Tra i migliori trenta architetti italiani

Sono molto felice di leggere che il sito web internazionale Architizer, con sede a New York e mission dichiarata di «celebrare la migliore architettura del mondo e le persone che le danno vita» ha incluso l’amico Enrico Scaramellini e il suo studio Es-Arch tra i migliori trenta studi di architettura italiani, in base a una classifica la quale considera alcune delle statistiche chiave che dimostrano il livello di eccellenza architettonica di ciascun studio.

È un riconoscimento meritatissimo per Scaramellini e non lo dico tanto io, che non conto granché, quanto la stima e l’apprezzamento che gode dentro e fuori il mondo dell’architettura nazionale e, appunto, internazionale. Ciò grazie a progetti e opere principalmente realizzate in territori montani (ne vedete alcuni lì sopra) dallo stile riconoscibile, emblematico, abili nel coniugare tradizione e innovazione in modi mai banali e sempre capaci di raccontare narrazioni dei luoghi e delle relazioni che danno loro vita, per le quali l’opera progettata rappresenta un ulteriore elemento di forza, di vivacità, di dinamismo spaziale e temporale.

La classifica è stata pubblicata ormai da qualche settimana ma ne parlo ora perché è imminente l’inaugurazione di uno degli ultimi progetti Es-Arch: la nuova palestra di arrampicata di Campodolcino (Valle Spluga, provincia di Sondrio; la vedete nelle immagini qui sotto). Un’opera estremamente suggestiva le cui forme, i volumi, le superfici dialogano con la morfologia delle montagne circostanti richiamando nelle proprie linee architettoniche e nei colori le relative peculiarità del paesaggio alpestre locale, al contempo risultando estremamente agile, quasi leggera nonostante l’apparente monoliticità, al punto da sembrare più contenuta di quanto in realtà sia.

Di nuovo complimenti vivissimi a Scaramellini, il cui personale cammino esplorativo sui sentieri e nei territori dell’architettura più bella e armoniosa prosegue disseminando cairn architettonici di mirabile fascino e grande valore culturale, sia per i luoghi e i paesaggi nei quali vengono inseriti che per chiunque se li ritrovi di fronte e li possa ammirare.

Vedere il paesaggio, osservare lo spazio e il tempo

A volte, quando si osserva il paesaggio e vi si colgono le forme dello spazio, quelle geografiche o i segni umani che contiene, può capitare che diventi ben visibile anche il tempo, rappreso in quelle forme e al contempo in divenire nel mentre che si resta lì a osservare. D’altro canto non c’è spazio senza tempo, anzi, non c’è tempo che non sia spazio, e quindi che non possa essere còlto e “osservato”: è ciò che occorre per elaborare la veduta del paesaggio più sensibile e approfondita, per farcelo conoscere e comprendere al meglio e altrettanto meglio viverlo, abitarlo, praticarlo, tutelarlo.

Il corpo della Terra

[Foto di 12019 da Pixabay.]
Occupandomi di studiare la relazione che si instaura tra il territorio e le genti che lo abitano, la stessa dalla quale scaturisce il concetto di “paesaggio”, so bene e constato di continuo che si tratta di una relazione prettamente culturale. Di sicuro si struttura attraverso le molte declinazioni del termine “cultura” – storica, antropologica, sociale, geografica, eccetera – ma in ogni caso anche la parte più emozionale della relazione, pur importante, risulta sostanzialmente subalterna alla prima e da questa influenzata.

Tuttavia, quasi con altrettanta frequenza mi rendo conto che il legame che possiamo instaurare con il territorio e il suo paesaggio può risultare ancora più istintivo, ovvero legato a percezioni poco mediate che pescano da suggestioni diverse e “alternative”: per dire, la veduta fotografica che vi propongo qui sopra di primo acchito mi ha suscitato l’impressione di qualcosa di vivo, la visione ravvicinata d’un organismo vivente, come se gli spettacolari calanchi ritratti fossero linee muscolari o articolazioni oppure, se immaginate ad una scala minore, rughe di un’epidermide antica ma per nulla sfibrata, anzi, ricolma di energia e assolutamente dinamica, appunto (e non solo perché in effetti i calanchi sono parti del territorio dotate di “movimento”). Ciò mi ha generato nella mente la sensazione di una potenziale relazione con questo luogo basata in primis sul contatto fisico tra organismi vivi più che su una elaborazione di matrice culturale, cioè sulla considerazione del luogo come parte a contatto di una grande entità con la quale instaurare un legame fisico, prima che mentale e intellettuale.

Da tempo è stata elaborata la concezione della Terra come grande organismo vivente, derivandola nell’idea di fondo dalla mitologia greca (Gea o Gaia – ma in fondo anche il Genius Loci dei Romani in altro modo dà vita ai luoghi così come certo Panteismo) e mediandola con la visione ecologica e olistica (nonché laica) contemporanea su tali temi: ma è un concetto che appare quasi sempre astratto, tanto suggestivo e affascinante quanto immaginifico e sfuggente. In effetti lo è ma, al di là di qualsiasi possibile tematizzazione di esso in chiave ambientalista, se riusciamo a osservare con maggior dettaglio e sensibilità la forma del territorio nel quale ci troviamo, credo che frequentemente possiamo trovare percezioni e parvenze fisiologiche e così elaborare una visione “biologica” del paesaggio atta a generare una relazione con esso più stretta e, appunto più viva oltre che un’essenza soggettiva del territorio e non solo funzionalmente oggettiva. Una relazione che ci può far comprendere meglio l’importanza della conoscenza e della salvaguardia del mondo nel quale viviamo, anche attraverso una forma di “affetto” generata proprio dal pensarci come organismi a contatto e in vincolo, interattivi e interdipendenti, legati da una relazione diversa nella forma ma non nella sostanza a quella che ci lega con qualsiasi altra creatura vivente: toccare la superficie terrestre come tastare un’epidermide che a suo modo genera vita e che dunque non possiamo permetterci di maltrattare, di ferire, di lacerare o sfigurare, se non assumendo tutta la cura e l’attenzione del caso e senza generare danno ma beneficio, proprio come dovessimo curare la pelle d’un’altra persona, di un nostro simile.

Ma a ben vedere, in quanto organismi viventi parte di un unico grande ecosistema, non siamo tutti quanti vicendevolmente simili?

È una visione estremamente immateriale e astratta, questa mia, lo so bene. Eppure anch’essa mi aiuta a comprendere meglio il territorio, il luogo il paesaggio nel quale mi trovo e a relazionarmi con esso, per quanto posso essere capace di fare: nel modo più culturalmente approfondito possibile, certamente, ma non senza l’apporto di quelle libere percezioni emozionali suddette. Solo vaneggiamenti, forse, o forse no. Chissà.

Respirare con gli occhi

Respirare con gli occhi.

È una delle cose che cerco di fare più metodicamente, quando vagabondo per le montagne, nei contesti che ritengo più adatti allo scopo – come quello dell’immagine lì sopra. Non c’è bisogno che siano luoghi particolarmente spettacolari, dal panorama “da cartolina”… no, potrebbe essere qualsiasi luogo. Anzi, a volte sono quelli meno rinomati a svelare cose impensabili, appunto.

Respirare con gli occhi, sì.

Guardare i territori, vedere i luoghi, osservare i paesaggi. E inspirare tutto quanto, esattamente come l’aria attraverso il naso nei polmoni per ossigenare il corpo e i suoi organi, ossigenando con gli occhi la mente, il cuore, l’animo.

Penso che l’osservazione costante del mondo nel quale ci troviamo e abbiamo intorno dovrebbe rappresentare un processo biochimico vitale proprio come la respirazione, una modalità per assumere e assimilare un elemento indispensabile, necessario a mantenerci vivi tanto quanto a manifestarci come entità pienamente viventi. D’altro canto, nello stesso modo per il quale tramite la respirazione noi ci componiamo anche di ossigeno, l’assimilazione visiva e intellettuale del paesaggio ci rende suoi elementi più profondamente che attraverso il mero starci dentro. Respiriamo la vitalità del mondo che noi stessi contribuiamo a determinare, “espirando” in esso la nostra presenza interattiva in quel processo biochimico che, appunto, è la nostra vita nel mondo che viviamo.

Ma, anche più semplicemente, respirare con gli occhi significa assimilare compiutamente la bellezza del paesaggio, quand’esso sia considerabilmente “incontaminato” e dunque salubre; infatti, quando di contro ci troviamo in un luogo o territorio contaminato, malamente sfruttato, inquinato, esteticamente sgradevole, non ci verrebbe mai di “respirarlo” esattamente come cerchiamo di tapparci il naso e inspirare il meno possibile in un luogo ove vi siano odori variamente nauseanti. Ecco, è la stessa cosa, in fondo. Per questo è bene respirare con gli occhi in quei luoghi la cui bellezza e integrità ci sappia ben “ossigenare”: per esercitarsi a una maggior resistenza nei luoghi dove invece ci viene da trattenere il respiro per evitare repulsione e fastidio, e al contempo per comprendere quanto sia importante godere di aria buona, e di un mondo salubre, per viverci nel modo migliore e più confortevole possibile.

Provate, dunque, a respirare con lo sguardo anche voi. Mi direte, poi, se vi sentirete più ossigenati, come accade a me.