Per affrontare con successo i più importanti problemi internazionali come la disponibilità di acqua dolce, nei decenni a venire tutte le culture avranno bisogno di una comprensione empatica. Sorgono però delle questioni. Come potrà operare l’empatia su vasta scala all’interno di culture dove ancora regna il sospetto verso la difficile situazione degli stranieri? O nelle culture già sull’orlo del disfacimento a causa della guerra, della pressione ambientale, degli abusi dei dittatori? O ancora, nelle culture indifferenti al destino di hi vive oltre il proprio confine e convinte che la loro totale disintegrazione non avrà conseguenze?
Nei paesi anglosassoni, molto più avanzati dei nostri negli studi psicosociali, esiste una disciplina della psicologia ambientale che si chiama empatia ecologica, o eco-empatia, che analizza e valuta la connessione e gli atteggiamenti degli individui nei confronti della natura e del mondo in generale inteso come ecosistema. Sarebbe una perfetta base psicologica e culturale sulla quale costruire la comprensione empatica tra le varie culture umane che abitano il macro-ecosistema mondo invocata da Lopez. Tuttavia, visto come ancora molta parte della nostra civiltà, anche la più avanzata, si pone nei confronti della natura, temo che quanto affermato da Lopez al momento sia da considerare pura utopia. E si vede benissimo, leggendo le cronache quotidiane di ciò che accade sul nostro pianeta tra le diverse culture che lo abitano.
Nonostante le innovazioni tecnologiche che hanno portato un’omogenizzazione culturale in quasi tutto il mondo, viaggiare aiuta il girovago curioso e attento a capire quanto sia profondo il concetto che un posto è sempre e davvero come nessun altro. Viaggiare incoraggia a rivedere i giudizi tramandati e la diffusione dei pregiudizi. Predispone la mente a considerare il contesto, liberandola dalla dittatura delle verità assolute sull’umanità. Aiuta a capire che non tutte le persone vogliono percorrere la stessa strada, perché preferiscono essere sulla propria.
Vi dirò: per raccontarvi del libro sul quale state per leggere, mi verrebbe da scrivere lo stesso incipit che formulai per Sogni artici, «È un libro di Barry Lopez, il più grande scrittore americano (e forse più grande in assoluto) di Natura e paesaggi: serve aggiungere altro, al riguardo?»
Ecco, idem per Horizon (Edizioni Black Coffee, 2022, con traduzione, prefazione e cura di Davide S. Sapienza) il quale, se possibile, accresce ancor più la grandezza narrativa, artistica, scientifica, umanistica e filosofica, di Barry Lopez, veramente una pietra miliare della letteratura dedicata in qualsiasi modo al nostro pianeta e a noi che lo abitiamo, a volte armoniosamente, altre volte ignobilmente. Al punto che un libro così, anche per il suo spessore (più di 630 pagine!) abbisogna di una doppia recensione.
La prima, al libro: ribadisco, è un altro capolavoro della letteratura del paesaggio che Barry Lopez come pochi altri ha saputo donarci. I racconti che lo compongono – novelle, diari di viaggio, biografie, saggi, confessioni… ognuno di essi è tante cose allo stesso tempo – sono uno più bello dell’altro seppur, per quanto mi riguarda, li ho trovati di bellezza crescente, con gli ultimi particolarmente affascinanti, evocativi, illuminanti, struggenti, potenti. Tuttavia, ribadisco, non si possono veramente pensare graduatorie di sorta con i testi di Lopez: ogni sua pagina è la visione di un mappamondo sulla cui superficie non si legga solo la geografia del pianeta ma anche la storia, i paesaggi, le tracce lasciate dalle genti, l’anima dei luoghi, lo spirito, la presenza del loro Genius Loci […]
(Potete leggere la recensione completa di Horizon cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)
Nel 2020, per la seconda edizione di ALT[R]O Festival, creai lungo un tratto del Sentiero Rusca una sorta di “percorso letterario” denominato “Suggestioni di lettura di strada. Camminare sulle parole” dotato di “segnavia” fatti da citazioni tratte da libri variamente dedicati ai temi della montagna e al paesaggio “stencilate” direttamente sul sentiero, nella parte dotata in certi tratti di un (discutibile, in verità) manto asfaltato per farsi anche ciclovia di fondovalle.
La prima delle citazioni che formavano il percorso è quella che mostra l’immagine lì sopra e che spiego di seguito (così come feci di persona in quei giorni del Festival accompagnando i partecipanti). Le altre le potete trovare qui.
Tullio Dandolo (la cui citazione ho tratto da Paolo Paci, L’Orco, il Monaco e la Vergine. Eiger, Mönch, Jungfrau e dintorni, storie dal cuore ghiacciato d’Europa, Corbaccio, 2020, pagg.12-13) è stato uno dei numerosi che, nel suo viaggio attraverso le Alpi (una sorta di Grand Tour alla rovescia, dall’Italia verso Nord), ne ebbe un’impressione terribile, niente affatto “bella” (anzi, gli parvero un «ributtante spettacolo», persino!), scrivendo quelle sue impressioni nel 1829, dunque proprio all’inizio della moderna “era” turistica alpina che stava costruendo e sviluppando i suoi immaginari estetico-culturali. D’altro canto un personaggio ben più celebre e importante, Hegel, a sua volta delle Alpi scrisse: «Dubito che il teologo più credulo oserebbe qui, su questi monti in genere, attribuire alla natura stessa di proporsi lo scopo dell’utilità per l’uomo, che invece deve rubarle quel poco, quella miseria che può utilizzare, che non è mai sicuro di non essere schiacciato da pietre o da valanghe durante i suoi miseri furti, mentre sottrae una manciata d’erba, o di non avere distrutta in una notte la faticosa opera delle sue mani, la sua povera capanna e la stalla delle mucche.»
Invece oggi il paesaggio alpino e montano rappresenta per chiunque una delle quintessenze terrene del concetto di bellezza. Peccato che, come indirettamente Dandolo e Hegel riportano, prima dell’avvento del turismo, il concetto di “bellezza” in montagna non esisteva: l’hanno portato e imposto nelle Alpi i viaggiatori dei Grand Tour dall’Ottocento in poi, conformandolo su stilemi estetici pittorici (e pittoreschi), romantici, industriali, metropolitani e meramente ludico-ricreativi che con i monti non c’entravano (e non c’entrano nemmeno oggi) granché. Semmai, per i montanari era “bello” ciò che era funzionale, che serviva a sopravvivere in quota: ad esempio il bosco perché dava la legna, non perché fosse misterioso e affascinante, il prato perché consentiva il pascolo del bestiame, non per la vividezza del verde dell’erba, eccetera. Ecco, forse si dovrebbe tenere più presente questa evidenza, quando decidiamo di stabilire cosa sia bello e cosa no nel paesaggio montano. D’altronde, al riguardo: e se le nostre convinzioni circa ciò che è “bello” o “brutto” non fossero così giustificate e giustificabili come crediamo? Se dovessimo rimetterle in discussione, noi per primi che le formuliamo e le usiamo come ordinari metri estetici di paragone, per capire se siano effettivamente sostenibili?
Non che per quanto sopra si debba tornare a (non) considerare il bello come facciamo oggi ma come facevano i montanari d’un tempo (la cui vita assai grama probabilmente toglieva pure la voglia e la sensibilità verso il “bello estetico” e la conseguente emozione verso i quali noi oggi siamo così sensibili!) e additare i monti come “spettacoli ributtanti”. Ma, appunto, potrebbe essere interessante cercare di giustificare, noi con e per noi stessi, le nostre valutazioni estetiche, di supportarle con riscontri oggettivi e con considerazioni culturali, di percepire l’emozione del bello e non mantenerla in “superficie” nel nostro animo ma sprofondarla in esso ovvero approfondirla, comprenderla maggiormente, acuirne il senso e il valore. Potrebbe diventare, quella bellezza che stiamo valutando, ancora più bella, oppure svelarsi come altro, chissà!
Potremmo ad esempio scoprire che aveva ragione, al riguardo, un altro grande personaggio dell’arte e della cultura umane più contemporaneo a noi, John Cage, quando scrisse che «La prima cosa che mi chiedo quando qualcosa non sembra bello è perché credo che non sia bello. Basta poco per capire che non ce n’è motivo.» (citato in AA.VV., Il libro della musica classica, Gribaudo, 2019, pag.304.) Un’osservazione sagace e illuminante, vero?
Come scrivevo già qui, qualche giorno dopo la notizia della sua scomparsa, Barry Lopez è una figura della quale, e del cui pensiero, il futuro avrà sempre più bisogno, da oggi e per lunghissimo tempo. Il che comporta che nel futuro un pubblico sempre più vasto conoscerà (dovrà conoscere) e apprezzerà la sua opera intellettuale rispetto al presente. Purtroppo è accaduto spesso che le parole di certi pensatori particolarmente profondi e rivoluzionari venissero comprese dal grande pubblico dopo tanto tempo, ad anni dalla loro scomparsa, è un difetto perdurante nelle società umane, questo; ma l’incidenza del loro pensiero sulla realtà in divenire è comunque potente e inesorabile e, nel caso, abbisogna solo che nel corso del tempo venga il momento per la sua cognizione e per la maturazione della relativa consapevolezza culturale. Quanto mai importante, con Barry Lopez, vista l’assoluta attinenza alla realtà contemporanea del nostro mondo e al suo futuro prossimo.
Per tutto ciò, e per il pubblico italiano, risulta altrettanto importante l’opera di Davide Sapienza, colui che s’è fatto “mentore” di Lopez in Italia al cui pensiero ha affiancato il proprio, altrettanto alternativo, stra-ordinario, innovativo: dunque in veste di custode primario del retaggio filosofico e morale di Barry Lopez nonché, appunto, come prosecutore del cammino analitico del grande scrittore americano lungo sentieri che dal solco principale si sono irradiati, e continuano a farlo, ovunque nel paesaggio naturale e nelle geografie umane.
Dunque non poteva che essere Davide a scrivere l’omaggio più legittimo e sentito in ricordo di Barry Lopez, accompagnando con un suo breve ma intenso pezzo un testo inedito (bellissimo e al solito illuminante) dello scrittore americano su “Limina”, corredato dalle illustrazioni di Simona Piccolini (una la vedete in testa a questo post). Nel suo prologo, Davide scrive che
In Lopez, nulla è scontato; proprio come durante un viaggio, nella wilderness piuttosto che in una città, ogni parola è un evento che risuona di vastità e che richiede di essere meditata, prima di essere pronunciata. Me lo hanno insegnato i suoi libri, me lo ha insegnato lui: scrivere è raccontare, richiede dunque spazio e tempo. Leggere Barry Lopez significa ascoltare una voce ben distinta e trovare un ritmo ben preciso. Perché sapeva che il suo importante ruolo culturale poteva e doveva lasciare un segno utile e non a caso di sé diceva «voglio vivere una vita che sia stata utile». La sua opera è con noi e lo sarà per i prossimi secoli. Perché è formidabile, perché è necessaria.
Ecco: nel complesso (dei due testi, intendo dire), l’omaggio di Sapienza a Lopez è altrettanto formidabile e necessario. Leggetelo e meditatelo con mente e cuore aperti e con spirito libero, cliccando sull’immagine in testa al post – e ringrazio di cuore Davide per avermi concesso di linkarlo pure qui e di sottoporlo così alla vostra attenzione.
P.S.: il titolo del presente post è un ovvio richiamo a questo.