Su Selvino, le sue montagne, il suo turismo

[Panorama del centro abitato di Selvino. Foto di Ysogo, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]
Vi ho detto (ovvero ho scritto) già alcune volte di Selvino, la località delle Prealpi bergamasche un tempo sciistica e ora protagonista, suo malgrado, di alcuni progetti per ora solo ipotizzati e a dir poco sconcertanti: di quelli che se osservati da un certo punto di vista possono apparire commercialmente e turisticamente “stuzzicanti” ma, osservati dalla parte opposta (e non solo da quella) rivelano rapidamente e con grande evidenza la loro nocività economica, culturale, sociale, ambientale.

Su Selvino già un paio di anni fa (nel marzo 2021) il Club Alpino Italiano di Bergamo, con le sue varie articolazioni sezionali, ha organizzato un incontro on line (o webinar, come si dice oggi) con tema «Il prezioso patrimonio naturalistico e lo sfruttamento per attività sportive» dell’altopiano selvinese, che risulta un contributo completo e significativo sul caso locale così come sulle tante altre situazioni similari che si possono riscontrare sulle nostre montagne. Vi propongo la registrazione Youtube di quel dibattito, ringraziando molto l’amico Federico Mangili che con Danilo Donadoni ne è stato tra gli artefici:

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Cocktail e pesce a 2500 m

[Il Rifugio Bergamo/Grasleitenhütte, nel gruppo del Catinaccio, Dolomiti. Foto di Gianni Crestani da Pixabay.]

Dalla richieste più semplici come avere acqua e doccia a disposizione a qualsiasi ora o corrente elettrica stabile, a quelle più “esigenti” come mangiare pesce e bere cocktail in alta quota. Queste sono solo alcune delle domande rivolte ai rifugisti altoatesini, che intervistati da il Dolomiti ricordano: “Non siamo ristoranti, ma rifugi“.
Soltanto pochi giorni fa il Cai Alto Adige aveva commentato l’iniziativa “Sommelier in pista” organizzata dall’Alta Badia, volta a degustare i migliori vini dell’Alto Adige lungo le piste da sci nei rifugi partner Ütia I Tablà, Las Vegas, Rifugio Lé, Tamá, Ütia de Bioch, Ütia Pic Pré, Moritzino e Pic Pré. «E smettetela di chiamarli rifugi», aveva risposto il presidente dell’associazione alpinista Carlo Alberto Zanella, criticando non tanto il progetto in sé quanto invece la denominazione di alcune strutture in quota. «Sono Ristoranti a tutti gli effetti, ma chiamandoli ‘rifugi’, creano confusione e false aspettative nel turista», aggiungeva Zanella.

[Dall’articolo di Francesca Cristoforetti Ci hanno chiesto cocktail e pesce a 2.500 metri”, le richieste dei turisti in quota. I rifugisti: “Caffè deca? Abbiamo solo la moka. Non siamo ristoranti” pubblicato su “Il Dolomiti” il 6 gennaio 2023.]

Insomma, in breve: date loro strade, funivie e panchine giganti a 2500 m e vi chiederanno wifi, cocktail e pesce a 2500 m.

Un’equazione inesorabile?

Ditemi pure che sono fin troppo qualunquista nel pensarla in questo modo ma io temo che la realtà sia questa e lo sia inevitabilmente, ribadisco. Perché credo che alla base dell’apprezzamento di certe “divertenti” opere turistiche banalizzanti e decontestuali e dell’ignoranza nei confronti della montagna e delle sue più elementari peculiarità vi sia la stessa grave carenza culturale, peraltro adeguatamente “coltivata” da un certo marketing turistico per meri e biechi fini commerciali, al quale non di rado molti montanari di quei territori risultano conniventi, purtroppo (infatti non addebito la colpa primaria di questa situazione ai “turisti”, invero vittime di tali meccanismi perversi*). Se la montagna viene (s)venduta unicamente come un grande “parco divertimenti” con attrazioni da luna park, i suoi fruitori non faranno altro che comportarsi come se fossero in un luna park, pretendendo il “divertimento” promesso in ogni cosa, anche quando ciò sia non solo impossibile ma pure francamente stupido.

È grave e pericolosa, una incultura del genere, perché se non adeguatamente ripresa e corretta cagionerà danni ancor più gravi e non soltanto culturali, alle montagne.

*: approfondirò questo aspetto della “questione turistica” più avanti, con un articolo dedicato qui sul blog.

Italia e biciclette, un controsenso a pedali

[Immagine tratta da qui.]
In un paese come l’Italia che già da tempo si distingue in modo negativo sull’attenzione che pone all’uso della bicicletta, il governo ha recentemente azzerato, su (ignobile) iniziativa del ministero competente, i fondi per le infrastrutture ciclabili. Ma non è certo un problema di schieramenti politici, visto che dal 2020 al 2030, i governi italiani hanno messo a bilancio quasi 100 miliardi per l’auto, poco più di uno per la bici: cento volte meno, insomma (qui trovate un ottimo dossier al riguardo, curato da CleanCities). Con il risultato che le strade sono sempre più intasate di traffico e nel frattempo gli incidenti che coinvolgono i ciclisti aumentano di continuo. E comunque, ribadisco, non è certo un problema che nasce due o tre anni fa, questo, ma viene da lontano e da una più profonda, generalizzata negligenza politica e amministrativa. Peraltro, di quanto l’Italia sia ancora arretrata al riguardo ne ha parlato anche un recente articolo de “Il Post”, che contiene dati assai significativi per farsi un’idea chiara della noncuranza istituzionale italiana verso biciclette e ciclisti.

Posta questa realtà di fatto, parecchio disonorevole, risulta ancor più “sorprendente” – in senso negativo, per non scrivere direttamente sconcertante – la recente proliferazione di ciclovie ad uso prettamente turistico soprattutto in montagna e sovente a quote alte, che sembrano diventate il nuovo “testo sacro” del turismo per innumerevoli località montane, che siano già sciistiche oppure, forse in maniera maggiore, che non lo siano, e alle quali vengono destinati milioni e milioni di finanziamenti pubblici.

[Immagine tratta da qui.]
Un fenomeno alquanto disorientante, a ben vedere: mentre nelle aree altamente urbanizzate le amministrazioni pubbliche non solo “faticano” a creare percorsi per il transito ciclistico ben fatti, diffusi e sicuri, mettendo spesso in atto azioni propagandisticamente definite “risolutive” ma che spesso non risolvono e anzi aggravano il problema – risultato: ben 220 persone decedute in incidenti in bicicletta nel 2021, più di una ogni due giorni –, nei territori montani si costruiscono chilometri e chilometri di ciclovie ad uso maggioritario di turisti che facilmente utilizzano la bicicletta, rigorosamente elettrica, solo nei periodi di vacanza e soltanto per scopi ludico-ricreativi (e per questo abbisognano di percorsi i più lisci e agevoli possibile), spesso con impatti ambientali notevoli e altamente discutibili che vanno a deteriorare spazi in quota a volte ancora incontaminati, e ciò solo perché questa modalità di frequentazione (o di fruizione, termine forse più adatto) delle montagne viene spinta come il non plus ultra attuale, la nuova frontiera del turismo montano, il mood super wow da n-mila like su Instagram e TikTok – ovviamente “eco”, “green”, “sostenibile”, eccetera.

Ovvero, in soldoni (letteralmente): da una parte, dove ci sarebbe da investire sempre di più, si azzerano i fondi pubblici; dall’altra, dove ci sarebbe da investire nel modo più oculato possibile, i fondi pubblici si sperperano.

E per dirla in altro modo: da una parte le persone ci lasciano le penne, dall’altra ci lascia le penne la montagna.

[Immagine tratta da qui.]
Ditemi voi se vi sia qualche logica in tutto ciò – che non sia meramente “politica”, ovvero di ricerca e conquista di tornaconti particolari da parte dei sostenitori di quegli interventi montani. Ditemi voi se vi sia qualche traccia di sviluppo, di cultura, di sostenibilità ambientale, di connessione alla realtà delle cose, di visione del futuro. Magari c’è e sono io che non la vedo, non so. Però i mazzi di fiori lungo le strade sui luoghi di qualche incidente mortale in città e i continui nuovi nastri di cemento in mezzo ai prati a 2000 e più metri di quota, be’, queste cose le vedo molto bene. Ecco.

N.B.: per prevenire le critiche di chi “concentra” troppo la propria visione della questione, rimarco che il nocciolo di essa non sta nei suoi singoli elementi – la ciclovia, la pista ciclopedonale, l’ebike, il ciclista di montagna o di città, eccetera – ma nel quadro complessivo di essa e soprattutto nella gestione – o nella non gestione – da parte di chi ha voce istituzionale in capitolo, dalla cui frequente illogicità d’azione deriva tutto il resto o quasi.

“Destagionalizzazione” del turismo montano: prodigio o maleficio?

[Immagine tratta da jennyvallese.com.]

Destagionalizzazione è un altro di quei termini divenuti dei “mantra” nella promozione turistica contemporanea e nella comunicazione politico-istituzionale di sostegno ai progetti di “sviluppo turistico” e di infrastrutturazioni varie circa i quali si voglia convincere l’opinione pubblica della loro bontà. Probabilmente ve ne sarete accorti anche voi.

In realtà il termine ha un’etimologia di matrice economica, e indica il «metodo statistico atto a identificare e rimuovere le fluttuazioni di carattere stagionale di una serie storica che impediscono di cogliere correttamente l’evoluzione dei fenomeni considerati. Ad esempio il calcolo dell’indice della produzione industriale, la cui serie “grezza” (non destagionalizzata) presenta una brusca caduta nei mesi estivi a causa della chiusura di molte fabbriche o imprese» (fonte qui) per cui, togliendo i dati di quel periodo fuori norma, si destagionalizza il calcolo rendendolo più obiettivo e credibile.

Nell’ambito turistico “destagionalizzazione” ha assunto un significato comunque di natura economica, riferito alla pratica di «Ampliare la propria offerta turistica, organizzando un evento in un periodo dell’anno diverso da quello in cui comunemente è collocata l’offerta principale. Pratica diffusa, che viene messa in atto soprattutto nelle località balneari. Un esempio ampiamente discusso è Viareggio: il Carnevale ha fatto sì che la città oltre ad essere molto visitata nel periodo estivo, goda di un buon numero di turisti anche in inverno.» (fonte qui). La destagionalizzazione dell’offerta turistica impone un «ripensamento dell’offerta turistica con uno sforzo comune offrendo formule di turismo lento e sostenibile, responsabile ed eco-culturale, enogastronomico e del benessere.» (fonte qui).

È interessante quell’appunto, nella seconda citazione riportata, che segnala come la destagionalizzazione turistica sia una pratica diffusa soprattutto nelle località balneari. Fatto sta che, dal Covid in poi più che per quanto accaduto prima, stia apparentemente diventando una pratica assai in voga anche tra le località sciistiche montane. Apparentemente, ribadisco, dacché l’impressione vivida che se ne ricava è che la “destagionalizzazione” supposta da molte località montane pressoché totalmente vocate allo sci su pista sia in realtà un tentativo di spalmare lungo più mesi l’anno le pratiche turistiche massificate e banalizzanti che caratterizzano lo sci contemporaneo, puntando alla lunaparkizzazione spinta delle montagne per ricavarne una fruizione massimamente monetizzabile tanto quanto la meno culturale e responsabile possibile. In sostanza si vorrebbe praticare l’opposto di quanto l’accezione economica originaria del termine “destagionalizzazione” indica: non tanto un metodo per evitare i periodi turisticamente meno intensi ma per espandere il più possibile i periodi intensi e più massificati dunque impattanti, degradanti, banalizzanti i territori montani in oggetto. Un luna park alpestre, con tanto di giostre d’ogni sorta, aperto non più solo per quattro o cinque mesi l’anno ma per dieci o undici, senza alcun ripensamento autentico dell’offerta di pratiche turistiche «con uno sforzo comune offrendo formule di turismo lento e sostenibile, responsabile ed eco-culturale», come indicato nella terza citazione, ma tutto l’opposto: una negazione sempre più assoluta di qualsiasi pratica turistica che non sia quella legata alla monocultura sciistica e ai modelli del più pernicioso turismo di massa. Modelli che, ove non sia messa in atto un’accurata e oculata gestione in senso generale, hanno provocato e stanno provocando danni un po’ ovunque i quali evidentemente non vengono minimamente considerati dai promotori di quei progetti di “sviluppo turistico” che, come ho già detto (scritto) più volte, sembrano fermi agli anni Settanta del secolo scorso, come se nulla fosse accaduto in seguito fino a oggi ovvero come se la realtà sociale, culturale, economica, ambientale e climatica dei territori di montagna fosse rimasta immutata e restasse immobile, sospesa dalla realtà.

Ma cosa è veramente sospeso dalla realtà? La montagna o chi la pensa nel modo appena descritto?

Be’, a questo punto permettetemi un finale sarcastico: non è che da “destagionalizzare” veramente, prima della montagna, siano quelli che si arrogano il diritto e il potere di soggiogarla alle loro illogiche iniziative, destagionalizzandoli (sinonimo di “rimuovendoli”, nella definizione economica citata in principio) in modo che non possano più fare danni né in inverno e in estate e nemmeno negli altri periodi dell’anno?

La neve che cade e gli “hikikomori dello sci”

[Una webcam sulle piste di Madesimo, ieri mattina.]

Sui monti in questi giorni sta nevicando ed è una cosa bellissima e rinfrancante. Lo è quanto divertente è leggere, per me, quelli – ne ho già intercettati un paio, usualmente sostenitori dello sci su pista – che già son lì a dire «Ah, sta nevicando, dove sono quelli che dicono che per i cambiamenti climatici non nevicherà più?»

Ecco, trovo che siano divertenti in questa loro alienazione da hikikomori dello sci, perché sono convinti che quelli come me particolarmente critici riguardo la gestione economica, ambientale e culturale dell’industria dello sci contemporanea passino le loro giornate a formulare malefici per non far nevicare sui monti e così mandare in fallimento i comprensori sciistici. Invece, forse in forza di quello stato alienato che – mi permetto di ritenere – sembrano manifestare, come se veramente fossero rinchiusi nella loro piccola stanzetta con le serrande chiuse nella quale il tempo è fermo a lustri fa e della realtà delle cose odierna non entra pressoché nulla, i tizi non si rendono conto che sono proprio quelli come me a felicitarsi per primi quando nevica e ancor più se nevica abbondantemente: perché quando ciò accade è autentica manna dal cielo – letteralmente ancorché in forma di acqua gelata – per tutti noi, non solo per impiantisti e sciatori, perché è nutrimento per l’ambiente naturale e riserva idrica che ci assicuriamo per la stagione calda, perché è coperta protettiva per i ghiacciai già fin troppo sofferenti, perché la neve è un elemento di regolazione termica indispensabile per la biosfera montana, perché se nevica sulle piste da sci gli impiantisti non devono sparare la deprecabile neve artificiale che depaupera le riserve idriche e manda in rosso i loro bilanci, con la conseguente cascata di soldi pubblici necessaria per tappare i buchi e continuare con la tragicommedia dei morti che camminano, spargendo un pari afflato mortale all’intero territorio montano d’intorno e alle comunità che lo abitano.

Dunque ben vengano tante belle nevicate, sulle piste e ovunque sui monti! E voi che ponete domande come quella indicata in principio, sciate quanto vi pare e piace, finché è possibile e senza la farsa della neve finta. Poi, magari, se lo sforzo intellettuale non vi pare maggiore di quello necessario per prendere una seggiovia, provate a uscire dalla vostra stanzetta buia e a guardarvi intorno, a osservare veramente le montagne, a comprendere la loro realtà, la loro cultura, la dimensione sociale, il loro presente e il futuro. E a ragionarci sopra un po’, obliterando non più lo skipass ai tornelli della seggiovia ma per una volta la mente alle montagne, così da coglierne l’anima più autentica: è con questa che chiunque le frequenti deve relazionarsi, non con altro. Se non c’è una relazione del genere, non ci sono nemmeno le montagne ma c’è solo uno spazio vuoto dove tutto vale cioè dove nulla ha più senso, nel quale se nevica tanto, poco o nulla non conta granché. Già.

Chiudo in bellezza con una citazione che “casca a fagiolo” in ogni senso, avendola intercettata proprio oggi sulla pagina Facebook di Michele Comi, e riguardante il libro di Wilson Bentley Snow Crystals, edito nel 1931:

Vide nei fiocchi di neve quel che altri uomini non seppero vedere, non perché non potessero farlo, ma perché non ebbero la pazienza e l’intelligenza per cercare.