Continua la distruzione della storia e dell’identità delle Alpi, inscritte sul terreno da segni antropici secolari che hanno consentito agli uomini del passato di trovare un equilibrio vitale ancorché duro – ma onesto, leale – con le montagne, per far posto e spazio agli uomini del presente che, in sella alle loro fiammanti ebike sempre più simili a motociclette con i pedali, pretendono di imporre la loro identità e inscrivere delle storie – anzi, stories, per come nella sostanza assomiglino a quelle fugacissime e banalizzanti dei social – aggressive, bieche, prepotenti, che chissà quanto dureranno prima di dover far posto ad un’ennesima nuova moda. Ciò con la compiacenza di amministratori locali ai quali tutto interessa fuorché amministrare con buon senso il proprio territorio verso il quale non perdono occasione per dimostrare tutto il loro disprezzo, evidentemente.
Ma dimenticano, questi amministratori scriteriati, che il disprezzo dimostrato verso le loro montagne, ovvero la mancanza di cura e di conseguente buon governo di esse, vi resta inesorabilmente inscritto proprio grazie a ciò che avvallano, come ferite infette vergognosamente inflitte a colpi di escavatori sul corpo della montagna umiliata per correr dietro alle sirene del turismo massificato e a quelle della propria autoreferenzialità. Ferite così evidenti da non poter e non dover essere dimenticate: ancor più se messe nero su bianco su una possibile denuncia, sperando che ve ne siano i margini – e purtroppo non sempre è così, quando si è costretti ad agire dopo l’inizio dei lavori.
Tuttavia, ribadisco, la vergogna verso tali opere non abbisogna di alcun avvallo giuridico.
Nella foto, di Michele Comi: la distruzione a colpi di escavatore dell’antica Cavallera del Muretto, in Valmalenco, per livellarne la superficie ad uso meramente cicloturistico. Che le mie parole qui espresse servano anche a rendere ancora più chiare quelle espresse da Comi a corredo dell’immagine.
P.S.: ovviamente – ma serve dirlo? Forse sì, ai poveri di spirito – personalmente non sono contro tutte le opere dedicate alla pratica del cicloturismo in quota, se fatte con criterio, buon senso, rispetto per le montagne e, ancor più, senza ignorare o derogare norme giuridiche vigenti. Ma anche per questo vorrei che ci fossero molti più controlli, e ben più rigorosi, attorno a tali lavori. Al momento non mi pare che ve ne siano a sufficienza, al netto di rarissimi casi – come scrivevo ieri qui.
Premessa (inutile per chi mi conosce): niente di specifico contro nessuno. Chi pensasse il contrario è in totale malafede. Punto.
Detto ciò: un partito politico che organizza un incontro sulle politiche per la montagna invitando come relatori esclusivamente propri rappresentanti, senza nessun altro di altre parti politiche (nemmeno della loro stessa area) ovvero che apporti un’idea differente dunque senza possibilità di confronto, di contradditorio, di dibattito autentico. Nulla di tutto ciò: se le cantano e se le suonano da soli, si danno gran pacche vicendevoli sulle spalle, si dicono «bravi!», si danno ragione evitando accuratamente che qualcuno possa dar loro torto.
Cosa può uscirne di buono per la montagna e per il suo futuro da un “fare” politico del genere?
La domanda è retorica, ovviamente. Anche perché, fosse che da un incontro del genere venissero idee, osservazioni, proposte potenzialmente buone, il loro valore verrebbe da subito inficiato dalla parzialità esclusiva e faziosa del contesto, deprivato non solo di qualsiasi possibile confronto ma pure, di conseguenza, della necessaria condivisione. Come se si volessero cambiare le regole del campionato di calcio e ne discutessero i funzionari di una sola squadra: sarebbero comunque proposte sterili e prive di valore, inevitabilmente. D’altro canto, l’autoreferenzialità polarizzante della politica contemporanea è cosa ormai assodata: non si producono più cose utili ma slogan funzionali al solo scopo di farsi e dirsi “belli” (mediaticamente, innanzi tutto). Tutto il resto è noia, per lorsignori.
Una circostanza emblematica tanto quanto deprimente, già. Povera montagna, quando venga costretta a tali realtà!
P.S.: la locandina dell’evento l’ho convenientemente resa illeggibile. Perché, ribadisco, non conta a chi si riferisca nello specifico. D’altro canto la politica si mostra da tempo bipartisanamente lontanissima, quando non avversa e perniciosa, alla realtà della montagna.
Devo ringraziare una volta ancora la redazione di “Valsassina News” che ha ripreso le mie considerazioniin tema di cicloturismo montano pubblicandole il 15 aprile nell’articolo sopra riportato (cliccateci sopra per leggerlo integralmente; sul blog lo trovate qui).
Come al solito, le considerazioni espresse hanno suscitato un ampio e articolato dibattito, con prese di posizione anche rigide (pure verso lo scrivente): ottimo così, va benissimo, i miei “articoli” più che imporre “verità” – che naturalmente non ho, semmai formulo riflessioni basate sulle mie esperienze personali, che tali sono, legate alle mie attività culturali in montagna – li pubblico proprio per sollecitare qualsiasi opinione di chiunque legga e voglia dibattere. Opinioni sulle quali si potrà poi essere d’accordo o in disaccordo ma, se fondate, costruttive e formulate con rispetto, sono assolutamente interessati e gradite. Al netto della mia esperienza in tali ambiti io non conto certo più di chiunque altro, ci sta che possa essere criticato, anzi: tutto può essere utile per affinare le proprie idee in un processo che mi auguro sempre reciproco e alla fine importante e utile anche per le figure, istituzionali e non, che detengono i poteri decisionali sulle iniziative progettate e da attuare. Che in quanto tali hanno una responsabilità ancora maggiore e, essendo rappresentanti dei cittadini abitanti e frequentatori delle montagne in questione, hanno l’obbligo di cogliere, meditare e elaborare ogni considerazione articolata su quelle iniziative.
D’altronde questi sono temi in costante stato di work-in-progress dacché legati a variabili in evoluzione nel tempo, i quali dunque vanno costantemente analizzati e affinati in base al divenire delle cose. Per ciò anche il dibattito deve mantenersi aperto, costante e sempre costruttivo, così da salvaguardare l’armonia tra cosa si fa, come si fa e dove si fa, a sempre maggior beneficio di tutti.
Milano, la città antitetica. Cosmopolita, attrattiva, progredita, olimpica, ma intanto lascia morire gli alberi che pianta tra una cementificazione e l’altra per dirsi “green” (clic), i ciclisti che manda lungo le sue evanescenti ciclabili per dirsi “sostenibile” (clic) e molti suoi abitanti per i livelli di inquinamento che non sa decrescere per evidente tossicodipendenza genetica (clic). La Milano distrutta dalla guerra, poi quella del boom economico, poi della cronaca nera poliziottesca, la «Milano da bere» che va in depressione negli anni successivi ma comunque non si ferma mai, nemmeno a riflettere sugli errori commessi e dunque rinasce (imbruttita però) negli happy hour, nella gentrificazione eternata, nell’Expo e nelle prossime Olimpiadi, sempre più forma e sempre meno funzione, più esclusiva e meno inclusiva, sempre più piena di se stessa e più vuota di abitanti (veri), più City Life e meno living city. Così “avanti” da essere andata oltre pure alla propria anima, Milano è una città meravigliosa e «tutta da rifare» (cit.). O almeno per un bel po’.
Quello di lunedì prossimo 17 aprile a Milano, al quale si riferisce l’immagine in testa a questo articolo, rappresenta un buon tentativo al riguardo. Per saperne di più, qui trovate l’evento Facebook con ulteriori link utili e il form per l’iscrizione in qualità di associazione/ente.
[Cicloturismo lungo i laghi dell’Alta Engadina. Foto di Romano Salis per Engadin St. Moritz Tourismus.]Un altro tema legato al turismo montano che suscita dibattiti sempre maggiori, non di rado surriscaldando gli animi, è quello del cicloturismo, muscolare o elettrico, e delle relative, conseguenti infrastrutture che in diverse località si sono realizzate e si realizzano al fine di sfruttare il fenomeno come fosse un ormai immancabile must have turistico alpino.
Si tratta in molti casi di una viabilità in quota “nuova” ma che spesso, e a volte inevitabilmente visti gli spazi a disposizione, intercetta e “ricopre” la rete viaria storica, quella delle mulattiere secolari e dei sentieri fino a oggi esclusivamente riservati ai viandanti a piedi, e non di rado risulta palese la scarsa o nulla attenzione dei promotori di tali opere rispetto al valore storico e culturale di quei manufatti vernacolari, autentici marcatori referenziali e identitari dei loro territori e delle comunità che li abitano e peraltro dotati di grandi potenzialità turistiche – un turismo di sicuro più prettamente culturale che sportivo-ricreativo, in gran crescita ma che non pare interessare granché i promotori turistici locali. Così, tra iniziative politiche poco competenti e superficiali che tendono a inchinarsi alle esigenze meramente commerciali dei soggetti imprenditoriali privati, e nel bailamme delle discussioni tra le parti “pro” e quelle “contro”, spesso fin troppo irrigidite sulle proprie posizioni contrastanti, diventa evidente il problema (solito da queste italiche parti, ahinoi) della mancanza di gestione di fenomeni che sarebbero da regolare fin da quando prendono a manifestarsi in maniera importante, per fare in modo che le loro potenzialità positive non diventino rapidamente delle grane croniche e delle rogne parecchio nocive per tutti, inclusi quelli che vi avrebbero ricavato dei vantaggi. Purtroppo la cura e la lungimiranza riguardo tali situazioni sono doti delle quali la politica è parecchio mancante, lo sappiamo bene: per andar di metafora, ci siamo abituati a costruire le case partendo dai tetti per poi dichiarare l’emergenza quando i tetti sono prossimi a crollare. È un peccato perché ci sarebbero le migliori circostanze per costruire cose belle, fatte bene e durevoli: ovviamente per ottenere questo occorrono meno impulsività e più ponderazione, ma è come pretendere che un asino si metta a volare, a quanto pare.
[In mtb verso Fuorcla Surlej, Alta Engadina. Foto tratta da percorsimtbvalbrembana.it.]Detto ciò, credo che il principio di fondo (anche) di una questione del genere sia un semplice e logico compendio di pochi e altrettanto evidenti stati di fatto. Posto che le mulattiere secolari sono un bene storico da sottoporre a tutela e modificarne lo stato equivale a prendere una torre medievale e trasformarla in una banale villetta, posto pure che pedoni e ciclisti non possono restare sugli stessi percorsi al fine di evitare gli ovvi pericoli insiti in tale situazione, e posto altresì che le morfologie montane impongono innanzi tutto la loro percorrenza a piedi – la quale è peraltro una pratica storico-culturale strettamente legata alla storia e all’identità delle stesse montagne – prima che in altri modi i quali, nel caso, devono inesorabilmente considerare dei limiti oltre i quali andare è dannoso oltre che stupido, io dico che il problema, come sempre, non è semplicemente fare le cose ma farle bene. È (sarebbe) banale dirlo e invece non lo è affatto, viste certe opere o certi progetti. Fare le cose bene significa farle con competenza, consapevolezza di ciò che si sta facendo, conoscenza e rispetto dei luoghi dove “si fa” nei modi più compiuti e approfonditi, contestualità con le loro caratteristiche, senso di responsabilità, capacità di visione futura rispetto a ciò che resterà in quanto fatto. A volte lo si fa bene, altre volte malissimo (in tema di cicloturismo montano, ad esempio, ciò che si è fatto a più di 2000 m di quota in Val Poschiavina è un caso esemplare al riguardo). E se non si fanno bene, queste opere a mero uso turistico, chi le ha progettate, autorizzate e eseguite male deve ineludibilmente pagarne le conseguenze a livello giuridico oltre che politico. Molte, troppe cose si fanno con altrettanta leggerezza e senza concrete assunzioni di responsabilità, per di più spendendo somme ingenti di denaro pubblico. Poi, quando dopo qualche anno ci si rende conto del danno cagionato – e sia chiaro: quasi sempre se il progetto o l’opera sono stati concepiti male lo si comprende subito – ormai i buoi sono scappati dalla stalla e per rimediare tocca spendere altri soldi pubblici, sempre che un rimedio lo si possa attuare.
[Lavori per l’orribile ciclovia della Val Poschiavina, in Valmalenco.]Infine, è bene non dimenticare che, come ho accennato poco fa, in montagna esiste il senso del limite, un valore che purtroppo la società contemporanea da tempo sta cercando di demolire e che è soprattutto l’industria turistica, la quale spesso si presenta come paladina della valorizzazione dei luoghi ove opera, che si disinteressa bellamente di qualsiasi limite pur di massimizzare i propri tornaconti. Dunque, tornando al tema cicloturistico, se per certi versi è comprensibile che si sviluppino le infrastrutture atte alla sua pratica divenuta così popolare, per altri versi non si capisce proprio perché si pretenda di far arrivare i cicloturisti anche dove l’intelligenza imporrebbe il solo transito a piedi e, per fare ciò, si costruiscano tracciati tanto confortevoli per i ciclisti, desiderosi di ciclopiste “cittadine” anche a 2500 m di quota, quanto terribilmente impattanti nell’ambiente montano e disturbanti qualsiasi altra sua frequentazione.
Perché? Volontà genuina di sostenere il più possibile un nuovo fenomeno turistico, oppure mera (e non di meno bieca) pretesa di sfruttarlo per ricavarvi i massimi tornaconti disinteressandosi di ogni altra cosa, innanzi tutto dell’ambiente montano e della sua cura?
Una domanda che, per il momento, sembra generare una risposta abbastanza chiara e univoca. Già.