La miseria mentale corre sulle ciclovie montane

Ahinoi nessun arresto, nessun sussulto di inorridimento si alza per la devastazione in corso dei sentieri valtellinesi, in nome di inarrestabili smanie di ristrutturazioni viabilistiche. Una miseria mentale che corre sulle nuove ciclovie e sulle maledette biciclette elettriche.
Quanto vale una radice? Un gradino di pietra, un muro storto? Un piccolo solco inciso nella cotica erbosa, contornato dai rododendri?
Cosa rappresenta una vecchia pista? Un’antica via? Cosa giustifica la cancellazione dei segni di passaggio impressi nei sentieri noti e meno noti disseminati sulle nostre montagne?
Per secoli abbiamo camminato a piedi per queste vie accidentate, aperte a tutti. Generazioni di donne e uomini hanno vissuto e lavorato lungo questi sentieri.
Oggi stanno sparendo, non solo per l’assenza di una misurata manutenzione ordinaria collettiva, ma per l’insana follia di “valorizzazione” che li vede sacrificati in nome di una nuova accessibilità. Interventi fuori misura, centrati su un’idea distorta superficiale e fuorviante di inclusione, che equipara le barriere naturali con quelle architettoniche.
Perché in ossequio alla moda della “ciclabilità” arriviamo ad eliminare radici e gradini troppo alti, raccordare dislivelli creati dalla presenza di rocce affioranti o creare nuovi passaggi in corrispondenza dei guadi o di alcune zone paludose?
Perché le flebili forme di “valutazione di incidenza” producono pagine e pagine di relazioni vuote, che considerano la tutela solo in funzione di motivazioni economiche, di aree protette, del computo analitico di emissioni, senza considerare che, almeno in alcuni luoghi particolari, la semplice alterazione permanente di un sentiero di grazia costituisce valido motivo per lasciarlo così come da sempre lo conosciamo?

[Clic.]
Michele Comi, sulla propria pagina Facebook il 7 dicembre 2022, riassume efficacemente tutta la pericolosità di tante attuali iniziative di “valorizzazione” turistica delle montagne: prive di qualsiasi cultura, conoscenza, competenza, sensibilità, cura, visione dei monti, e ricche di prepotenza, boria, imperizia, incultura, egoismo nonché di finalità del tutto avverse alla realtà passata, presente e futura delle terre alte. Il primo passo per poter fare cose buone, in montagna, è opporsi fermamente a queste cose pessime, l’atto basilare per innovare paradigmi altrimenti obsoleti, fallimentari, pericolosi e finalmente cambiare le sorti dei territori montani. Per il bene loro e di noi tutti.

(Nell’immagine in testa al post: Il benessere si esplicita in fondoschiena robusti, disegno di Giuseppe Galimberti, tratto da Memorie di un architetto di provincia.)

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Delitti montani

Delitto”. Da delìnquere, derivante dal latino delinquĕre che significa «venir meno (al dovere)», a sua volta forma composta di de- e linquĕre «tralasciare».

Così si legge sul Vocabolario Treccani alla relativa voce. Ecco, di fronte a certe azioni, ai progetti che vi stanno alla base e a quelli che si vorrebbero forzatamente imporre ai territori di montagna e che ad essi appaiono palesemente avulsi, fuori contesto, rozzi, impattanti, degradanti, io dico che bisognerebbe cominciare a definirli per ciò che realmente sono: delitti, contro la montagna, la sua cultura, il suo buon futuro e contro le comunità che le abitano, soggiogate a tali politiche così deviate e convinte ipocritamente che siano attuate per il loro bene, il che ne accresce la natura bieca.

In effetti avrei potuto utilizzare un termine ancora più forte come “crimine”, ma voglio coltivare – forse con eccessiva ingenuità – una pur flebile speranza che i promotori di quegli interventi vogliano arretrare rispetto ai passi finora compiuti e non andare invece ancora oltre, comprendendo finalmente la portata e l’impatto delle loro azioni e delle decisioni antecedenti non solo nella realtà presente ma soprattutto in quella futura e sotto ogni punto di vista.

Dunque, quello immortalato da Michele Comi nelle immagini presenti in questo post (è la nuova “ciclovia” realizzata in Val Poschiavina, laterale della Valmalenco famosa per la sua bellezza alpestre un tempo meravigliosamente intatta e ora vergognosamente sfregiata dalle ruspe) per me è un delitto, punto. E lo sono gli innumerevoli altri interventi basati sulla stessa deviata e pericolosa forma mentis: delitti, cioè – si veda la definizione lì sopra – atti che vengono meno al dovere di salvaguardare e di sviluppare virtuosamente la montagna in quanto patrimonio di tutti, azioni che tralasciano qualsiasi cura e consapevolezza verso i territori montani e le loro realtà naturali e antropiche. Delitti, non altro.

Delitti, ribadisco.

DELITTI. Ok?

Ecco, posto quanto sopra, è sempre più fondamentale che la montagna torni ad essere considerata tale: quale ambito culturale, economico, sociale, antropologico, patrimonio prezioso di tutti e poi, in base a ciò, gestita politicamente in modo consono alla sua realtà, ai suoi bisogni, a ciò che realmente si può definire “sviluppo” nel senso più ampio e compiuto del termine. Si smetta dunque una volta per tutte di considerarla un oggetto di consumo da patrimonializzare e vendere ovvero un banale divertimentificio ad uso di un turismo volgarizzante, e trasformata in un luna park le cui giostre risultano inquinanti non solo ecologicamente ma pure, e soprattutto, culturalmente. Altrimenti una sorte assai triste per le montagne e per chiunque le frequenta, da semplice visitatore o da residente stanziale, sarà inevitabile.

Usiamo i giusti termini, quindi, per definire certi “progetti”, fino a che le giuste azioni – consone, contestuali, equilibrate, meditate, sensate, virtuose, proficue, belle e ben fatte – a favore delle montagne non verranno finalmente attuate.

P.S.: qui potete leggere un articolo che “La Provincia di Sondrio” ha dedicato alle osservazioni di Michele Comi in merito ai nuovi progetti turistici presentati per la Valmalenco.

L’uomo e il selvatico

[Vedute alaskane. Foto di Blake Guffin da Unsplash.]

Il selvatico non è ospitale, ignora l’esistenza dell’uomo, dei suoi valori e della sua cultura. Non c’è nessuna possibilità per noi di essere così come siamo, intatti, lì dentro. Per questo motivo tutte le spedizioni alpinistiche sono in primo luogo equipaggiamenti, preparazione atletica, training psicologico. L’uomo in quanto tale deve trasformarsi in una specie di mito tecnologico e morale, superiore agli elementi, perché, prima di tutto, non li può vedere.

[Marco Triches, Diario delle Alpi, MonteRosa Edizioni, 2022, pag.125. Per leggere la mia recensione al libro, cliccate qui.]

“Ambientalismo da salotto”?

[Immagine tratta da www.italiaonline.it.]
Quando scrivo di progetti e infrastrutture realizzate in montagna che personalmente ritengo opinabili quando non deleterie, e ciò che scrivo rimbalza qui e là sul web e sui social media, puntualmente spuntano i commenti di chi ritiene le mie considerazioni «ambientalismo da salotto» o di uno «che vive in città e non conosce la montagna» oppure sentenzia che sarei tra quelli che non vogliono che si tocchi e si faccia nulla, in montagna, che «a non far niente non si sbaglia mai» (cit.)

Bene, per quanto mi riguarda (ovvero parlo per me, ma forse altri la pensano come me): non sono un ambientalista dacché non ho doti e virtù per esserlo (cos’è un “ambientalista,”, poi?), vivo in montagna, girovago in quota appena posso, studio la cultura alpina sotto diversi aspetti, lavoro su progetti culturali per i territori montani. Non sono affatto contrario a fare cose, in montagna, ma sono contrarissimo a farle male e vorrei che le cose fatte in montagna fossero basate sul buon senso e sulla conoscenza scientifico-culturale dei luoghi, non sull’ammontare del profitto possibile o sulla convenienza del momento. Vorrei che le cose fatte in montagna avessero una visione strategica sviluppata nel tempo e non solo un interesse limitato al qui-e-ora, vorrei che fossero il frutto di una progettualità attenta, meditata, strutturata, non di iniziative messe in piedi al volo per sfruttare i vantaggi del momento e giustificate da meri slogan propagandistici, vorrei che fossero condivise con chiunque vive e lavora nel territorio oggetto degli interventi, non solo con gli amici e i sodali, vorrei che non fossero sempre così autoreferenziali ma georeferenziali cioè che avessero sempre al centro il luogo e non chi lo comanda, vorrei che quanto più alto sia l’ammontare dei soldi pubblici investiti tanto più le opere relative promuovano vantaggi che siano i più ampi e condivisi possibile e non il contrario, vorrei che finalmente tali opere e le idee da cui nascono riconsiderassero economia e ecologia come due elementi consonanti, non contrapposti. L’ambiente è importante, la sua salvaguardia è imprescindibile ma, prima, lo deve essere la coerenza, la visione, la consapevolezza, la responsabilità verso ciò che si sta facendo sotto ogni punto di vista: politico, economico, sociale, ecologico, culturale… ogni punto di vista ovvero ogni ambito che è parte del luogo in cui si interviene e ne forma il contesto. E resto convinto che possa essere molto meno dannoso, per dire, un grande edificio di cemento e acciaio, se ben studiato e armonizzato al luogo, che una qualsiasi piccola opera la quale non c’entri nulla con il luogo nel quale viene piazzata, con la sua storia, il suo ambiente naturale e il suo paesaggio. Se la prima cosa non è certamente semplice da concepire, la seconda è fin troppo facile da realizzare, con tutti i conseguenti danni che si possono così diffusamente contemplare.

Ecco. Forse il nocciolo della questione è proprio quell’affermazione, «a non far niente non si sbaglia mai» ovvero il suo opposto: a pretendere di poter fare qualsiasi cosa, si sbaglia quasi sempre. Solo a fare le cose con intelligenza e buon senso facilmente ne verranno fuori opere “giuste”, apprezzabili, gradevoli, encomiabili. D’altro canto questa è una cosa che si impara fin da piccoli, che bisogna usare la testa a fare le cose, no? Evidentemente qualcuno, crescendo, se la scorda. Chissà come mai.