Cronache del cambiamento (climatico): mai così poca neve, sulle Alpi

[Foto di Alexander Hipp su Unsplash.]

Dal Quattrocento all’inizio del Novecento il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi sono state coperte di neve è stato più o meno costante. Poi nell’ultimo secolo è via via diminuito e la media degli ultimi vent’anni è inferiore di 36 giorni a quella dei precedenti 600 anni. Sono le conclusioni di uno studio realizzato da un gruppo di ricerca dell’Università di Padova e dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (ISAC) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) di Bologna, appena pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature Climate Change.
Il gruppo ha analizzato gli anelli di accrescimento di una serie di ginepri vivi e morti cresciuti in Val Ventina, una valle laterale della Valtellina, in provincia di Sondrio, cresciuti ad altitudini comprese tra 2.100 e 2.400 metri sul livello del mare. Confrontando le informazioni ottenute in questo modo con i dati meteorologici disponibili, gli scienziati sono riusciti a stimare i cambiamenti nella durata del manto nevoso dal Quattrocento in avanti. «Ciò ci ha permesso di comprendere che quello che stiamo vivendo negli ultimi anni è qualcosa che non si era mai presentato precedentemente», hanno concluso l’ecologo forestale Marco Carrer dell’Università di Padova e Michele Brunetti dell’ISAC. È il primo studio che dà informazioni riguardo ai giorni con la neve sulle Alpi andando tanto lontano nel tempo.

[Dall’articolo Sulle Alpi non ci sono più i giorni di neve di una volta pubblicato su “Il Post” il 13 gennaio 2023. Cliccate sull’immagine per leggere nella sua interezza.]

Ora, ovviamente, ci aspettiamo che gestori dei comprensori sciistici, amministratori pubblici ad essi sodali, difensori a spada tratta dello sci su pista sempre-e-comunque e negazionisti climatici vari diano degli “ambientalisti estremisti”, dei “catastrofisti” o dei “terroristi climatici” anche ai ginepri e agli altri arbusti delle Alpi. Ecco.

Pubblicità

Italia e biciclette, un controsenso a pedali

[Immagine tratta da qui.]
In un paese come l’Italia che già da tempo si distingue in modo negativo sull’attenzione che pone all’uso della bicicletta, il governo ha recentemente azzerato, su (ignobile) iniziativa del ministero competente, i fondi per le infrastrutture ciclabili. Ma non è certo un problema di schieramenti politici, visto che dal 2020 al 2030, i governi italiani hanno messo a bilancio quasi 100 miliardi per l’auto, poco più di uno per la bici: cento volte meno, insomma (qui trovate un ottimo dossier al riguardo, curato da CleanCities). Con il risultato che le strade sono sempre più intasate di traffico e nel frattempo gli incidenti che coinvolgono i ciclisti aumentano di continuo. E comunque, ribadisco, non è certo un problema che nasce due o tre anni fa, questo, ma viene da lontano e da una più profonda, generalizzata negligenza politica e amministrativa. Peraltro, di quanto l’Italia sia ancora arretrata al riguardo ne ha parlato anche un recente articolo de “Il Post”, che contiene dati assai significativi per farsi un’idea chiara della noncuranza istituzionale italiana verso biciclette e ciclisti.

Posta questa realtà di fatto, parecchio disonorevole, risulta ancor più “sorprendente” – in senso negativo, per non scrivere direttamente sconcertante – la recente proliferazione di ciclovie ad uso prettamente turistico soprattutto in montagna e sovente a quote alte, che sembrano diventate il nuovo “testo sacro” del turismo per innumerevoli località montane, che siano già sciistiche oppure, forse in maniera maggiore, che non lo siano, e alle quali vengono destinati milioni e milioni di finanziamenti pubblici.

[Immagine tratta da qui.]
Un fenomeno alquanto disorientante, a ben vedere: mentre nelle aree altamente urbanizzate le amministrazioni pubbliche non solo “faticano” a creare percorsi per il transito ciclistico ben fatti, diffusi e sicuri, mettendo spesso in atto azioni propagandisticamente definite “risolutive” ma che spesso non risolvono e anzi aggravano il problema – risultato: ben 220 persone decedute in incidenti in bicicletta nel 2021, più di una ogni due giorni –, nei territori montani si costruiscono chilometri e chilometri di ciclovie ad uso maggioritario di turisti che facilmente utilizzano la bicicletta, rigorosamente elettrica, solo nei periodi di vacanza e soltanto per scopi ludico-ricreativi (e per questo abbisognano di percorsi i più lisci e agevoli possibile), spesso con impatti ambientali notevoli e altamente discutibili che vanno a deteriorare spazi in quota a volte ancora incontaminati, e ciò solo perché questa modalità di frequentazione (o di fruizione, termine forse più adatto) delle montagne viene spinta come il non plus ultra attuale, la nuova frontiera del turismo montano, il mood super wow da n-mila like su Instagram e TikTok – ovviamente “eco”, “green”, “sostenibile”, eccetera.

Ovvero, in soldoni (letteralmente): da una parte, dove ci sarebbe da investire sempre di più, si azzerano i fondi pubblici; dall’altra, dove ci sarebbe da investire nel modo più oculato possibile, i fondi pubblici si sperperano.

E per dirla in altro modo: da una parte le persone ci lasciano le penne, dall’altra ci lascia le penne la montagna.

[Immagine tratta da qui.]
Ditemi voi se vi sia qualche logica in tutto ciò – che non sia meramente “politica”, ovvero di ricerca e conquista di tornaconti particolari da parte dei sostenitori di quegli interventi montani. Ditemi voi se vi sia qualche traccia di sviluppo, di cultura, di sostenibilità ambientale, di connessione alla realtà delle cose, di visione del futuro. Magari c’è e sono io che non la vedo, non so. Però i mazzi di fiori lungo le strade sui luoghi di qualche incidente mortale in città e i continui nuovi nastri di cemento in mezzo ai prati a 2000 e più metri di quota, be’, queste cose le vedo molto bene. Ecco.

N.B.: per prevenire le critiche di chi “concentra” troppo la propria visione della questione, rimarco che il nocciolo di essa non sta nei suoi singoli elementi – la ciclovia, la pista ciclopedonale, l’ebike, il ciclista di montagna o di città, eccetera – ma nel quadro complessivo di essa e soprattutto nella gestione – o nella non gestione – da parte di chi ha voce istituzionale in capitolo, dalla cui frequente illogicità d’azione deriva tutto il resto o quasi.

Se ci manca la terra da sotto i piedi (letteralmente)

Le recenti ondate di maltempo, con le disastrose conseguenze che hanno interessato le diverse aree del nostro Paese, hanno riportato all’attenzione la fragilità del suolo italiano con i rischi idrogeologici sempre più frequenti, marcati e, sfortunatamente, causa di distruzione e morte. A tal proposito, lo scorso lunedì 05 dicembre si è celebrata la Giornata Mondiale del Suolo, in occasione della quale l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha pubblicato un report aggiornato proprio sul consumo di suolo in Italia. Da tale dato è emerso che nell’ultimo anno l’Italia ha perso circa 2,2 metri quadri di suolo al secondo e che nel 2021 si è raggiunto il picco di 19 ettari di suolo persi ogni giorno, che rappresenta il valore più alto registrato negli ultimi dieci anni. Tra le cause principali vi sono la cementificazione incontrollata e l’agricoltura intensiva. Grazie al grande lavoro di analisi e di osservazione effettuato dall’ISPRA è possibile consultare una mappa digitale estremamente dettagliata del rischio idrogeologico dell’Italia, ovvero la piattaforma “IdroGeo”, che consente la consultazione e la condivisione di dati, mappe, report e documenti sull’inventario dei fenomeni franosi in Italia e dei livelli di pericolosità per frane e alluvioni, con annessi indicatori di rischio per ogni comune italiano. La sua consultazione, grazie a un’infografica molto semplificata e intuitiva, consente agli utenti, dai semplici cittadini, agli operatori economici fino agli amministratori locali, di conoscere i livelli di rischio e pericolosità da frane e alluvioni per ogni area di interesse.

Da “Il Supplemento Geografico” sulla pagina Facebook della Società Geografica Italiana. Per consultare la piattaforma “IdroGeo” si possono utilizzare i seguenti link: per i livelli di pericolosità e rischio https://bit.ly/3Y1kYkc, per quelli relativi all’inventario dei fenomeni franosi https://bit.ly/3gVnPe4. Oppure potete iniziare dalla homepage del sito di “IdroGeo” cliccando sull’immagine qui sotto:

Nella foto in testa al post: il versante di Casamicciola del Monte Epomeo, a Ischia, come si presentava negli anni Trenta del Novecento, ben terrazzato e con adeguati canali di regimentazione e scarico delle acque superficiali, cioè prima che la montagna venisse ampiamente cementificata, e sovente in modo abusivo, con le conseguenze tragiche verificatesi nella notte tra il 25 e il 26 novembre scorso che hanno provocato 12 vittime, evento sul quale ho scritto qui.

«Te lo ricordi, il Ghiacciaio dell’Adamello?»

[Veduta parziale del Ghiacciaio dell’Adamello dal Corno di Cavento: a sinistra nel 1917, a destra nel 2017. Foto tratta da meteobook.it.]
Il progetto ClimADA, realizzato grazie ad una ampia collaborazione tra enti scientifici e istituzionali coordinati da Fondazione Lombardia per l’Ambiente, si pone il rilevante obiettivo di ricostruire l’evoluzione climatica degli ultimi secoli, l’impatto antropico nell’area di alta montagna alpina, e anche la dinamica delle specie vegetali, dei grandi incendi avvenuti negli ultimi secoli e in generale degli impatti antropici in tutte le aree montane. Da questa attività il progetto ricava studi e ricerche e offre competenze scientifiche per aiutare le amministrazioni locali, le istituzioni pubbliche e private a prendere decisioni sul territorio.

Nell’ultimo biennio ClimADA ha focalizzato la propria attenzione scientifica sul Ghiacciaio dell’Adamello, il più vasto e profondo apparato glaciale delle Alpi italiane: tra le varie attività messe in atto, i ricercatori del progetto hanno analizzato e prospettato la futura evoluzione del ghiacciaio dell’Adamello fino quasi a fine secolo secondo le previsioni attuali, rappresentando efficacemente il tutto in questo video:

Converrete che è un video spaventoso. In pratica, nei prossimi decenni quello che è ad oggi il più grande ghiacciaio italiano scomparirà totalmente. Degli 870 milioni di metri cubi di ghiaccio rilevati a fine millennio, già nel 2019 se n’erano fusi quasi la metà e nel corso del 2022, già unanimemente definito “disastroso” per i ghiacciai alpini, la fusione è risultata doppia rispetto alla media degli ultimi 15 anni.

Si noti bene: non sta scomparendo solo un ghiacciaio tra i più importanti delle Alpi ma sta svanendo una delle maggiori riserve di acqua potabile a nostra disposizione che tra qualche decennio non avremo più, sta cambiando il paesaggio di un’ampia regione alpina, sta cambiando di conseguenza la nostra relazione con il territorio in questione e si sta modificando la percezione culturale che avremo di questi spazi d’alta quota. Quello che per generazioni a scuola è stato studiato come «il più grande ghiacciaio delle Alpi italiane» non esisterà più, sparirà anche come nozione, come conoscenza, come referenza identitaria. Giusto o sbagliato (formalmente) che possa essere, accadrà ineluttabilmente, a meno che si metta in atto un cambiamento così radicale da poter modificare tale nefasta sorte. Qualcuno dice che siamo ancora in tempo, qualcun altro ritiene invece di no: ma nell’uno o nell’altro caso, siamo pronti ad agire oppure a subire di conseguenza? O continuiamo a fare come se nulla sia?

Ennesime colate di fango, di ipocrisia, di vergogna

Occupandomi di relazione tra uomo e paesaggio, francamente a me l’ennesimo dibattito in corso dopo la tragedia di Ischia mi risulta ipocrita, vergognoso, vomitevole. È sufficiente che una perturbazione più violenta del solito – ovvero di quel “solito” che era una volta e che è ormai diventato la normalità di oggi – colpisca qualsiasi territorio italiano ed è praticamente certo: qualche disgrazia più o meno grave accadrà. Da decenni va così, e da decenni si sentono le istituzioni blaterare sui media di “tragedia annunciata”, di “emergenza”, di “fermare l’abusivismo”, di “vicinanza alle persone coinvolte”, di fare questa cosa, quella e quell’altra… blablabla. In concreto niente, tutto nella sostanza resta come prima se non peggio, con gran compiacenza di tutti – pubblico e privato, sia chiaro. Tutto cambia a parole e nulla cambia nei fatti, siamo sempre gattopardianamente fermi lì, è una delle norme “fondative” del paese Italia: l’avessero messa nella Costituzione, non risulterebbe così ben rispettata. Finché arriva il successivo nubifragio e si ricomincia daccapo: copione invariato, tragicommedia assicurata.

È ormai un assodato modus operandi italiano, quello delle “emergenze” (ne ho scritto più volte al riguardo, ad esempio qui): contate quante cose vengono definite “emergenze” da un sacco di anni, quando il termine dovrebbe indicare una situazione temporanea e tale fino al suo necessario rimedio. L’emergenza maltempo, l’emergenza femminicidi, l’emergenza immigrazione… Funziona così: non si è capaci di risolvere un problema? Benissimo, lo si proclama “emergenza”, così se ne può parlare a iosa dando l’impressione di fare qualcosa al riguardo e, grazie ai media compiacenti, confondendo l’opinione pubblica, parimenti evitando di risolvere realmente il problema in questione (per incompetenza, lassismo, menefreghismo o perché il problema è funzionale a certi “interessi” in vigore), anzi, magari trovando il modo di ricavarci qualche buon tornaconto. E le persone che perdono la vita? Be’, un po’ di cordoglio mediatico e amen, d’altro canto di qualcosa bisogna pur morire prima o poi, no?

Ecco. Qualcuno di voi crede sul serio che quest’ultima tragedia avvierà la risoluzione del problema relativo alla gestione – politica, innanzi tutto – del territorio italiano, soprattutto di quello più delicato e potenzialmente soggetto a dissesti idrogeologici? Se c’è qualcuno che lo crede, gli faccio i miei più sentiti auguri. A tutti gli altri, chiedo di cominciare il conto alla rovescia per il prossimo nubifragio, la successiva tragedia, gli ennesimi morti. E di tirare le conclusioni politiche relative, una volta per tutte.