del futuro prossimo delle terre alte, che potete leggere su “L’AltraMontagna” – qui sotto ne trovate un estratto significativo.

Buona lettura!

Le terre alte per molti aspetti sembrano permanere ostaggio di stereotipi incrollabili da un lato e di aspettative trascurate dall’altro: una situazione che contribuisce a non risolvere e semmai a rendere croniche alcune loro criticità. Cosa manca alla montagna, o di cosa avrebbe rapidamente bisogno, per finalmente svincolarsi da questa situazione e riacquisire la dignità che le spetta nel divenire della realtà del nostro paese?
Una rappresentanza politica. Annibale Salsa, antropologo alpino e past presidente del Club Alpino Italiano, dieci anni fa l’ha detto senza tanti giri di parole: «Con la Legge Del Rio è finito il governo della montagna». Con la legge 7 aprile 2014, n. 56 (cd. “Legge Delrio”) infatti è stata realizzata un’ampia riforma in materia di enti locali, cancellando le comunità montane e prevedendo la ridefinizione del sistema delle province con l’istituzione delle città metropolitane, e introducendo una nuova disciplina in materia di unioni e fusioni di comuni che non sempre sono riusciti a supplire la mancanza delle vecchie comunità montane. Ricordo che alla presentazione di una pubblicazione tenutasi nel 2016 (G. Cerea e M. Marcantoni (a cura di), “La montagna perduta. Come la pianura ha condizionato lo sviluppo italiano”, Franco Angeli-Tsm 2016), Mauro Marcantoni uno degli autori e allora direttore generale della Trentino school of management, disse: «È indubbio che la montagna muore dove comanda la pianura». Suggerendo, per invertire la tendenza allo spopolamento e sostenere la tenuta dei territori montani, maggiore organizzazione e autonomia alle terre alte. Sicuramente l’autonomia, come ci spiegano trentini, valdostani e altri territori, sarebbe una strada virtuosa. Ma già poter avere una rappresentanza intermedia, che possa permettere ai territori montani di sedersi al tavolo delle regioni per promuovere opportunità e contrastare i limiti di area vasta montana non sarebbe male. Mentre oggi gli ultimi avamposti di amministrazione locale sono o comuni, spesso comuni polvere, strutture troppo piccole e deboli per potersi occupare di progetti comuni e strategie di area montana vasta.

[Uno scorcio di Paraloup, in Valle Stura, provincia di Cuneo. Cliccate sull’immagine per sapere di più.]
(Per leggere l’intervista nella sua interezza cliccate sui link presenti in questo articolo o sull’immagine lì in alto.)

Martin Pollack, “Paesaggi contaminati. Per una nuova mappa della memoria in Europa”

Chiunque si occupi di paesaggi sa bene che, al netto dell’accezione popolare con la quale il termine viene usualmente inteso cioè quale sinonimo di “territorio” o “luogo”, ogni paesaggio compendia nel proprio senso gli aspetti materiali di un dato spazio vissuto e quelli immateriali determinati dall’elaborazione culturale che di esso facciamo, e in forza di tutto ciò rappresenta un palinsesto di scritture che nel corso del tempo l’uomo ha impresso sul territorio naturale, sovrapponendo le une alle altre, riscrivendole di continuo e cancellando quelle più antiche ma a volte pure altre più recenti. In certi casi capita che, tra le cose non più leggibili e visibili ma affascinanti che formano un bel paesaggio (le rilevanze storiche e archeologiche, ad esempio), ce ne possano essere alcune di natura opposta, niente affatto belle e piacevoli, in qualche caso rimandanti a «oscuri segreti» nascosti alla percezione e alla memoria di chi oggi vive e frequenta quel paesaggio, ritenendolo in tutto e per tutto idilliaco.

In Paesaggi contaminati (Keller Editore, 2016, traduzione di Melissa Maggioni, orig. Kontaminierte Landschaften, 2014) lo storico e scrittore austriaco Martin Pollack ci dimostra come ciò che ho appena affermato è circostanza spaventosamente frequente, in Europa, il continente che è la culla della civiltà moderna e contemporanea e al contempo, ovvero nonostante ciò, la parte del mondo che ha subìto più di molte altre la tragedia di innumerevoli guerre e conseguenti massacri. Una storia oscura che tuttavia oggi appare pressoché invisibile, se non fosse per la presenza di alcuni luoghi commemorativi e per un bagaglio di memoria che tuttavia diventa sempre più svanente, non solo per l’ineluttabile corso del tempo ma pure per una nostra colpevole trascuratezza nei confronti del valore della memoria storica per il presente e il futuro []

(Potete leggere la recensione completa di Paesaggi contaminati cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

 

La montagna che non fa comunità perde ogni possibilità di avere un futuro

[Il paese di Sauris di Sotto/Unterzahre in Carnia, provincia di Udine.]
[…] È quanto mai necessario il recupero e la rivitalizzazione della polis delle montagne, della sua dimensione di comunità civica, sociale, culturale e antropologica quanto di quella politico-amministrativa, di rappresentanza autentica, concreta e attiva per i propri territori, parimenti rivitalizzando una connessione democratica costante tra le due comunità per far che veramente la montagna possa, per quanto possibile, tornare ad avere il controllo della propria realtà e delle proprie sorti in una dimensione culturale rigenerata che finalmente possa svincolarsi da quei modelli “alieni” imposti quasi sempre attraverso modalità ingannevoli. I quali, sia chiaro, potranno ancora essere realizzati, se si riterrà il caso di farlo, ma che dovranno inevitabilmente mettere al centro delle proprie azioni la comunità, la polis della montagna, il suo benessere che è il benessere della montagna stessa in quanto territorio, paesaggio, luogo di vita e di costruzione del miglior futuro possibile. Un progetto di ampio respiro e vaste prospettive per ri-fare comunità, insomma: quanto di più indispensabile per le montagne, quanto di più inevitabile da subito e sempre più nei prossimi anni.

[Questa è l’ultima parte del mio articolo La “polis montana” e lo sgretolamento del senso di comunità: cosa dovrebbero fare le montagne, e cosa non fare, per garantirsi un futuro migliore? pubblicato il 19 aprile 2024 su “L’AltraMontagna“. Per leggerlo nella sua interezza cliccate sull’immagine qui sotto.]

25 aprile

25 aprile. “Festa della liberazione” di un paese che proprio non ce la fa a liberarsi dai fantasmi di un passato con il quale non sa fare – e forse non vuol fare – i conti. In ogni senso: perché una parte continua a compiacersi di mostrarsi fascista e così l’altra parte si può rallegrare di potersi dichiarare antifascista, l’una alimentando l’altra in un girotondo che gira intorno a un punto fermo. E stantio.

Chissà se i bambini di oggi, quando domani saranno grandi, continueranno questo incancrenito girotondo. Probabilmente aveva (ha) ragione Mino Maccari quando disse al suo amico Ennio Flaiano quella celeberrima frase: «I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti». E di liberarsi da questa dicotomia autodegenerativa l’Italia proprio non ce la fa. Forse perché non può.

La “polis montana” e lo sgretolamento del senso di comunità: cosa dovrebbero fare le montagne, e cosa non fare, per garantirsi un futuro migliore?

[Articolo originariamente pubblicato il 19 aprile 2024 su “L’AltraMontagna“.]

Platone, il grande filosofo greco considerato tra i padri fondamentali del pensiero occidentale, scrisse che per quanto Atene, la sua città – polis, in greco -, fosse un luogo fatto di case, mercati, templi e teatri, erano gli ateniesi a fare la «polis». Cioè, di un luogo abitato e antropizzato, proprio in quanto tale, sono gli abitanti a determinarne l’anima, la quale dunque è l’elemento fondamentale che dà senso al luogo stesso, alla sua realtà, a ciò di cui si compone – case mercati templi e teatri.

E se il riferimento di Platone, come detto, era Atene, «polis» è nel principio qualsiasi luogo abitato «da una comunità di individui e famiglie tenute assieme da molteplici legami etnici, religiosi, economici, ecc.» come recita la definizione del termine. Comunità, non casualmente, è proprio il termine che venne scelto quando nel 1971 furono istituiti gli enti territoriali locali nati per l’amministrazione di territori geograficamente omogenei con funzioni sovracomunali, denominati appunto comunità montane. In effetti la montagna, ambito dotato di peculiarità geografiche e ambientali speciali e di conseguenti complessità, ha imposto all’uomo fin da quanto vi si stabilì stanzialmente secoli addietro la necessità di fare comunità ben più che altrove, al fine di sopravvivere alle condizioni difficili quando non ostili delle terre alte. La città si è fatta comunità attraverso modalità per così dire più spontanee, scaturenti dalla propria natura urbana (urbs, città in latino ma con accezione di «spazio nel quale si insediano gli edifici», differente dalla polis definita da Platone), almeno fino a che le trasformazioni della modernità e della post-modernità non abbiamo parecchio sfibrato le capacità di fare comunità delle città di oggi. In ogni caso quella urbana è nella sostanza una natura opposta a quella propriamente detta, nella quale invece si sviluppa la comunità di montagna e con la quale deve inesorabilmente rapportarsi in una relazione che, come accennato, abbisogna necessariamente di unire le forze di tutti per perseguire intenti comuni, in primis quelli di sussistenza. D’altro canto la montagna si fa comunità anche in senso antropologico, in forza della relazione che si costruisce tra il luogo con le sue peculiarità speciali – ben differenti da quelle cittadine e non solo per il paesaggio – e chi lo abita, e parimenti si fa comunità per le sue caratteristiche geomorfologiche, per come le valli montane avvolgano, racchiudano e proteggano, oppure isolino, le genti che le abitano, costrette nel bene e nel male a interagire in uno spazio comune ben definito, dunque altrettanto identitario.

[La borgata San Martino di Stroppo, capitale medievale dell’alta Valle Maira. Immagine tratta da www.alpicuneesi.it.]
Insomma, per tutto quanto rimarcato la montagna è viva, e si mantiene tale in ogni aspetto, se viva e vitale è la sua comunità; viceversa, stante la propria realtà difficile, non potrà sfuggire ai fenomeni di svigorimento socioeconomico e culturale che hanno colpito, e a volte devitalizzato, numerosi territori montani. Questa evidenza comporta che, riguardo qualsiasi intervento venga messo in atto sui monti e di qualunque genere – politico, amministrativo, economico, infrastrutturale, eccetera -, uno dei suoi punti fermi deve e dovrà sempre essere la comunità nel suo insieme, soggetto principale dei benefici derivanti dall’azione compiuta.

Ecco: si provi a rintracciare questo punto fermo, il conseguire benefici concreti e durevoli a vantaggio delle comunità dei territori montani, nei numerosi progetti di infrastrutturazione ad uso del turismo di massa e dei suoi modelli commerciali realizzati o proposti sulle montagne. Si constati se c’è la comunità, in quei progetti, se è presente non solo come oggetto economico ma soprattutto come soggetto sociopolitico. Ben difficilmente la si trova, o anche solo la si intravvede. Non c’è, non è contemplata o, per meglio dire, non è contemplabile, evidentemente.

[La montagna in preda al turismo di massa che diventa “luna park” a discapito di ogni altra sua peculiarità.]
Sia chiaro: che il modello turistico oggi imperante in montagna – nelle sue varie forme ma con identica sostanza – non sia in grado di fare comunità non è mancanza o colpa recente. Fin da quando il turismo è diventato fenomeno di massa invadendo innumerevoli vallate alpine e appenniniche adatte ai suoi scopi, subitamente le comunità di quelle vallate sono state spinte da parte, quando non calpestate. D’altro canto quel modello turistico galoppante sull’onda del boom economico prometteva ai montanari un benessere prima impensabile, dunque incontestabile, e così è stato per qualche lustro; tuttavia non rivelava ciò che pretendeva in cambio per ottenere i propri scopi: che non poteva ammettere la comunità, la polis montana, la quale invece doveva essere – e infatti è stata – disgregata e frammentata, sfilacciando e sovente spezzando i legami che la tenevano insieme, come recita la definizione del termine, per fare in modo che chiunque vi facesse parte potesse e dovesse porsi al servizio degli scopi del turismo e delle esigenze del turista, nuovo e indiscusso protagonista della realtà montana in quanto strumento funzionale a quegli scopi e ai tornaconti di chi ne beneficiava… [⇒⇒⇒ continua su “L’AltraMontagna”, qui.]

[Rottami sciistici e scheletri alberghieri all’Alpe Bianca in Valle di Viù, provincia di Torino.]
P.S.: tutti gli articoli che ho scritto per “L’AltraMontagna” e lì pubblicati li potete trovare qui.