(Non) capire lo sci

In effetti posso (tentare di) capire la sensazione vivida di “accerchiamento” che percepiscono i gestori dei comprensori sciistici, per come sugli organi di informazione, da fonti diverse e con frequenza sempre maggiore, si possono leggere e sentire articoli o servizi che raccontano della crisi sempre più profonda nella quale stanno scivolando i suddetti comprensori sciistici e di come risulti oltremodo necessario ripensare il turismo montano invernale, posta innanzi tutto la realtà climatica in divenire ma non solo per questo (uno dei quali è quello de “Il Post” del 9 febbraio 2023 che vedete qui sotto: cliccate sull’immagine per leggerlo). Accerchiamento al quale gli impiantisti reagiscono con rabbia sempre meno malcelata, accusando chi sostiene il bisogno di ripensare il turismo invernale (anche) di voler mandare al fallimento le società di gestione degli impianti di sci e così di creare migliaia di disoccupati e rilanciando ossessivamente l’idea che senza lo sci la montagna e la sua economia morirebbero.

Lo posso “concepire”, quel loro atteggiamento, perché posso immaginare come sempre più gli impiantisti sentano venir meno la terra da sotto i piedi o, per meglio dire, la neve da sotto i piedi, proprio per i cambiamenti climatici in atto, e ciò generi loro un panico difficilmente represso. Ma se è concepibile e immaginabile, la loro posizione, non è d’altro canto affatto comprensibile. Il panico che si intravede dietro le suddette reazioni irose – che purtroppo non di rado sfociano in atteggiamenti da negazionismo climatico – è a ben vedere per gran parte colpa di loro stessi, e del loro essere rimasti sostanzialmente immobili rispetto a un’evoluzione sempre più problematica del clima sulle montagne che la scienza registra e prevede da decenni, la quale da tempo ha già causato la chiusura di numerose stazione sciistiche di bassa quota. L’unica reazione formulata da parte degli impiantisti, in pratica, è stata quella di aumentare sempre di più l’utilizzo della neve artificiale, salvando le piste da sci ma non i propri bilanci e pure qui con un crescendo drammatico, visti i costi attuali dell’energia e l’impatto sui patrimoni idrici locali, il che ha generato da un lato un circolo vizioso di continue elargizioni di soldi pubblici da parte dello stato e delle regioni e, dall’altro, di aumenti dei costi degli skipass insostenibili per molti: non a caso il numero di sciatori è in costante decremento da tempo, al netto delle fluttuazioni stagionali e dei casi particolari.

In fondo non lo si può capire, l’atteggiamento degli impiantisti, perché sono proprio loro a non capire la realtà dei fatti, come stanno andando le cose, come sarà il futuro prossimo (sperando che quello più lontano non si manifesti ancora peggiore di quanto oggi è prevedibile). Dal mio punto di vista il nocciolo della questione non è tanto l’essere a favore o contro lo sci su pista, ma è richiedere fermamente che, vista la realtà delle cose, lo sci su pista garantisca una sostenibilità ecologica e economica la più compiuta possibile evitando definitivamente di palesarsi per ciò che spesso oggi appare, ovvero un sistema di sfruttamento eccessivo e di degrado dei territori montani che non agevola affatto l’economia locale, anzi la danneggia proprio in forza della sua impronta sproporzionata avvantaggiando (temporaneamente e occasionalmente) solo chi è direttamente coinvolto nella gestione finanziaria dei comprensori.

Se gli impiantisti sapessero assicurare quanto sopra, e nel caso in cui i loro comprensori fossero posti oltre il limite dei 1800-2000 m che tutti i rapporti scientifici e climatici fissano come quello al di sotto del quale l’innevamento – né naturale e né artificiale, in forza delle temperature – non sarà più garantito, la loro attività sarebbe obiettivamente ammissibile e giustificabile. Per lo stesso principio di obiettività, i comprensori sciistici al di sotto di quelle quote e finanziariamente dipendenti dai contributi pubblici non è logico che possano restare in attività: dura quanto possa essere una verità del genere, non ci si può sfuggire ma può certamente diventare lo stimolo e il punto di partenza per un ripensamento della frequentazione turistica dei relativi territori ben più sostenibile, consona al luogo, contestuale alle caratteristiche climatiche, innovativa e, perché no, alla fine più redditizia di un’attività sciistica oltre modo esosa e totalmente dipendente dalle variabili meteorologiche e del clima nonché più soddisfacente per il potenziale pubblico, che parimenti con maggior facilità potrebbe essere fidelizzato alla frequentazione del luogo proprio perché a sua volta reso meno dipendente da fattori esterni alle peculiarità turistiche locali.

D’altro canto, l’alternativa a tale ricontestulizzazione deli comprensori sciistici sostenibili e al ripensamento di quelli inesorabilmente destinati a cessare l’attività è solo l’incancrenimento dell’immobilismo a difesa degli impianti a far da prologo al definitivo fallimento non solo dei comprensori così mal gestiti ma di tutto il loro territorio montano, come una nave dallo scafo pieno di falle che mai sono state riparate e nemmeno ci si è voluto premunire di scialuppe di salvataggio, così che, quando rapidamente colerà a picco, vi saranno ben poche alternative alla conseguente fine.

Dunque, gli impiantisti in verità si dovrebbero certamente sentire “accerchiati” ma innanzi tutto da se stessi e dalle loro alienazioni turistico-imprenditoriali. Ed è un peccato che non capiscano (non vogliano capire) perché sempre più persone come me non comprendono il loro comportamento, ovvero non capiscono la realtà nella quale tutte le montagne, e tutti noi che le frequentiamo, stiamo dentro. L’augurio fervido è che sappiano farlo quanto prima, il tempo rimasto non è ormai molto ma solo in ottica sciistica: le montagne invece sono lì che attendono soltanto la nostra più consona, consapevole e sostenibile presenza, per il bene di chiunque le ami e ne voglia salvaguardare l’insuperabile e insostituibile bellezza.

(L’immagine in testa al post è di ©Mischa Heuer ed è tratta dalla pagina Facebook “Alto-Rilievo/voci di montagna”, qui. Ringrazio molto Pietro Lacasella, gestore della pagina, per la concessione e le info sull’immagine.)

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La siccità della burocrazia (ma non sulle piste da sci)

[Immagine tratta da www.dissapore.com.]
A proposito di quanto ho scritto solo qualche giorno fa sulla realizzazione di bacini idrici per dotarsi di riserve d’acqua in vista di una nuova e probabile siccità ma nei posti sbagliati (ovvero dove non servono per ciò che dovrebbero principalmente servire):

(Il) cosiddetto “piano laghetti” punta a sostenere vecchi e nuovi progetti di invasi artificiali in tutte le regioni con l’obiettivo di evitare la dispersione di acqua e soddisfare il fabbisogno idrico.
Nonostante l’enfasi con cui era stato rilanciato lo scorso anno, finora i risultati del piano laghetti sono stati scarsi: ne sono stati fatti pochi e in ritardo rispetto alle previsioni iniziali. L’invaso di Castrezzato [in provincia di Brescia, n.d.L.] è la dimostrazione delle difficoltà dovute principalmente alla burocrazia: è il primo realizzato in Lombardia, sei anni dopo la legge regionale che aveva consentito di sfruttare le ex cave come bacini artificiali.

Da Cosa è questo “piano laghetti” contro la siccità, articolo pubblicato su “Il Post” in data 1 marzo 2023: lo potete leggere interamente cliccando sull’immagine in testa al post.

A leggerlo, ecco sorgere un’ennesima domanda spontanea: possibile che la realizzazione di bacini idrici in pianura venga resa tanto difficoltosa dalla burocrazia mentre quella dei bacini in montagna al servizio dell’industria dello sci e della produzione di neve artificiale sia così facilitata, vista la frequenza con la quale vengono realizzati un po’ ovunque?

Artavaggio, nemo propheta in patria

P.S. (Pre Scriptum): per chi l’abbia perso e ne fosse interessato, ripropongo di seguito l’articolo sulla questione dello sviluppo turistico dei Piani di Artavaggio (Valsassina, provincia di Lecco – ma le cui osservzioni possono ben valere per molte altre località similari) pubblicato martedì 21 febbraio su “Valsassina News”. Come sempre, con la speranza di poter contribuire ad attivare un dibattito approfondito e consapevole riguardo il luogo, le sue peculiarità e il suo miglior futuro possibile, turistico e non solo.

Da Per una rigenerazione dell’Appennino Tosco-Emiliano: turismo, sostenibilità e sviluppo territoriale nel Parco Regionale Corno alle Scale, CAST – Centro di Studi Avanzati del Turismo, Università di Bologna (Campus di Rimini), marzo 2020, pagg.134-135:

«Se l’obiettivo primario è quello di investire sulla stazione sciistica, è bene seguire le best practice di stazioni sciistiche di piccole-medie dimensioni che hanno messo in atto recentemente delle strategie di rivitalizzazione del turismo (WTO, 2018). […] Emerge dunque la necessità di ampliare il portfolio di attività invernali per creare nuove opportunità di spesa per i visitatori, tenendo presenti i cambiamenti nelle loro preferenze e in una prospettiva di medio-lungo termine. In questo senso, la visione preferita registrata dai turisti oggetto della nostra indagine è quella che vede il rinnovamento e l’ammodernamento degli impianti, ma legandoli al potenziamento di forme di turismo diverse. ln questa direzione può essere utile ricordare le recenti esperienze di:
Valsassina in Lombardia, una stazione sciistica a bassa quota vicino a Milano, dove l’offerta dei tre piccoli resort che compongono la stazione è stata differenziata, dirigendola verso segmenti di mercato diversi. Il primo resort, di maggiore altitudine (Piani di Bobbio), è dedicato allo sci alpino in inverno e alla MTB in estate; il secondo (Piani di Artavaggio) è specializzato in sci di fondo, ciaspolate e attrazioni per famiglie; il terzo (Pian delle Betulle) è focalizzato sull’estate e offre un parco avventura.
– Cervinia in Valle d’Aosta, a fronte di una diminuzione nelle precipitazioni nevose, ha attuato un efficientamento degli impianti, riducendone il numero e aumentando la capacità degli ski-lift.
– Allgäu in Bavaria (Germania) ha un’ampia varietà di attrazioni naturali e culturali, ma si è posizionata come destinazione di wellness, promuovendo la cura che prende il nome da Sebastian Kneipp, originario di quella località.»

Tra gli innumerevoli documenti che abitualmente studio in tema di territori montani e loro frequentazione, qualche giorno fa mi è ricapitato tra le mani il report sopra indicato, dedicato all’area appenninica citata ma veramente ben strutturato e ricco di analisi alquanto interessanti e utili anche a molte altre zone montane che godono di una frequentazione turistica – o che la subiscono.

In esso, nel passaggio citato, i ricercatori del Centro di Studi Avanzati del Turismo dell’Università di Bologna citano tre casi evidentemente considerati indicativi riguardo il tema in questione, tra i quali c’è quello della Valsassina, portata a esempio di una riqualificazione diversificata delle proprie aree montane in forza dell’evoluzione climatica e socioeconomica degli ultimi decenni e, dunque, indicata come modello potenziale di rigenerazione post-sciistica di successo.

Ovvero, in parole semplici: uno dei centri accademici di studi sul turismo più importanti in Italia indica, nello specifico, i Piani di Artavaggio come caso virtuoso e emblematico di stazione ex sciistica riconvertita e rigenerata (come anche io con i coautori Sara Invernizzi e Ruggero Meles abbiamo raccontato sulla guida Dol dei Tre Signori, il cui itinerario escursionistico transita proprio da Artavaggio) e invece, purtroppo, gli amministratori locali vorrebbero riportarci lo sci costruendo impianti e infrastrutture conseguenti, degradando il luogo e la sua storia recente facendola andare al contrario come fosse ferma a sessant’anni fa.

Non solo: nel frattempo si sta diffondendo un significativo fenomeno, lungo le Alpi italiane, attestato da numerosi articoli degli organi di informazione. Molte località sciistiche, o ex-sciistiche, che per un motivo o per l’altro non hanno aperto gli impianti di sci (per problemi finanziari delle società a cui fanno capo, assenza di concessioni, mancanza di gestori, eccetera) e per le quali tale chiusura è stata considerata da alcuni come «una catastrofe», «la morte della località», «la fine dell’economia locale» e via di questo passo, stanno invece vedendo un notevolissimo afflusso di gitanti, con parcheggi stracolmi, ristoranti e rifugi a pieno regime, scialpinisti e ciaspolatori un po’ ovunque, famiglie con bambini che si godono la sicurezza e la tranquillità di una gita sulla neve priva dei pericoli e dei disturbi che impianti e piste da sci inevitabilmente genererebbero, se aperti.

In pratica, dove un tempo si sciava e ora non più, e dove per questo qualcuno credeva ci sarebbe stato il “deserto”, c’è invece più gente di quando gli impianti erano funzionanti e più di altre località nelle quali i comprensori sciistici sono aperti. Cioè, sta accadendo quello che già da anni si constata ai Piani di Artavaggio, che dunque in tal senso risultano un modello turistico virtuoso (e profetico, appunto) divenuto col tempo esemplare per tante altre località montane rimaste senza impianti e piste da sci.

Ecco perché fin da quando è stato reso noto il progetto di “ritorno” dello sci ad Artavaggio e di costruzione dei relativi impianti e infrastrutture, ho subito affermato che era ed è una follia. Persino un prestigioso ente accademico di ricerca “forestiero”, ma che elabora studi scientifici per l’intero territorio montano italiano e non solo, ha ritenuto emblematico elevare la località valsassinese a esempio e modello, come detto: posto ciò, è veramente un gran peccato che gli amministratori locali non lo capiscano, non vedano e non percepiscano questa realtà. È un peccato che, come sembra, ignorino – o vogliano scientemente ignorare – il grande valore e il prestigio che Artavaggio si è costruita negli ultimi anni, e che invece minaccino di farla ritornare a essere un’anonima, banale, trascurabile stazione sciistica, che dilapiderebbe in breve tempo il patrimonio di consensi costruito negli anni e per giunta resterebbe a costante rischio di fallimento – economico, turistico, ambientale, culturale.

Mi piacerebbe moltissimo dirimere tali inquietudini e i relativi dubbi – che so hanno come me tanti altri frequentatori di Artavaggio e delle montagne della Valsassina. Perché, ribadisco, non c’è solo in gioco la mera questione “sci sì/sci no”, ma l’intero territorio e il suo buon nome, la storia virtuosa costruita negli ultimi anni, l’ambiente naturale e il paesaggio, l’apprezzamento di molti estimatori della sua bellezza e delle sue peculiarità, il suo futuro e quello della comunità residente. Bisogna proprio sperare che tutto questo lo vogliano finalmente comprendere, quelli che hanno nelle mani il destino di Artavaggio. Per il bene del luogo e di tutti.

«Un utilizzo molto cautelativo dell’acqua»

[Immagine aerea di qualche giorno fa del Po nel tratto compreso nella provincia di Pavia, dalla quale è evidente la scarsità di acqua presente nel letto del fiume.]
Un servizio originariamente andato in onda giovedì 23 febbraio, nel notiziario di “Unica TV”, (lo potete vedere qui sopra) riporta le dichiarazioni di Massimo Sertori, assessore uscente agli Enti Locali, Montagna e Piccoli Comuni della Regione Lombardia con delega (anche) alla gestione delle acque, in merito alla gravità della situazione idrica in essere e ai forti rischi di una nuova e drammatica siccità nel corso della prossima estate (ne ho già scritto anche qui). Presso atto della realtà di fatto e della notevole mancanza di acqua nei fiumi e nei laghi lombardi, l’assessore dichiara di aver istituito «Il tavolo sulla crisi idrica già nei mesi di dicembre e gennaio invitando a un utilizzo molto cautelativo della risorsa acqua in erogazione a valle dei laghi».

Ribadisco queste parole:

un utilizzo molto cautelativo della risorsa acqua in erogazione a valle dei laghi.

Ora, al di là dei possibili aspetti tecnici e idrologici sottesi a queste parole, legati al fatto che i laghi prealpini fungono da sempre da serbatoi idrici per le pianure, ad ascoltare le parole dell’assessore mi è sorta spontanea e subitanea una domanda: perché un utilizzo molto cautelativo dell’acqua solo a valle dei laghi e non anche a monte? Dalla quale sorge un’altra domanda conseguente: forse perché l’acqua a monte dei laghi, dunque sulle montagne lombarde, è ampiamente utilizzata per alimentare gli impianti di innevamento artificiale delle piste da sci, alquanto promossi, sostenuti e finanziati da Regione Lombardia e dall’assessorato che fa capo a Sertori, i quali in questo ennesimo inverno avaro di neve naturale hanno funzionato a lungo per consentire l’apertura dei comprensori sciistici con gran consumo delle risorse idriche locali (nonché di energia, a sua volta per buona parte ricavata dall’acqua negli impianti idroelettrici)?

Sono domande assolutamente e inevitabilmente spontanee, ribadisco.

P.S.: sia chiaro che la risposta «ma tanto l’acqua consumata per la neve artificiale poi si scioglie e ritorna disponibile» che forse qualcuno potrebbe dare non è ammessa dacché più volte dimostrata equivoca e insostenibile.

Martedì, su “Valsassina News”

Nel mentre che qualcuno vorrebbe installare nella conca dei Piani di Artavaggio una nuova seggiovia per riportarvi lo sci su pista, come se la località fosse ferma agli anni Settanta, il CAST – Centro di Studi Avanzati del Turismo dell’Università di Bologna produce un report su “turismo, sostenibilità e sviluppo territoriale” e indica al riguardo tre modelli di sviluppo ritenuti per diverse ragioni esemplari: Allgäu in Germania per il turismo del wellness, Cervinia per lo sci su pista e la Valsassina per la differenziazione dell’offerta turistica, citando nello specifico i Piani di Artavaggio specializzati «in sci di fondo, ciaspolate e attrazioni per famiglie».

Posta una tale prestigiosa attestazione accademica, la cui importanza emblematica è inutile rimarcare, la domanda che da mesi tutti (o quasi) si pongono diventa ancora più pressante: perché ricostruire seggiovie e riportare lo sci su pista a Artavaggio?

Ho espresso le mie considerazioni al riguardo in un articolo pubblicato martedì scorso, 21 febbraio, su “Valsassina News”, la cui redazione ringrazio di cuore per l’attenzione e lo spazio dedicatomi. Cliccate sull’immagine qui sopra per leggerlo.