Ringrazio di cuore la redazione di “Varese Press” per aver dedicato un articolo all’uscita del mio ultimo libro Il miracolo delle dighe – cliccate sull’immagine qui sopra per leggerlo. Spero di essere presto in zona per presentare il libro e così approfittarne per visitare un lago artificiale relativamente piccolo ma assolutamente particolare, il Lago Delio, contenuto da due sbarramenti non certo ciclopici ma a loro modo affascinanti per come “sospendano” le sue acque, il cui bacino è un catino appoggiato a 930 m di quota sulla sella tra il Monte Borgna e il Monte Cadrigna, sopra quelle del Lago Maggiore. Lo si vede bene nella foto qui sotto pubblicata.
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La diga che «umanizza» la Natura
Gli uomini sbarrano un fiume, lo sbarramento dà origine a un lago: il nuovo elemento, benché divenuto parte della Natura, assorbito nei suoi ordini, esprime la misura dell’umanizzazione, diventa testimonianza per l’uomo della sua capacità di umanizzare, anche se la diga, proprio perché sottostà ancora a leggi di Natura, può sempre sfuggire al suo controllo. Il lago non è però soltanto il risultato di una conoscenza dei fenomeni necessari alla sua costruzione: ma anche della conoscenza dei fini che con tale opera gli uomini si propongono. Fini e possibilità realizzative entrano nei mezzi e nelle esigenze di una civiltà particolare, che in questo caso può essere quella industriale, la quale costruisce bacini idrici per fornire acqua d’irrigazione alle campagne durante la stagione arida o per produrre l’energia elettrica necessaria alle proprie attività. Ogni forma di umanizzazione si realizza secondo finalità e mezzi diversi a seconda delle culture, delle istituzioni e degli strumenti di cui essa si serve per instaurare un rapporto concreto e positivo tra uomo e Natura. Umanizzare la Natura ha quindi, in prima istanza, il significato di una sua annessione culturale al mondo dell’uomo.
È assolutamente emblematico che una figura fondamentale per lo studio delle geografie e dei paesaggi del mondo abitato dall’uomo come il grande Eugenio Turri abbia spiegato, in Antropologia del paesaggio (volume altrettanto fondamentale), il suo concetto di «umanizzazione» prendendo a esempio la costruzione di una diga. Per me, poi, leggere queste considerazioni di Turri quando il lavoro di stesura del testo de Il miracolo delle dighe era già a buon punto è stato oltre modo particolare e sorprendente: perché quelli espressi da Turri sono gli stessi principi sui quali ho costruito molta della narrazione del mio libro, che non parla tanto di dighe quanto parte dalle dighe per osservare il paesaggio d’intorno, quello alpino nello specifico, per esplorare la storia della relazione con esso degli uomini attraverso i segni antropici inscritti tra i monti, dei quali le dighe sono ovviamente quelli più ciclopici e significativi, nonché per partire materialmente – cioè escursionisticamente – dalle dighe e parimenti esplorare i territori delle Alpi che ospitano alcuni dei più grandi sbarramenti idroelettrici, ricavandone un particolare diario di viaggio, di cammini, di visioni, emozioni e intuizioni. In pratica, facendo della diga la “prima pagina”, in qualche modo la prefazione, del grande libro di storia dell’uomo nelle Alpi e così leggendo tutte le altre pagine – di roccia, erba, terra, neve, ghiaccio – delle quali le montagne sono fatte, quelle che descrivono il paesaggio che tutti noi possiamo cogliere, ammirare, meditare.
Mi auguro dunque, se vorrete leggere Il miracolo delle dighe, che possa diventare anche per voi il punto di partenza per camminare, vagabondare, esplorare, scoprire le montagne e poi, osservando il loro paesaggio dal coronamento delle dighe quale postazione insolita e privilegiata di osservazione attenta, che possiate formulare di conseguenza una più profonda e sentita relazione con quelle montagne e con il mondo – d’alta quota e ugualmente di bassa quota – che tutti insieme quotidianamente viviamo.
Il miracolo delle dighe. Breve storia di una emblematica relazione tra uomini e montagne
Fusta Editore
Data di Pubblicazione: 18 maggio 2023
EAN: 9791280749451
ISBN: 1280749458
Pagine: 128, con appendice fotografica
Prezzo: € 17,90
In vendita da maggio 2023 in tutte le librerie e nei bookstores on line.
(Cliccate sull’immagine delle copertine per saperne di più sul libro. La fotografia in testa al post è una veduta della diga di Fedaia, una di quelle di cui scrivo nel libro. Foto di Syrio, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.)
Ciclocrimini alpini
Continua la distruzione della storia e dell’identità delle Alpi, inscritte sul terreno da segni antropici secolari che hanno consentito agli uomini del passato di trovare un equilibrio vitale ancorché duro – ma onesto, leale – con le montagne, per far posto e spazio agli uomini del presente che, in sella alle loro fiammanti ebike sempre più simili a motociclette con i pedali, pretendono di imporre la loro identità e inscrivere delle storie – anzi, stories, per come nella sostanza assomiglino a quelle fugacissime e banalizzanti dei social – aggressive, bieche, prepotenti, che chissà quanto dureranno prima di dover far posto ad un’ennesima nuova moda. Ciò con la compiacenza di amministratori locali ai quali tutto interessa fuorché amministrare con buon senso il proprio territorio verso il quale non perdono occasione per dimostrare tutto il loro disprezzo, evidentemente.
Ma dimenticano, questi amministratori scriteriati, che il disprezzo dimostrato verso le loro montagne, ovvero la mancanza di cura e di conseguente buon governo di esse, vi resta inesorabilmente inscritto proprio grazie a ciò che avvallano, come ferite infette vergognosamente inflitte a colpi di escavatori sul corpo della montagna umiliata per correr dietro alle sirene del turismo massificato e a quelle della propria autoreferenzialità. Ferite così evidenti da non poter e non dover essere dimenticate: ancor più se messe nero su bianco su una possibile denuncia, sperando che ve ne siano i margini – e purtroppo non sempre è così, quando si è costretti ad agire dopo l’inizio dei lavori.
Tuttavia, ribadisco, la vergogna verso tali opere non abbisogna di alcun avvallo giuridico.
Nella foto, di Michele Comi: la distruzione a colpi di escavatore dell’antica Cavallera del Muretto, in Valmalenco, per livellarne la superficie ad uso meramente cicloturistico. Che le mie parole qui espresse servano anche a rendere ancora più chiare quelle espresse da Comi a corredo dell’immagine.
P.S.: ovviamente – ma serve dirlo? Forse sì, ai poveri di spirito – personalmente non sono contro tutte le opere dedicate alla pratica del cicloturismo in quota, se fatte con criterio, buon senso, rispetto per le montagne e, ancor più, senza ignorare o derogare norme giuridiche vigenti. Ma anche per questo vorrei che ci fossero molti più controlli, e ben più rigorosi, attorno a tali lavori. Al momento non mi pare che ve ne siano a sufficienza, al netto di rarissimi casi – come scrivevo ieri qui.
Sabato scorso, parlando di montagne e turismi al Palamonti di Bergamo
È stato un vero piacere per me intervenire lo scorso sabato 27 maggio al Palamonti di Bergamo nel contesto del corso di aggiornamento degli operatori lombardi TAM – Tutela Ambiente Montano – del Club Alpino Italiano, dedicato al tema del turismo invernale, sciistico e non solo, rispetto ai cambiamenti climatici in corso e in generale alla realtà montana contemporanea.
Un piacere nonché un grande onore di aver condiviso questo compito con il professor Federico Nogara, uno degli estensori del documento di posizionamento del CAI Cambiamenti climatici, neve, industria dello sci, il testo con il quale il sodalizio italiano ha messo nero su bianco la propria posizione ufficiale al riguardo e che ha fatto da fulcro tematico alla giornata, attorno al quale ho sviluppato il mio intervento dedicato alla questione dell’overtourism in montagna, dunque al sovraffollamento turistico nei territori montani turistificati, all’analisi del fenomeno, alle realtà, le prospettive, i paradossi e le pratiche a tutela del paesaggio montano.
È stato infine bello e interessante confrontarci con gli operatori presenti, in un dibattito consapevole tra didattica scientifica, pratica esperienziale e realtà sul campo intorno al buon futuro delle nostre montagne, delle comunità residenti e di ciò che può e deve essere il turismo nelle terre alte.
Ringrazio di cuore Mariangela Riva, Presidente della Commissione Regionale lombarda TAM, per avermi coinvolto nella giornata e per le fotografie che vedete a corredo di questo articolo.
In montagna si «vive», sempre!
P.S. – Pre Scriptum: questo articolo, che scrissi per un altro blog, risale a più di cinque anni fa. Credo tuttavia che l’avrei potuto scrivere poco fa e sarebbe uscito sostanzialmente uguale: per ciò che vi è scritto e, ancor più, per l’idea dalla quale ciò che potete leggervi nasce. Un’idea che a sua volta scaturisce dalla relazione con la montagna che da lungo tempo cerco di approfondire sempre più: non so se con successo, ma ci provo.
Buona lettura.
Questo deve diventare un “nuovo” (sempre che tale possa essere considerato) paradigma fondamentale, se si vuole che la montagna torni a vivere veramente. Non più un luogo dove alcune persone vivono e altre persone fanno qualcosa d’altro. No: ci si resti per solo qualche ora o per un’intera esistenza, lo stare in montagna deve sempre essere sinonimo di vita, dunque di completa e profonda consonanza con l’ambiente montano. Un ambiente che è vivo in ogni suo elemento, e che dunque richiede altrettanto a chiunque decida di interagirvi. Le separazioni sociali e commerciali tra abitanti e villeggianti, tra residenti e turisti (e per certi versi pure tra “montanari” e “cittadini”), non hanno più senso o, meglio, risultano del tutto antitetiche ad un rinnovato sviluppo autentico e virtuoso dell’ambiente montano. La montagna non è un oggetto, non lo è mai stato ma per troppo tempo così è stata considerata: un “mezzo”, uno strumento per conseguire certi interessi più o meno futili o leciti, quindi una merce da vendere, utilizzare e poi lasciarsi alle spalle. Qualcosa di sostanzialmente inerte, insomma, quando di contro è un ambito, la montagna, che come pochi altri rappresenta la vita alla massima potenza – il suo essere un iper luogo viene proprio (anche) da qui. Giammai “oggetto” ma soggetto, entità, essenza, come già veniva considerata da numerose popolazioni antiche e come oggi si ricomincia a considerare anche dal punto di vista giuridico (come di recente accaduto con il Monte Taranaki in Nuova Zelanda, ad esempio). E non si credano queste mere iniziative “esotiche” di paesi lontani e diversi: c’è molto di che riflettere e imparare, da parte nostra, riguardo tali realtà.
D’altro canto non c’è bisogno, in fondo, di spingersi in considerazioni di natura “panteista” dacché non serve (non dovrebbe servire) di rimarcare quanto sia oggi necessario, doveroso, imprescindibile salire verso l’alto per vivere la montagna, per esserne parte attiva e virtuosa e non più per altro. Chi va sui monti, fosse solo per qualche ora ovvero per motivi del tutto ricreativi, deve starci come se ci vivesse da sempre e come se per sempre dovesse viverci, deve comprendere come la sua presenza in quel territorio massimamente vivo non possa contemplare alcuna passività perché il territorio e l’ecosistema montano sono vivi della vita che ogni elemento vi apporta, così come subiscono danni e alterazioni se accade il contrario, se vi viene apportata inerzia, incuria e nocività. C’è la vacanza, la giornata di divertimento, il relax, ci mancherebbe: ma nessun momento pur meramente ludico può esimersi nella sostanza dall’essere un momento di vita piena proprio perché vissuto in un luogo che è pieno di vita. Cosa che, per giunta rende, la vacanza o la giornata di relax ancora più bella, più divertente e ritemprante, più memorabile.
Sia chiaro: è un principio, questo, che vale per qualsiasi territorio. Tuttavia, se possibile, in montagna vale ancora di più e assume significati ancora più emblematici. In fondo, sostenere che sui monti la vita si eleva verso l’alto come in nessun altro posto non è cosa affatto insensata né tanto meno metaforica. Anche per questo, dunque, in montagna si vive e si deve vivere sempre. Ogni altra presenza, lassù, ogni altro modus vivendi, ogni altro “stare”, obiettivamente con la montagna, e con il buon futuro di essa, non c’entrano – non possono c’entrare più nulla.