A ovest del Sonna, tra Lecco e Bergamo: alla scoperta di un paesaggio quieto e discosto ma a suo modo “spettacolare”

Abitualmente siamo portati a farci emozionare e affascinare da paesaggi e luoghi che possiedano spiccate caratteristiche di spettacolarità, sia naturale che monumentale: è comprensibile e giusto, per molti aspetti, in primis per il fatto che la nostra idea di paesaggio ha un’origine e tutt’oggi una matrice fondamentalmente estetica. Dunque il luogo che riflette in maniera evidente e particolare il concetto comune di bellezza è quello del quale più facilmente e immediatamente restiamo appagati.

Ciò tuttavia non significa che paesaggi molto meno monumentali e privi di peculiarità estetiche considerevoli o di altre caratteristiche suggestive non possano essere parimenti affascinanti. È una questione di modelli, di convenzioni e immaginari ai quali decidiamo più o meno consciamente di adattarci; in verità ogni luogo e ogni paesaggio, unico come tutti gli altri, possiede peculiarità e caratteristiche a loro volta uniche, magari all’apparenza simili a mille altre e invece in concreto uniche, non fosse che perché ogni luogo è unico. Anche quello che ci sembra privo di elementi referenziali rispetto ad altri – una pianura piatta e uniforme, ad esempio – lo è; d’altro canto differente da qualsiasi altro lo diventa anche grazie a noi che lo osserviamo, studiamo, apprezziamo, viviamo – per fortuna siamo tutti quanti diversi l’uno dall’altro, no?

Un luogo, con il proprio paesaggio, che ad esempio io trovo per diversi motivi parecchio affascinante, pur non sembrando allo sguardo nulla di che cioè un angolo di mondo del tutto simile a innumerevoli altri, è il versante destro della Valle del Sonna (che è un torrente, dunque idronimo di genere maschile, ma in zona è frequentemente denominato al femminile, della Sonna), in Val San Martino tra i comuni di Monte Marenzo e Cisano Bergamasco: parte di quella zona che io definisco “la Toscana della Val San Martino” in forza della dolcezza morfologica dei rilievi, dell’anima sostanzialmente rurale e della presenza di numerosi piccoli nuclei, tutti di origine agricola e ancora variamente abitati (per giunta dai toponimi spesso suggestivi e significativi come Chiaravalle, Pomino, La Guarda, Uccellera), i quali a volte occupano le tozze sommità collinari e in ciò possono riportare alla mente quelli ben più celeberrimi della Toscana interna – al netto di certi edifici orribili, di tipico disegno degli anni Sessanta-Settanta del Novecento, qui a volte visibili (molti geometri e altrettanti tecnici comunali dell’epoca andrebbero perseguiti penalmente per i danni che hanno cagionato ai propri territori e ai rispettivi paesaggi!)

Il nome dell’abitato più popoloso della zona, Valbonaga – frazione di Cisano Bergamasco – dà l’idea della sua conformazione geografica, quella di una convalle laterale rispetto al solco principale del Sonna, a sua volta percorsa dal tranquillo Rio di Cazzola; è una convalle anche la parte orientale della zona, denominata Val di Roviago, parimenti dotata di proprio torrentello (tutti affluenti di sinistra del Sonna), così che nel complesso la visione è quella d’un ampia e amena platea, prativa e agricola al centro, con frequenti terrazzamenti erbosi, boscata ai bordi soprattutto di selve castanili, compresa tra i rilievi dei Corni di Bisone a sud ovest e il Monte Santa Margherita a nord est, e movimentata al centro dal cordone morenico di Guarda – sul quale si trova anche l’altro nucleo abitato principale della zona, San Gregorio – che rappresenta il lascito in loco (al pari dei vari massi erratici sparsi un po’ ovunque) di una lingua debordante lateralmente del Ghiacciaio dell’Adda il quale, dopo averci dato dentro nell’escavare il bacino oggi occupato dalle acque del Lago di Como (cronache di 15-20.000 anni fa, per intenderci), da qui cominciava a perdere vigore, spessore e ad allargarsi verso le sue fronti brianzole. Di contro è affascinante sapere che la presenza di quella lingua glaciale laterale, che sormontava la dorsale dei Corni di Bisone e veniva contenuta solo dal dirimpetto crinale del Monte Santa Margherita, ostruiva con la sua massa la Valle del Sonna generando nella piana di Sant’Antonio d’Adda – dunque sul lato orientale della Valle, di fronte a Valbonaga – un ampio lago margino-glaciale, che poi con l’arretramento e la diminuzione di spessore della fronte del ghiacciaio si svuotò, determinando a sua volta la particolare morfologia del territorio il quale dunque millenni addietro fu in parte letto glaciale e in altra parte parte fondo sommerso di un lago: comunque sott’acqua, solida o liquida che fosse!

Preistoria geologica a parte, è significativo notare pure che questa è un’altra di quelle zone poste a pochissimi chilometri – un paio o poco più – dalla “civiltà” cioè dai centri abitati, dalle zone industriali e dalle strade più trafficate del territorio, ma capace di donare al visitatore una placidità e una quiete generale quasi sorprendenti, che diventano un elemento fondamentale nella definizione della bellezza e della godibilità del paesaggio locale. Passeggiando lungo le stradine che congiungono le varie località, spesso viottoli campestri o sentieri boschivi comunque sempre elementari, si prova quella inopinata e piacevole sensazione di “pausa” dal mondo che corre sempre troppo, di distacco seppur temporaneo: sembra di tornare a respirare a pieni polmoni un’aria salubre che si genera dallo sguardo, ci si sorprende nel constatare che, in certi momenti, gli unici suoni udibili sono i cinguettii degli uccelli sui rami degli alberi e, ogni tanto, il raglio di un asino o l’abbaiare d’un cane lontano. Se poi la passeggiata la si compie in un momento nel quale molti hanno l’abitudine o la necessità di fare altro – il sabato pomeriggio, ad esempio – e per di più dopo che ha piovuto oppure sotto una leggera pioggia (condizione ambientale a me assai gradita), oltre alle suddette percezioni uditive si godrà pure della fortuna di odorare profumi di terra e di bosco che sembreranno fragranti come non mai. Forse, in realtà, non saranno più odorosi del solito e saremo noi, in quel frangente, a risultare più sensibili alla loro percezione ma tant’è, è il risultato finale che conta e come questo risultato può diventare esperienza prima percettiva, poi sensoriale e quindi culturale per chi la vive.

A chi voglia conoscere e esplorare la zona, magari lasciandosi ispirare da ciò che avete appena letto per poi elaborare le proprie percezioni e suggestioni dalla relazione diretta con il luogo e il suo paesaggio, consiglio un percorso ad anello che richiede non più di tre ore, soste incluse: una comoda passeggiata lungo stradine un po’ asfaltate e un po’ a fondo naturale, tratturi campestri e qualche tratto di sentiero sempre agevole – che pur sempre sentiero è, sia chiaro: niente tacchi a spillo o mocassini in vernice, ma basterà un paio di calzature da trail running o da hiking di quelle ormai tutti utilizzano nell’outdoor.

Vi dico di partire da Costa, bella frazione rurale di Monte Marenzo (nota anche come Costa Antica) posta lungo l’ampia e bassa sella ai piedi del Monte Santa Margherita che divide il bacino idrografico del Sonna da quello del torrente Carpine, il quale scende verso Calolziocorte; troverete facilmente parcheggio, credo. Da qui si imbocca la pista agrosilvopastorale che porta al Parco “Penne Nere” del Gruppo Alpini di Monte Marenzo, si va oltre attraversando con percorso leggermente ondulato vecchie e fascinose selve castanili – in parte a fondo chiuso e in parte abbandonate e invase dalla boscaglia di ritorno – fino a che si giunge alle prima case di La Guarda, poste a monte del centro di San Gregorio. Da qui si imbocca sulla destra la stradina di Via La Guarda di Sopra che digrada ripidamente donando belle visuali della valletta del Rio di Cazzola che adduce alla località Valle e Uccellera oltre a sensazioni bucoliche già intense. Dopo due tornanti si può imboccare sulla destra un sentiero che si inoltra pianeggiando nel bosco per sbucare sul margine del parcheggio al servizio dei visitatori della pittoresca Cappella degli Alpini di Uccellera, posta sulla cima di una delle Corne di Bisone che al di là precipita con un’alta falesia – di genesi palesemente marina, poi “rifinita” dai flussi glaciali preistorici – verso la valle dell’Adda, della quale regala un bellissimo panorama. È una località piuttosto rinomata e veramente amena, con prati ben tenuti, animali al pascolo e coltivazioni a frutto: immagino che chi sia della zona sicuramente ci sarà stato almeno una volta nella propria vita.

Lasciata la soavità agreste di Uccellera, si percorre la strada asfaltata che dal fondo del parcheggio scende lungo la valletta fino a un bivio, presso il quale si imbocca a destra Via Cà Bortolotti ma non prima di aver gettato uno sguardo su una grande e bella cascina ad aia chiusa, visibile di fronte poco oltre il bivio, purtroppo abbandonata e pericolante: un vero peccato vederla così malconcia. Via Cà Bortolotti, fortunatamente sottoposta a scarso traffico veicolare, la si percorre tutta serpeggiando tra gruppi di case i cui toponimi pure qui giustificano fantasticherie etimologiche (Caberlotto, Salvagiannelli…) e godendosi le numerose e significative vedute della zona e delle sue peculiarità che vi ho descritto poco fa, finché si giunge tra le case di Valbonaga.

La via sbocca sulla Strada Provinciale 178 che sale verso San Gregorio: la si percorre per qualche metro in tale direzione per poi imboccare a sinistra Via Sorgenti della Cazzola, indicata come strada a fondo chiuso. Nessun problema se si sta camminando: la via supera il Rio di Cazzola, prende a salire e presto si trasforma in un tratturo campestre grazie al quale si attraversa la parte più bucolica della zona, tra prati, terrazzamenti, campi coltivati e piccoli dossi che animano la geografia minima locale. Così si giunge alla località Cà Gandolfi, altro nucleo tipicamente rurale le cui case si attraversano per continuare lungo la strada asfaltata a destra che torna sulla Provinciale 178; affacciandovisi, si può adocchiare poco a monte sull’altro lato della strada l’imbocco di un sentiero con segnalazioni escursionistiche.

Attraversate così l’ultimo asfalto dell’itinerario in percorrenza e imboccatelo, quel sentiero, ignorando la deviazione che scende a destra e fa parte del “Sentiero Giovanni XXIII” – ma non per mere ragioni antipapaline (o magari sì, fate voi) – e inoltrandovi in leggera discesa nel bosco lungo il versante destro del solco vallivo principale del Sonna, che magari udite rumoreggiare laggiù in basso nascosto dagli alberi. Dopo qualche minuto dovete “guadare” (basta un saltello, due se il flusso idrico è abbondante; nel caso c’è un cavo metallico di sicurezza) il torrentello della Val di Roviago che manifesta il gradevole prodigio di avere acqua anche in periodi di piogge scarse, mentre d’inverno la piccola ma incassata forra nella quale scorre gli regala ombra e freddo a sufficienza (sempre con il bene placito del cambiamento climatico) da creare frequenti e suggestive bordature ghiacciate. Andate oltre e quasi nei pressi di una schiera di case con campi coltivati d’intorno, che vedete poco sotto a destra, il sentiero prende invece a salire verso sinistra, con indicazioni “artigianali”, presentando la parte più ostica dell’intero itinerario: qualche decina di metri che definire “ripidi” è iperbolico ma quanto meno richiedono un filo di impegno in più e giustificano la richiesta di non indossare tacchi alti e scarpe di vernice; interessante è intuire i rimasugli dell’antico rissöl, la selciatura in pietra che un tempo caratterizzava questo tratto di mulattiera, via di collegamento tra le contrade prossime al centro di San Gregorio con quelle rurali a monte. Quasi al termine della breve salita si costeggia sulla destra un grande masso erratico per poi sbucare, poco più avanti, nella piana prativa in prossimità del bellissimo nucleo di Chiaravalle, in parte ristrutturato in parte cadente e forse nelle fattezze il più “toscano” di questo angolo del territorio, così posto sul sommo di un leggero rilievo che s’innalza di qualche metro dai campi d’intorno terrazzati e ancora diffusamente coltivati. Intorno si adocchiano gli altri due nuclei rurali di Montalino, minuscolo, e di Pomino, dotato di qualche casa in più: in effetti anche questa zona, al pari di quella attraversata prima lungo l’itinerario, possiede un’anima suggestivamente bucolica e apparentemente sospesa nel tempo, dalla vitalità rallentata e quieta: solo l’abbaiare di qualche cane o il rumore di un soffiatore o di una motosega ne possono turbare la placidità.

Da questo punto si può decidere di chiudere l’anello facendo un po’ meno fatica oppure un po’ di più: nel senso che nel primo caso si possono attraversare le case di Pomino e, salendo di qualche metro a destra, imboccare il tratturo che attraversa l’ampio fondo prativo e pianeggiante della valle ai piedi del Monte Santa Margherita, altro angolo di notevole fascino agreste, fino a giungere in vista delle case di Costa (Antica) e degli spiazzi di sosta dove avrete probabilmente lasciato l’auto. Nel secondo caso si può invece decidere di ascendere fin sulla vetta del Monte Santa Margherita, superando circa centocinquanta metri di dislivello con alcuni tratti ripidi se pur privi di difficoltà oggettive, e lassù visitare l’affascinante sito archeologico del castrum medievale sui cui ruderi è stato costruito il quattrocentesco Oratorio di Santa Margherita, adornato da splendidi affreschi non sempre in buono stato di conservazione. La minuscola chiesa viene aperta solo in rare occasioni, nell’attesa potete trovare un articolato documento che illustra le specificità storiche e archeologiche del luogo qui.

Dalla sommità del monte, per evitare di confondervi tra i viottoli della parte alta di Monte Marenzo, conviene tornare sui propri passi fino a un quadrivio con segnavia che avrete attraversato in salita e da qui scendere a destra, cioè a ponente, lungo un sentiero che in breve diventa stradina sterrata e porta alle case del nucleo di Piudizzo (anch’esso dotato di begli edifici rurali, con quello più imponente che presenta quasi le sembianze di casaforte), oltre il quale rapidamente si ritorna ai parcheggi nei pressi delle case di Costa (Antica).

Concludendo in tali modi la vostra passeggiata, avete camminato per circa 7,5 chilometri oppure per 9 in approssimativamente tre ore, come detto, o qualcosa in più se siete saliti fin sul Monte Santa Margherita: in ogni caso mi auguro che abbiate potuto raccogliere percezioni, sensazioni e suggestioni simili a quelle che vi ho descritto poco fa oppure altre differenti e personali, e che abbiate potuto comprendere e apprezzare la delicata, certamente poco spettacolare nel senso classico del termine ma di contro appartata e discreta bellezza di questo paesaggio minimo, placido, invisibile ai più eppure a suo modo unico e speciale, come ho cercato di raccontarvi e farvi capire fino a qui.

N.B.: a parte dove altrimenti indicato le foto che vedete nell’articolo, scattate in differenti esplorazioni, le ho fatte io, che non sono un fotografo, con uno smartphone che non è certo all’ultimo grido, dunque non sono nulla di che. Non ne abbiate a male.

Simone Aime, “La Valle Gesso e l’idroelettrico”

In Italia si contano oltre 530 grandi dighe, considerando con tale designazione ogni «sbarramento di ritenuta (diga o traversa fluviale) di altezza superiore a 15 m o che realizza un serbatoio artificiale di volume superiore a un milione di metri cubi di acqua», come recita la definizione istituzionale; numero al quale vanno aggiunte qualche migliaia di impianti minori. La maggior parte degli sbarramenti – pressoché inutile rimarcarlo – si trova sulle montagne italiane: gioco forza, visto che è dai monti che scende l’acqua e sui monti è relativamente più semplice costruire bacini di ritenuta, vista la morfologia favorevole delle vallate montane.

Più di 530 grandi dighe potrebbero sembrare tante, considerando l’imponenza di molte di esse, oppure poche, nell’ottica della vastità dei territori montani nazionali. In verità il numero è piuttosto relativo dacché, appunto, contano soprattutto le dimensioni degli impianti in relazione alle risorse idriche disponibili nei territori in cui sono stati realizzati. In ogni caso sulle nostre montagne le grandi dighe sarebbero potute essere molte di più, se si fossero concretizzati tutti i progetti elaborati al riguardo lungo tutta la prima metà e fino agli anni Sessanta del secolo scorso soprattutto nelle vallate alpine.

Tra di esse, nel settore sudoccidentale delle Alpi, la Valle Gesso è una di quelle più significative, innanzi tutto dal punto di vista geomorfologico, visto che la definizione toponomastica al singolare nasconde in realtà un articolato e peculiare sistema di convalli, valloni laterali, vallette e vallecole secondarie, tutte estremamente ricche di acque. Inoltre, proprio in forza della vastità e della ricchezza della rete idrografica, perché la Valle Gesso sarebbe potuta diventare un territorio tra i più infrastrutturati in assoluto, sulle Alpi italiane, per lo sfruttamento delle sue acque a fini idroelettrici, grazie a un ponderoso progetto concepito al riguardo negli anni Venti del secolo scorso, proprio quando cominciò la fase realizzativa più intensa dell’epopea idroelettrica alpina e presero a nascere un po’ ovunque grandi sbarramenti.

La storia idroelettrica “mancata” della Valle Gesso è raccontata nel nuovo libro di Simone Aime, 1924-2024. La Valle Gesso e l’idroelettrico. Il progetto originale e mai realizzato (Primalpe, Cuneo, 2024), già autore di un altro notevole testo sul tema nella stessa zona, quello dedicato alla Diga del Chiotas, sopra Entracque, uscito nel 2021 (ne ho scritto anche nel mio Il miracolo delle dighe) e per il quale il nuovo volume rappresenta la chiusura di una sorta di cerchio geostorico []

[Simone Aime durante una recente presentazione del libro.]
(Potete leggere la recensione completa di La Valle Gesso e l’idroelettrico cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)