La montagna che non fa comunità perde ogni possibilità di avere un futuro

[Il paese di Sauris di Sotto/Unterzahre in Carnia, provincia di Udine.]
[…] È quanto mai necessario il recupero e la rivitalizzazione della polis delle montagne, della sua dimensione di comunità civica, sociale, culturale e antropologica quanto di quella politico-amministrativa, di rappresentanza autentica, concreta e attiva per i propri territori, parimenti rivitalizzando una connessione democratica costante tra le due comunità per far che veramente la montagna possa, per quanto possibile, tornare ad avere il controllo della propria realtà e delle proprie sorti in una dimensione culturale rigenerata che finalmente possa svincolarsi da quei modelli “alieni” imposti quasi sempre attraverso modalità ingannevoli. I quali, sia chiaro, potranno ancora essere realizzati, se si riterrà il caso di farlo, ma che dovranno inevitabilmente mettere al centro delle proprie azioni la comunità, la polis della montagna, il suo benessere che è il benessere della montagna stessa in quanto territorio, paesaggio, luogo di vita e di costruzione del miglior futuro possibile. Un progetto di ampio respiro e vaste prospettive per ri-fare comunità, insomma: quanto di più indispensabile per le montagne, quanto di più inevitabile da subito e sempre più nei prossimi anni.

[Questa è l’ultima parte del mio articolo La “polis montana” e lo sgretolamento del senso di comunità: cosa dovrebbero fare le montagne, e cosa non fare, per garantirsi un futuro migliore? pubblicato il 19 aprile 2024 su “L’AltraMontagna“. Per leggerlo nella sua interezza cliccate sull’immagine qui sotto.]

La “polis montana” e lo sgretolamento del senso di comunità: cosa dovrebbero fare le montagne, e cosa non fare, per garantirsi un futuro migliore?

[Articolo originariamente pubblicato il 19 aprile 2024 su “L’AltraMontagna“.]

Platone, il grande filosofo greco considerato tra i padri fondamentali del pensiero occidentale, scrisse che per quanto Atene, la sua città – polis, in greco -, fosse un luogo fatto di case, mercati, templi e teatri, erano gli ateniesi a fare la «polis». Cioè, di un luogo abitato e antropizzato, proprio in quanto tale, sono gli abitanti a determinarne l’anima, la quale dunque è l’elemento fondamentale che dà senso al luogo stesso, alla sua realtà, a ciò di cui si compone – case mercati templi e teatri.

E se il riferimento di Platone, come detto, era Atene, «polis» è nel principio qualsiasi luogo abitato «da una comunità di individui e famiglie tenute assieme da molteplici legami etnici, religiosi, economici, ecc.» come recita la definizione del termine. Comunità, non casualmente, è proprio il termine che venne scelto quando nel 1971 furono istituiti gli enti territoriali locali nati per l’amministrazione di territori geograficamente omogenei con funzioni sovracomunali, denominati appunto comunità montane. In effetti la montagna, ambito dotato di peculiarità geografiche e ambientali speciali e di conseguenti complessità, ha imposto all’uomo fin da quanto vi si stabilì stanzialmente secoli addietro la necessità di fare comunità ben più che altrove, al fine di sopravvivere alle condizioni difficili quando non ostili delle terre alte. La città si è fatta comunità attraverso modalità per così dire più spontanee, scaturenti dalla propria natura urbana (urbs, città in latino ma con accezione di «spazio nel quale si insediano gli edifici», differente dalla polis definita da Platone), almeno fino a che le trasformazioni della modernità e della post-modernità non abbiamo parecchio sfibrato le capacità di fare comunità delle città di oggi. In ogni caso quella urbana è nella sostanza una natura opposta a quella propriamente detta, nella quale invece si sviluppa la comunità di montagna e con la quale deve inesorabilmente rapportarsi in una relazione che, come accennato, abbisogna necessariamente di unire le forze di tutti per perseguire intenti comuni, in primis quelli di sussistenza. D’altro canto la montagna si fa comunità anche in senso antropologico, in forza della relazione che si costruisce tra il luogo con le sue peculiarità speciali – ben differenti da quelle cittadine e non solo per il paesaggio – e chi lo abita, e parimenti si fa comunità per le sue caratteristiche geomorfologiche, per come le valli montane avvolgano, racchiudano e proteggano, oppure isolino, le genti che le abitano, costrette nel bene e nel male a interagire in uno spazio comune ben definito, dunque altrettanto identitario.

[La borgata San Martino di Stroppo, capitale medievale dell’alta Valle Maira. Immagine tratta da www.alpicuneesi.it.]
Insomma, per tutto quanto rimarcato la montagna è viva, e si mantiene tale in ogni aspetto, se viva e vitale è la sua comunità; viceversa, stante la propria realtà difficile, non potrà sfuggire ai fenomeni di svigorimento socioeconomico e culturale che hanno colpito, e a volte devitalizzato, numerosi territori montani. Questa evidenza comporta che, riguardo qualsiasi intervento venga messo in atto sui monti e di qualunque genere – politico, amministrativo, economico, infrastrutturale, eccetera -, uno dei suoi punti fermi deve e dovrà sempre essere la comunità nel suo insieme, soggetto principale dei benefici derivanti dall’azione compiuta.

Ecco: si provi a rintracciare questo punto fermo, il conseguire benefici concreti e durevoli a vantaggio delle comunità dei territori montani, nei numerosi progetti di infrastrutturazione ad uso del turismo di massa e dei suoi modelli commerciali realizzati o proposti sulle montagne. Si constati se c’è la comunità, in quei progetti, se è presente non solo come oggetto economico ma soprattutto come soggetto sociopolitico. Ben difficilmente la si trova, o anche solo la si intravvede. Non c’è, non è contemplata o, per meglio dire, non è contemplabile, evidentemente.

[La montagna in preda al turismo di massa che diventa “luna park” a discapito di ogni altra sua peculiarità.]
Sia chiaro: che il modello turistico oggi imperante in montagna – nelle sue varie forme ma con identica sostanza – non sia in grado di fare comunità non è mancanza o colpa recente. Fin da quando il turismo è diventato fenomeno di massa invadendo innumerevoli vallate alpine e appenniniche adatte ai suoi scopi, subitamente le comunità di quelle vallate sono state spinte da parte, quando non calpestate. D’altro canto quel modello turistico galoppante sull’onda del boom economico prometteva ai montanari un benessere prima impensabile, dunque incontestabile, e così è stato per qualche lustro; tuttavia non rivelava ciò che pretendeva in cambio per ottenere i propri scopi: che non poteva ammettere la comunità, la polis montana, la quale invece doveva essere – e infatti è stata – disgregata e frammentata, sfilacciando e sovente spezzando i legami che la tenevano insieme, come recita la definizione del termine, per fare in modo che chiunque vi facesse parte potesse e dovesse porsi al servizio degli scopi del turismo e delle esigenze del turista, nuovo e indiscusso protagonista della realtà montana in quanto strumento funzionale a quegli scopi e ai tornaconti di chi ne beneficiava… [⇒⇒⇒ continua su “L’AltraMontagna”, qui.]

[Rottami sciistici e scheletri alberghieri all’Alpe Bianca in Valle di Viù, provincia di Torino.]
P.S.: tutti gli articoli che ho scritto per “L’AltraMontagna” e lì pubblicati li potete trovare qui.

L’evoluzione tecnologica delle e-mtb, la devastazione naturale delle montagne

[Anno 1985, sulla rivista “Airone” viene presentato il “Rampichino” della Cinelli: inizia l’era delle mountain bikes.]

Spesso, tra chi si occupa di cose di montagna e in particolar modo di valorizzazione e tutela dei territori montani rispetto a certe pratiche contemporanee, ci si chiede quale possa essere lo step successivo di una di esse parecchio in voga oggi, il cicloturismo o mountain biking, oggi ormai quasi del tutto elettrificato. Avviatosi come disciplina innovativa che potesse rendere più accessibile certi percorsi fuoristrada a ciclisti non così performanti, si è rapidamente trasformata in una frenetica moda turistica, con relativo business, per la cui pratica di massa vengono realizzate numerose ciclovie in quota sovente mal progettate, impattanti e intaccanti terreni incontaminati e di grande pregio naturalistico: vere e proprie nuove strade in altura, scavate e spianate a colpi di ruspe anche lungo versanti ostici e non di rado cementate per lunghi tratti al fine di agevolare al massimo il transito ai cicloturisti, nemmeno si trattasse di percorsi urbani che debbano essere i più lisci possibile. Il risultato è drammaticamente deprecabile, inutile dirlo.

Di contro, come ogni fenomeno che viene reso moda di massa e per questo sottoposto al relativo consumismo, anche l’e-biking montano potrebbe presto evidenziare una crisi, le cui avvisaglie forse già si possono intravedere. Parimenti, come avviene in queste circostanze, chi spinge tali fenomeni e ci costruisce sopra un certo business elabora lo step successivo, qualcosa che possa nuovamente entusiasmare il pubblico, generare una nuova moda e naturalmente – vero e unico fine di tutto quanto – rinvigorire gli affari. Purtroppo la cronaca degli ultimi decenni di turismo montano basato su queste pratiche racconta senza ombra di dubbio come tale sviluppo continuo e inesorabile proponga cose sempre più insostenibili e impattanti per le montagne, le quali si trasformano di conseguenza in meri spazi da sfruttare e far fruttare al servizio delle fenomenologie turistiche imposte di volta in volta, senza alcuna attenzione alla salvaguardia ambientale, sociale, culturale e paesaggistica dei territori coinvolti. Una (non)filosofia “no limits” applicata anche al turismo di massa che sembra una vera e propria corsa al massacro – dei territori montani innanzi tutto, e poi per conseguenza inevitabile di tutto il resto.

Dunque, quale potrebbe essere la prossima evoluzione dell’e-biking montano? Be’, al riguardo di recente mi sono capitati sotto gli occhi alcuni articoli (qui e qui ad esempio) nei quali si può leggere così:

È un’e-bike o una moto elettrica? Difficile rispondere a questa domanda dopo uno sguardo superficiale a Xafari, nuovo modello lanciato da Segway-Ninebot per accontentare chi ama avventurarsi nell’offroad con una bici a pedalata assistita. Sì, si tratta infatti di una e-bike che però presenta uno stile e anche prestazioni decisamente vicine a quella di una moto a batteria.

Xafari ha una struttura molto solida, basata su un telaio a passo ridotto che ospita una batteria da ben 913 Wh e un potente motore da 750 watt: le sospensioni anteriori e posteriori, unite ai grossi pneumatici da 3 pollici di larghezza rendono questa e-bike adatta a qualunque tipo di evoluzione, su qualunque tipo di superficie.

Bici per gli amanti dell’avventura e che anche pedalando in fuoristrada non vogliono avere limiti. […] Con caratteristiche regolabili, notevole stabilità e connettività avanzata, queste bici ridefiniscono ciò che è possibile per le avventure fuoristrada.

«Qualsiasi tipo di evoluzione», «Non voler avere limiti», «ridefinire ciò che è possibile in fuoristrada»… questo, dunque, vorrebbe dire andare per montagne con una simile e-bike, questo l’atteggiamento sollecitato verso i territori in quota in sella a tali mezzi. Magari persino creduti “sostenibili” in quanto elettrici!

Ma ve le immaginate, queste mostruose “e-bike” (il modello in questione è ovviamente quello dell’immagine lì sopra) ormai divenute vere e proprie motociclette, sui nostri sentieri? Potete immaginare i danni che vi potrebbero causare e i pericoli per gli escursionisti che se le ritrovassero sul proprio cammino? Ancor più se messe nelle mani di “turisti della domenica” desiderosi di adrenalina in una sorta di pista da luna park montano e assai poco (o per nulla) consapevoli del luogo in cui stanno e dei comportamenti che imporrebbe!

Ecco: non sarebbe finalmente il caso di regolamentare a tutto tondo questo fenomeno, sia per quanto riguarda i mezzi e sia per i tracciati che vengono realizzati in quota a loro favore e a danno assoluto delle montagne che li subiscono? E ugualmente non sarebbe l’ora di finirla con queste mode turistiche così prive di considerazione e di cultura nei confronti dei territori montani e di contro sviluppare una frequentazione equilibrata, sostenibile e ben più remunerativa per le montagne e per le comunità residenti? O vogliamo continuare con la loro devastazione, materiale e immateriale, per poi ritrovarcele distrutte e deserte perché qualche nuovo fenomeno avrà spostato i flussi turistici altrove?

Bologna e le città «zona 30»: bene ma non benissimo (perché si deve poter fare di più!)

P.S. – Pre Scriptum: se qualcuno si chiedesse perché io, occupandomi abitualmente di cose di montagna, a volte scriva di città, rispondo che, per capire meglio i territori montani e come li abitiamo, ho studiato a fondo le città e gli spazi metropolitani, antitetici per molti aspetti (ma non tutti) ai primi e anche per questo significativi e istruttivi per essi – scrivendoci pure sopra dei libri, su alcune delle città a mio parere più interessanti. Ecco.

[Foto di CristinaLama da Pixabay.]
Come si può leggere sui media – io lo leggo da “Il Post” – da martedì 16 gennaio 2024 nella maggior parte delle strade di Bologna è in vigore il limite di velocità di 30 chilometri all’ora introdotto lo scorso luglio dall’amministrazione comunale per far diventare Bologna la prima grande “città 30” in Italia. Negli ultimi mesi sono stati posizionati nuovi cartelli, è stata dipinta per le strade la nuova segnaletica e sono stati installati sistemi di rilevazione del traffico in vista dell’entrata in vigore dell’ordinanza che autorizza i controlli e le sanzioni.

È una bella notizia per la città, che ancora una volta si dimostra più avanti delle altre italiane su molti aspetti (basti constatare i tentennamenti prolungati della “iper contemporanea” Milano, al riguardo), e al contempo è una novità che molti contesteranno, sovente in base a ragioni raramente comprensibili e più spesso insensate, fuori luogo, strumentali e ben poco civiche. D’altro canto diventare una “città 30” non determina solo l’imposizione di quel limite sulle proprie strade ma comporta l’adozione di un modello di gestione urbanistica piuttosto articolato: peraltro nelle città europee dove questo modello è stato adottato i risultati si stanno ottenendo e sono molto positivi (come rivela lo stesso articolo de “Il Post” già citato).

[Foto di Jonas Stolle su Unsplash.]
In qualche modo, però, la decisione bolognese la “contesto” anch’io, pur lodandola. Perché, ancora, si tratta di un palliativo al problema del traffico nelle nostre città e alle conseguenze che determina – che non sono solo quelle legate alla pericolosità delle strade ma pure all’inquinamento, alla gestione del trasporto pubblico e della mobilità sostenibile, alla vivibilità, al benessere di chi vi abita, alla socialità e non ultime allo sviluppo urbanistico futuro. E perché resto dell’idea – già espressa in questo altro mio articolo del giugno 2023 – che una città, per potersi definire veramente e pienamente avanzata ovvero per poter garantire ai propri abitanti e chi la viva frequentemente un autentico benessere e una conseguente autentica socialità civica, con i numerosi vantaggi che da ciò a cascata derivano, dovrebbe eliminare del tutto il traffico veicolare dalle proprie vie centrali. Il modello a cui puntare e da raggiungere, per essere chiari, non è quello di Bruxelles, Edimburgo o Berlino – tutte “città 30” con ottimi risultati al riguardo e per questo prese a esempio sul tema – ma è Oslo, la prima città al mondo (quasi) senza auto nel proprio centro, avendo spostato buona parte del traffico su strade sotterranee e incrementato il più possibile la capillarità e l’efficienza del trasporto pubblico. E che al proposito non vengano fuori le solite scuse «Ma è una città piccola!» (falso, ha più di 700mila abitanti, quasi il doppio di Bologna), «Ma loro hanno spazio!» (l’avremmo anche noi, se cementificassimo e consumassimo di meno il suolo a disposizione), «Ma quelli hanno i soldi!» (li avremmo anche noi, se ne sprecassimo di meno) eccetera. Sono tutte scuse puerili: la verità è che manca la volontà politica di procedere in questa transizione e parimenti – inesorabilmente – manca la cultura civica che la possa auspicare, richiedere e sostenere.

In ogni caso, al netto di queste mie considerazioni – che non sono affatto critiche ma vorrei che fossero propositive, per continuare lungo la strada intrapresa da Bologna e, spero, a breve da altre città – non si può che plaudere alla novità bolognese, finalmente un’iniziativa decisamente protesa al futuro. Quelli invece che la stanno contestando, quando lo facciano in base alle suddette immotivate ragioni, dimostrano solo di essere rimasti fermi a un passato e a una mentalità arretrata destinati a svanire del tutto molto presto.

Il Lago d’Aral e l’industria dello sci

[Foto di tunechick83 da Pixabay.]
Probabilmente numerosi di voi conosceranno la storia del Lago d’Aral, ne avranno letto da qualche parte o visto le inquietanti immagini che la testimoniano.

In passato il Lago o Mare di Aral (definizione adottata della lingua inglese, Aral Sea), che si trova in Asia centrale tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, era il quarto lago più esteso del mondo (circa 100mila kmq) al punto da essere definito “mare”, appunto. Oggi è ridotto al 10% della sua estensione originaria, persa in meno di 50 anni a causa dei prelievi massicci delle acque dei suoi immissari decisi a partire dagli anni Sessanta dall’allora governo sovietico per coltivare a cotone il deserto. Privato di gran parte dell’apporto dei corsi d’acqua che vi confluivano, il Lago d’Aral ha iniziato a ridursi progressivamente per la forte evaporazione: le acque si sono ritirate in tre bacini residui, lasciando una distesa arida, sabbiosa e salata (chiamata oggi deserto Aralkum), intrisa di residui di pesticidi provenienti dalle colture. La fiorente economia legata alla pesca è andata distrutta: nei bacini rimasti, la salinità era così elevata che i pesci sono quasi del tutto scomparsi. Uno dei più grandi disastri ecologici della storia umana, insomma.

Le immagini del Lago d’Aral che probabilmente avrete visto e che vi saranno risultate più emblematiche al riguardo, oltre a quelle aeree e satellitari che evidenziano la sparizione delle sue acque, sono di sicuro quelle delle numerose navi rimaste in secca nei porti scomparsi o adagiate in abbandono su quello che fino a qualche decennio fa era il fondale sottomarino e ora è il deserto Aralkum.

Inutile rimarcare che da tempo, e tanto più oggi, da quelle parti nessuno ha più pensato di spendere soldi per costruire nuove navi che possano solcare le acque dell’Aral, visto che di acqua nel lago non ce n’è praticamente più.

Be’, quando leggo sui media titoli e notizie come che vedete qui sopra (fateci clic per leggerla), mi viene in mente la storia del Lago d’Aral, già.

Cioè di quando nel bacino un po’ di acqua ce n’era ancora ma molto meno rispetto a un tempo e si era ormai compresa la sorte inesorabile che il lago avrebbe subìto. Al punto che laggiù non vi si costruirono più imbarcazioni ne piccole ne grandi che lo potessero navigare, come detto. Avrebbe significato buttare una gran quantità di soldi al vento, in buona sostanza. Come avreste guardato, e cosa avreste pensato, nel vedere qualcuno varare nel basso e irregolare fondale salmastro superstite di quello che un tempo era l’Aral un maxi-yacht, pure alquanto lussuoso, del costo di svariati milioni per giunta di origine pubblica?

Una follia, in buona sostanza.

Ecco. A leggere le suddette frequenti notizie, sembra che qui sì, se ne vogliono costruire ancora e parecchie di “grandi navi” nonostante l’acqua, nella forma cristallina che ricopriva e imbiancava le montagne al punto che un tempo si potevano facilmente definire un “mare” di neve, stia ugualmente diminuendo sempre di più, purtroppo. Già.