Camminate, e andrà tutto bene!

[Foto di Jens Herrndorff su Unsplash.]

Non bisogna perdere la voglia di camminare: io, camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno; i pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata… ma stando fermi si arriva sempre più vicini a sentirsi malati… Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene.

[Bruce Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi, 1a ed.it.1988.]

Se il viaggio, al netto di quelle “biologiche” è la pratica antropologica per eccellenza, il cammino a piedi è il viaggio per eccellenza. I mezzi di trasporto ci sono necessari per conoscere il più possibile il mondo ma poi il vero viaggio (ri)comincia quando muoviamo passi attraverso i suoi spazi e i paesaggi. Perché il viaggio, quando autentico, impone una connessione con la superficie del mondo affinché ne possa nascere una relativa relazione con i luoghi che la caratterizzano. L’osservazione di essi da bordo di un’auto, un treno o un aereo è utile e affascinante ma non sarà mai profonda, acuta e attendibile come quella che il cammino consente. Non è solo una questione di lentezza ma più – se così posso dire – di genetica umana: camminando riscopriamo il nostro spirito primordiale e riattiviamo le sue peculiarità, a partire dal bisogno di identificare al meglio il mondo che attraversiamo e abbiamo intorno per poter parimenti identificare al meglio noi stessi. Che è poi una delle forme primarie di benessere psicofisico, come scrive Chatwin.

Dunque ora che sta tornando la stagione più propizia per il vagabondare camminatorio, non si può che esserne felici. Anche perché, camminando, il viaggio più vero e affascinante può cominciare appena fuori dall’uscio di casa, proprio lì dove comincia l’infinito. Basta un passo e ci stiamo dentro, già.

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C’erano una volta le castagne “solidali”

[Foto di Sergio Cerrato – Italia da Pixabay.]

I castagni erano considerati piante preziose per quel che davano: legname ottimo per mobili e suppellettili, per fare i pali delle vigne e le recinzioni, per trasformare le foglie in ottima lettiera per gli animali, per ottenere la farina dalle castagne e trasformarla in pane dei poveri. Castagne che venivano anche date in dono assai gradito ai contadini delle alte valli interne, dove il castagno non era mai arrivato a mettere radici.

[Franco FaggianiLe meraviglie delle Alpi, Rizzoli/Mondadori, 2022, pag.158.]

Trovo assolutamente significativo questo passaggio del libro di Faggiani – che fa riferimento al “Sentiero del Castagno”, percorso escursionistico altoatesino tra Bressanone e Bolzano – non solo perché rimarca l’importanza storica assoluta delle selve castanili per le genti di montagna, ma pure per come le castagne divenissero oggetto di una peculiare e emblematica forma di sostentamento condiviso tra montanari che si può ritrovare un po’ ovunque, nelle nostre terre alte, non necessariamente mirato alla reciprocità. Dalle mie parti, ad esempio, nelle selve un tempo assai vaste di Colle di Sogno (che in effetti vaste lo sono tutt’oggi ma purtroppo non vengono curate come un tempo), era in vigore un’antica usanza condensata nell’adagio vernacolare «Dopu San Martì depertöt gh’è mì!» (“Dopo San Martino dappertutto è cosa mia!”) per la quale dopo l’11 novembre a chiunque veniva consentito di entrare nei castagneti di proprietà degli abitanti del borgo e raccogliere i frutti ancora rimasti sugli alberi e sul terreno: una forma di generosa solidarietà della quale lassù approfittavano soprattutto i contadini del fondovalle e della pianura alto milanese, i cui campi in quel periodo già risultavano ormai improduttivi, che salivano sui monti di Colle di Sogno per accaparrarsi una così preziosa riserva di pane dei poveri – come le castagne venivano diffusamente chiamate proprio in forza dell’importanza del sostentamento da esse ricavato per le classi meno fortunate. D’altro canto la manifestazione di queste forme di microeconomia vernacolare rappresentavano anche occasioni di scambi socioculturali tra gli abitanti delle montagne e dei territori ad esse prossimi: una dimensione di metromontagna arcaica e elementare eppure già di grande valore e importanza, che può ben diventare nozione per l’auspicata, rinnovata metromontagna contemporanea in grado di rivitalizzare e riequilibrare il rapporto tra montagne e città stemperando la condizione di marginalità alla quale le prime sono state per troppo tempo costrette – peraltro in modalità antitetiche al secolare passato, come visto.

E, per chiudere il “cerchio castanile” qui tracciato in modo letterario, sappiate che lo stesso Colle di Sogno con le sue montagne è citato nel libro di Franco, in un capitolo precedente e per altri motivi. Ma è una circostanza non così casuale, mi viene da pensare.

La libertà del/nel bosco

[Foto di Larisa Koshkina da Pixabay.]

A partire dagli undici anni, trascorrevo molto tempo nei boschi, alla scoperta di non so cosa. Spesso partivo la mattina in bici con un panino e un termos, per non tornare che la sera. Ricordo che avevo scoperto in mezzo alla foresta, lontano da case, strade e sentieri, un laghetto dove mi ero costruito un rifugio. Passavo ore lì a osservare, fiutare, esplorare un angolo di natura selvaggia dove non veniva nessuno, e dove mi piaceva immaginare che nessuno tranne me avesse mai messo piede. In ogni caso non ho mai incontrato anima viva intorno a quel laghetto sperduto, cui non conduceva alcun sentiero. Ero solo e mi sentivo straordinariamente bene. Non avevo sempre bisogno di compagnia per sentirmi felice. Anzi. Oggi direi che ero felice perché mi sentivo libero, perché potevo andare dove mi pareva, perché nessuno mi diceva cosa fare e cosa non fare, ma anche perché, suggestionato dalle storie di indiani – piuttosto che di cowboy – dei romanzi di Fenimore Cooper e altri, immaginavo di essere fuori dal mondo quotidiano e tristemente reale (…) Le ore e i giorni trascorsi in solitudine nella foresta di Åseda sono sicuramente stati uno momento di libertà importante e formativo nella mia vita. E’ probabile che avrei trovato altre vie di fuga e altri margini dove inscrivere la mia indipendenza, se fossi vissuto in una grande città. Ma sarebbe stato molto più difficile scoprirli da solo.

(Björn LarssonBisogno di libertàIperborea, 2007, traduzione di Daniela Crocco, pag.22/25)

Anche io, come Larsson e con in mente l’esperienza filosofica di Thoreautrovo da sempre il bosco come uno dei luoghi dentro il quale mi sento più a casa, se così posso dire. Un ambito non solo possentemente naturale, protettivo, vitale, non solo bio-logico e antropologico ma anche culturale, in senso filosofico e non solo. E non è un caso che lo scrittore svedese ne parli in un libro dedicato al concetto di libertà e al bisogno di essere – non sentirsi, essere – liberi: che cos’è la libertà se non una delle più alte e consapevoli forme di cultura?
E dove si è liberi, e d’una libertà garantita, per così dire, anche dal poter starsene al riparo dalle cose spesso torbide del mondo, se non in ciò che possiamo riconoscere come “casa” – la quale non è solo, ovviamente e banalmente, il luogo con un tetto e quattro mura dove risiediamo?
Ecco, appunto.

Camminare con il corpo ma non con lo spirito

[Foto di Melanie da Pixabay.]

Sono allarmato quando capita che ho camminato un paio di chilometri nei boschi solo con il corpo, senza arrivarci anche con lo spirito.

[Henry David Thoreau, Camminare, Mondadori, Milano, 2009, a cura di Massimo Jevolella; orig. Walking, or the Wild, 1862. La mia “recensione” al libro la trovate qui.]

Quella che a suo modo afferma Thoreau è una verità fondamentale: stare in un luogo senza saper intessere una relazione spirituale con esso è come non starci, non esserci. E in fondo ciò denota pure la differenza basilare tra luoghi e non luoghi: questi secondi non richiedono alcuna relazione con chi li visita, non avendo un’identità con la quale relazionarsi, mentre i primi basano proprio su questa relazione la loro essenza, il loro essere “luogo” nel senso pieno e compiuto del termine. Il che rimarca un’ulteriore diversità tra i due ambiti: il non luogo privo di identità richiama inesorabilmente individui altrettanto che ne sono altrettanto privi, i quali invece del luogo non sanno cogliere il valore. E non se ne allarmeranno mai, purtroppo, a discapito del luogo stesso che in qualche modo dovrà essere salvaguardato da tale trascuratezza spirituale e culturale.

Ecosistemi ed egosistemi

Francesco Azzalini mi porta a vedere un cippo veneziano nascosto in un bosco vicino, datato 1600, che delimitava un pascolo interno della foresta. Strada facendo mi fa notare i giovani e sottili faggi alti pochi centimetri che iniziano ad affacciarsi tra l’erba, ai margini del bosco. “Crescono senza essere stati brucati dai cervi o dai caprioli, ottimo segno; tutto merito dei lupi”, dice con evidente soddisfazione. Cosi il discorso si sposta dal mondo vegetale a quello animale. “Nella foresta ci sono molti cervi, ben più di quanti l’ambiente ne possa sostenere nel giusto equilibrio”, mi spiega il mio accompagnatore cimbro. “Con il loro riprodursi, insieme ai cinghiali e ai caprioli, hanno fatto fuori tutto il sottobosco. Fino a qualche tempo fa non c’era più traccia di erbe, cespugli, bacche e nemmeno di giovani alberi. Però dove ci sono prede arrivano inevitabilmente i predatori naturali, e cosi ecco qualche orso e soprattutto i lupi tornare ad aggirarsi nei boschi. Questo ha indotto i cervi e gli altri ungulati a uscire e a vivere allo scoperto, tra i prati e le radure, perché cosi possono vedere meglio chi sta loro alle calcagna e darsi alla fuga. Ciò ha fatto in modo che il vario sottobosco iniziasse a crescere di nuovo rigoglioso, ricreando l’ambiente perfetto per i piccoli roditori, i rettili, le martore e le faine, e gli uccelli d’ogni tipo, compreso il gallo cedrone, pur se al momento rimane una rarità”.

[Franco FaggianiLe meraviglie delle Alpi, Rizzoli/Mondadori, 2022, pagg.186-187. La fotografia in testa al post è mia.]

«Ecosistema (/e·co·si·stè·ma/, sostantivo maschile): l’insieme degli organismi viventi (fattori biotici) e della materia non vivente (fattori abiotici) che interagiscono in un determinato ambiente costituendo un sistema autosufficiente e in equilibrio dinamico». Ecco, questa è una definizione lessicale di “ecosistema” che si può trovare su un buon vocabolario; Faggiani, nel suo libro (la cui mia recensione potete leggere cliccando sulla copertina qui accanto), dà invece una definizione esperienziale che si può ricavare da un luogo biologicamente sano. Sia l’una o l’altra che si voglia considerare, pare che la civiltà umana abbia trascurato se non dimenticato entrambe ciò nonostante dell’ecosistema anche l’uomo farebbe parte e, per questo, dovrebbe contribuire a preservare quell’equilibrio dinamico citato. Invece no, troppo spesso non va così e nemmeno ci si rende più conto che la rottura dell’equilibro ecosistemico naturale non danneggia solo due specie eventualmente concorrenti e quelle afferenti – l’uomo e il lupo, ad esempio – ma viene danneggiato l’intero ambiente naturale che, come la definizione lessicale indica, si fonda su un sistema di relazioni biotiche e abiotiche dal quale tutti possono trarre vantaggio ovvero possono subire danni. Ma quando invece i vantaggi vanno solo a pochi, pure questi pochi (i quali, chissà perché, hanno sempre fattezze umane) in verità subiscono dei danni: solo che, credendo di stare dalla parte dei “vincenti”, purtroppo non sono in grado di rendersene conto, appunto.