Vi propongo di seguito il testo completo dell’articolo pubblicato su “SondrioToday” giovedì 3 febbraio scorso con le mie riflessioni in merito al progetto turistico del “Parco Tartasì” di Talamona (Valtellina, provincia di Sondrio), iniziativa certamente interessante e potenzialmente valida ma che al momento presenta alcune criticità culturali che rischiano di inficiarne il valore e gli obiettivi che i sostenitori del progetto si pongono. Sono riflessioni che, al solito, non vogliono essere meramente polemiche ma capaci, mi auguro, di contribuire al necessario dibattito, il più possibile condiviso, in merito alla realizzazione di infrastrutture turistiche in ambienti pregiati e delicati come quelli montani. Grazie a chiunque vi dedicherà anche qui attenzione e considerazione.

Leggendo quanto prospetterebbe il progetto del nuovo “Parco Tartasì” di Talamona (Valtellina, provincia di Sondrio) per come i media di informazione ne hanno riferito (qui un articolo al riguardo), non si può che esprimere consensi. Un intervento che mira a mettere in sicurezza e riqualificare «Un’ampia porzione di territorio, 220 ettari in totale, posta all’ingresso della Valtellina» ovvero quella del conoide del torrente Tartano, tra lo sbocco della valle omonima e la confluenza nell’Adda, per poi creare «un parco a tema, fortemente identitario, che racconta il territorio in tutti i suoi aspetti, proponendo divertimento a impatto zero, attività ludiche e didattiche, di giorno e di notte. Gli obiettivi principali sono sette: creare attrattività territoriale tutelando gli aspetti naturalistici, incrementare i flussi turistici; aumentare la permanenza dei turisti; destagionalizzare; riqualificare; promuovere l’ospitalità dei residenti; far conoscere storie e tradizioni». Insomma, sulla base di tali premesse, se un progetto del genere venisse realizzato con criterio, ne risulterebbe qualcosa di certamente interessante.
Peccato però che anche un tale progetto così ben promettente non riesca a cadere in certi “stereotipi” che così spesso contraddistinguono l’infrastrutturazione turistica contemporanea dei territori ad alto valore culturale e ambientale come quelli montani – e se anche Talamona è situata a 300 m scarsi di quota, risulta evidente che il suo territorio abbia caratteristiche di fondovalle montano prettamente alpine. Stereotipi che inficiano non poco la validità del progetto e ne mettono palesemente in discussione i principi cardine sui quali si baserebbe.
Poste tali ineluttabili premesse, chiedo: ma quando nel progetto si prospetta «Un turismo slow in cui sono le esperienze vissute a fissare il ricordo e a generare consenso» e poi si pensa a «spettacoli di luci, illuminazione artistica e schermi ad acqua che proiettano immagini di animali», quale memoria esperienziale vissuta viene generata da una fonte virtualizzata e dunque sostanzialmente distaccata, se non forzatamente alienata, dalla realtà concreta di ciò che si propone e, inevitabilmente, anche dalla cultura che vi sta alla base? Come può un progetto del genere essere «fortemente identitario» se non offre che riproduzioni preconfezionate oltre che smaterializzate di tutti quegli elementi che identitari lo sono, senza dubbio, ma solo se relazionati al loro contesto naturale e autentico, non a un palcoscenico turistico dagli scopi ludico-ricreativi pur ben concepito?
Il principio di fondo mi sembra per certi versi quello di certe esposizioni artistiche interattive e/o multimediali nelle quali non vi sono materialmente le opere d’arte ma queste vengono virtualizzate e proposte in modi “immersivi” (termine molto in voga, se ci fate caso) che di primo acchito sembrano effettivamente suggestivi ma nella sostanza mediano e alienano la fruizione reale dell’opera d’arte attraverso modalità create innanzi tutto per stupire, divertire e svagare più che per insegnare l’arte e educare al suo godimento consapevole e adeguatamente approfondito. Sono esposizioni multimediali mirate su un target di pubblico parecchio generalista che inevitabilmente vengono criticate da chi di educazione e cura artistica si occupa abitualmente. Ma se nel principio si può anche ammettere che, quando molte persone non possano facilmente andare a visitare il Van Gogh Museum di Amsterdam o il Moma di New York (due siti museali esteri a caso), siano evidentemente interessate a poter comunque godere dei capolavori là esposti in modi alternativi, più o meno interattivi e multimediali, che cerchino di “risolvere” la lontananza e la mancanza materiale delle opere d’arte, di contro chiunque può recarsi sui monti sopra Talamona (e sulle nostre montagne in genere) per vedere e vivere realmente quella natura che nel parco si vuole meramente riprodurre e imitare peraltro in modi, ribadisco, potenzialmente disorientanti seppur proposti in buona fede. E allora perché non farlo, perché pensare di imitare una natura che si ha a disposizione con qualche mezz’ora di cammino a piedi (o anche senza un tale sforzo) la cui frequentazione genera un’autentica esperienza e un consenso nei confronti della sua specificità ambientale e della cultura identitaria che vi è conservata e vi scaturisce? Perché tra le montagne bisogna “imitare” le montagne e smaterializzarne le realtà peculiari piuttosto di salirci sopra, magari in modo strutturato ovvero con un progetto di frequentazione turistica di matrice culturale che porti economia (insieme a ecologia) in alto invece che mantenerla in basso? Ovvero, per giunta, rivitalizzando la relazione, questa sì profondamente identitaria in senso storico tanto quanto in prospettiva futura, tra il fondovalle e le sue terre alte (a Talamona e altrove, ribadisco), così che l’intero territorio possa generare un dinamismo equilibrato ai fini di uno sviluppo completo e compiuto?
Ecco, queste sono solo alcune delle domande che viene spontaneo porsi se si riflette sulle potenzialità culturali concrete che un progetto come quello del “Parco Tartasì” deve necessariamente perseguire, ottenere e offrire ai propri frequentatori, per non rischiare di diventare l’ennesimo “parco giochi” alpino che, in fin dei conti, le montagne che vorrebbe valorizzare rischierebbe invece di banalizzarle e deprimerne la valenza, nonché di allontanarvi i potenziali frequentatori che ambiscono – pur nelle variegate e a volte superficiali modalità contemporanee – a godere della bellezza naturale e del benessere della montagna.
Infine, non posso non denotare un ultimo dubbio, riguardo il progetto di Talamona: ma se il conoide del Tartano «è anche una zona di elevato valore paesaggistico e ambientale che necessita di tutela per la salvaguardia della biodiversità» nonché, a ben vedere, una delle rare zone di rinaturalizzazione spontanea che si possono riscontrare in un territorio altrimenti altamente antropizzato e territorializzato come quello del fondovalle valtellinese, non è forse che stiamo tutti sbagliando e che in verità il migliore, più autentico e più logico progetto di tutela della zona del conoide del Tartano sia quello di non toccarlo affatto, istituendovi invece un’area di tutela ambientale il più possibile integrale, al netto delle necessarie salvaguardie idrogeologiche che le caratteristiche del luogo impone, e semmai pensando a un’altra sede meno ecologicamente “sensibile” per il “Parco Tartasì”?
Chissà, forse è solo una mera suggestione, questa mia. Ma il dubbio al momento resta.