L’Italia è uno dei paesi con il patrimonio culturale più grande al mondo, ma è pure quello che troppo spesso dimostra di avere un patrimonio di cultura civica terribilmente piccolo.
A tal proposito non posso che convenire con quanto ha scritto qualche giorno fa sulle proprie pagine social Simone Gambirasio, autore, blogger, marketing manager:
Questa settimana sono stato a Cremona, e dei tanti monumenti che avrei voluto vedere solo due erano accessibili in sedia a rotelle. Qualche giorno fa a Milano ho controllato quali negozi non avessero un gradino all’ingresso in corso Vittorio Emanuele e ne ho contati giusto due, ovvero le tanto criticate catene di fast food americane (McDonald’s e Hard Rock Café). Perché? Perché gli americani sanno che l’accessibilità è una caratteristica imprescindibile nel turismo, e che un Paese non accessibile non è considerato un Paese civilizzato nemmeno da chi una disabilità non ce l’ha. Ma noi siamo ancora quel Paese dove la metropolitana se c’è è accessibile a giorni alterni, i taxi accessibili girano solo di giorno (quando ci sono), dove gli ascensori sono un optional e dove molti negozianti se vedono una sedia a rotelle al massimo ti dicono “ti aiuto io”. Una penisola dove le spiagge saranno sicuramente in mano a chi se le merita eh, ma gli stabilimenti accessibili sono spesso un miraggio. […] L’accoglienza dovrebbe partire dai fatti, solo allora forse avremo qualcosa da comunicare e raccontare.
Su Facebook trovate il post nella sua interezza (dal quale proviene anche l’immagine lì sopra) qui.
Dunque: come si può promuovere la cultura del paese quando nel paese la cultura per renderla accessibile a chiunque è così carente? Qualche utente, nei commenti al post, denota che gli USA (dove hanno sede le grandi catene citate nel post) sono più evoluti sul tema perché mezzo secolo fa si sono ritrovati un’intera generazione gambizzata, reduce dalla guerra in Vietnam, alla quale dover assicurare l’accessibilità negli spazi aperti al pubblico. Mi viene da pensare, provocatoriamente: anche in Italia si dovrà affrontare qualche simile dramma per evolvere culturalmente e civicamente su certi temi una buona volta per tutte, e far evolvere il paese di conseguenza?
P.S. – Pre Scriptum: il presente articolo è stato pubblicato ieri, 19 aprile 2023, su “Il Dolomiti”, la cui redazione ringrazio di cuore per la considerazione che vi ha riservato.
[L’Uomo-Orso di Jelsi, Campobasso/Molise.]Se riusciamo a trarci fuori dallo specifico caso “Orsa Jj4-Andrea Papi” e da tutto il dibattito conseguente – sarebbe finalmente il caso di farlo, peraltro, visto quanto spesso assuma gli aspetti di una mera caciara – possiamo cogliere un altro aspetto del tema a cui il caso afferisce che non è stato granché considerato dai vari commentatori ma che a mio modo di vedere risulta fondamentale o quanto meno interessante da analizzare. Ovvero, il fatto che ciò a cui abbiamo assistito in questi giorni non è altro che una manifestazione in chiave contemporanea – nel bene e nel male di ciò – e niente affatto indiretta della relazione ancestrale tra uomo e natura, cioè tra mondo antropizzato e “civilizzato” e ambiente naturale selvaggio non (ancora) dominato dall’uomo se non marginalmente. Una relazione congenita all’antropizzazione umana dei territori naturali e della montagna in particolar modo, in questo periodo “interpretata”, loro malgrado, dal povero runner trentino da una parte e dall’orsa “problematica” dall’altro: ma, attenzione – qui è uno dei punti focali della questione – da un animale, l’orso, da sempre antropomorfizzato e presente nella narrazione storica dei territori in questione, dunque facilmente nonché inesorabilmente empatizzabile, sia in chiave positiva che negativa.
[L’Homo Salvadego della Val Gerola, Sondrio/Lombardia.]Mi vengono in mente le secolari figure mitologiche dei vari Homo Silvanus, Homo Salvadego, Omm Selvadech, Wildermann e tutte le altre facenti parte dell’etnologia alpina/appenninica e montana in generale (basti pensare allo Yeti tibetano o al Sasquatch nordamericano): tutte creature ominidi più o meno animalesche, tutte più o meno riconducibili alle fattezze dell’animale selvatico e relativamente antropomorfo per eccellenza delle montagne, l’orso appunto. Non a caso molti dei mascheramenti folclorici tradizionali dell’Uomo Selvatico/Wildermann sulle nostre Alpi riproducono le fattezze di orsi: se ne contano decine di casi nei vari carnevali alpini e non solo in essi (ma similmente riguardo lo Yeti himalayano, come non citare Messner il quale sostiene la teoria che sia un grosso orso?). Dunque, posto ciò, mi viene da pensare di conseguenza a tutta la letteratura più o meno vernacolare al riguardo e la sua interpretazione principale: l’identificazione e la determinazione, o la separazione, dello spazio abitato dall’uomo e di quello dominato dalle creature selvatiche e conseguentemente tutta la cultura storico-antropologica scaturente da tale relazione, che rimanda alle più ancestrali e ataviche paure dell’essere umano per ciò che sa di non saper o non poter dominare, anche quando quelle figure non assumano soltanto aspetti negativi. Un tema di matrice universale, sia chiaro, che vale per l’orso e per la natura selvatica come per l’oceano, i deserti, lo spazio, il buio eccetera, e che ancora oggi, a ben vedere e nonostante il livello tecnologico, culturale e di dominazione sul pianeta conseguito dall’uomo, è ben presente e attivo nel suo animo fino a influenzarne non solo l’emotività – il che sarebbe anche naturale – ma pure la razionalità. E che ci suscita comunque un notevole fascino, kantianamente “sublime”, qualcosa che ci attrae anche perché ci intimorisce (e viceversa): un aspetto assolutamente proprio dell’ambiente montano nei suoi vari aspetti, d’altro canto.
[L’Orso di Segale del carnevale di Valdieri, Cuneo/Piemonte.]Si può dunque discutere a lungo sulla presenza e la convivenza possibile o meno tra uomini e animali selvatici sulle montagne di oggi rispetto a come andavano le cose un tempo o riguardo le politiche di gestione da mettere in atto oppure no, tutti temi legittimi e anzi pragmaticamente necessari. Di contro, ribadisco, a me pare che una certa parte del tema finisca sempre e comunque a coinvolgere quella relazione difficile, cioè mai risolta e mai equilibrata, tra uomini e natura, tra mondo antropizzato e ambiente selvatico. Che è poi quella tra l’umano e il non umano, posta la nostra posizione di dominanza pressoché assoluta sull’intero spazio nel quale al momento siamo arrivati. In forza di ciò, per fare un altro esempio ipotetico ma emblematico, l’eventuale contatto con una civiltà aliena, se mai potesse accadere, sarebbe comunque traumatico: rappresenterebbe la manifestazione al massimo livello di ciò che accade ai livelli inferiori nel contatto con il “non umano” terrestre (ma anche tra umani “diversi”, purtroppo), il dover avere a che fare con qualcosa di sfuggente, di incontrollabile, potenzialmente letale ma anche per questo profondamente affascinante.
Questa relazione atavica e spesso problematica, al netto delle posizioni variamente ecologiste e animaliste tanto significative e importanti quanto sostanzialmente limitate, è appunto ancora ben presente nelle considerazioni legate al recente fatto di cronaca trentino, la cui sostanza si lega proprio alla presenza di un orso, animale alpino antropomorfo per eccellenza e in questo senso mitizzato da secoli. Sono certo che se ad uccidere lo sfortunato ragazzo trentino fosse stato un cinghiale, un cervo oppure un lupo, animale pur apprezzato e difeso da tantissimi, non avremmo constatato molte delle reazioni registrate dagli organi di informazione (per non dire dei social media), sia in un senso che nell’altro ovvero tra quelli che vorrebbero subitamente abbattere l’orso perché sul suo aspetto pur vagamente antropomorfo vi cuciono più facilmente addosso l’effigie del “nemico” ovvero del “pericolo” (proprio come accade simbolicamente in certi riti carnevaleschi), e quelli che per lo stesso motivo elaborano verso l’animale un’empatia se possibile maggiore, in relazione alle circostanze – che verso altre razze meno “umanizzabili”.
[Charles Freger, Wilder Mann, Ours, 2010-2011.]Certi vicendevoli isterismi di cui si è potuto leggere nei giorni scorsi non aiutano certo l’elaborazione della più equilibrata relazione uomo-natura e il suo evidentemente necessario sviluppo culturale: eppure è un aspetto che, io credo, dovrebbe essere più considerato o quanto meno non trascurato, meglio meditato e messo, insieme a tuti gli altri, a supporto di qualsivoglia iniziativa si decida di attuare, nel caso in questione, nella gestione politica quotidiana dei territori naturali e in generale nel nostro rapporto con la natura. Sulla quale ci siamo “evoluzionisticamente” assunti il diritto di governare (giusto o sbagliato che sia) ma che in verità non siamo ancora in grado di dominare compiutamente – come anche ha evidenziato con alcune sue considerazioni recenti il professor Annibale Salsa parlando di «illusione» riguardo la convivenza tra uomini e grandi predatori sulle montagne contemporanee. Forse è meglio così, forse quella nostra relazione con la natura selvaggia che si compone di razionalità e di emotività deve rimanere tale cioè irrisolta quale forma di auto-salvaguardia reciproca – noi verso la natura, la natura verso di noi – pur nel passare dei secoli e nel progresso generale del pianeta, e la cosa migliore che l’uomo possa compiere al riguardo è proprio il saper mantenere l’equilibrio tra le due componenti senza fare in modo che l’una tolga spazio all’altra e, anzi, salvaguardando quel margine di “mistero” e di incertezza, dunque di timoroso rispetto, che si riscontra nel contatto tra le due. Ciò anche perché nella natura “vera” la sicurezza assoluta e il “rischio zero” non esistono: se esistessero non avremmo più a che fare con una vera natura e in fondo il senso “filosofico” della civiltà umana al mondo e del suo progresso è dato anche dalla sussistenza “ancestrale” della natura selvatica in quanto tale, appunto.
Posso ben capire che sia molto più semplice disequilibrare definitivamente la relazione per risolverne la problematicità latente – dunque, nel caso in questione: via tutti gli orsi per lasciar campo aperto alle attività umane oppure via tutti gli umani dai territori frequentati dagli orsi – ma credo che non sarebbe una cosa degna d’una civiltà intelligente e avanzata come ci riteniamo e, nel caso, ne scaturirebbe un gravissimo, forse irreparabile danno (non solo rispetto alla biodiversità dei territori interessati) che colpirebbe anche e gli umani e forse essi più di altre creature. Visto che di disastri al pianeta e ai suoi ecosistemi ne abbiamo già fatti a sufficienza, e generalmente li abbiamo commessi proprio quando ci siamo disinteressati o dimenticati della nostra relazione con la natura e del generale portato di essa, sarebbe il caso di rimettere meglio in sesto le cose per il bene di tutti: umani, animali, natura, mondo, vita.
Diversi amici (che ringrazio molto) mi hanno segnalato, sulla questione “orsi in Trentino” rispetto alle cronache dei giorni scorsi, l’intervento sul quotidiano “Alto Adige” del professor Annibale Salsa, da sempre una delle figure più illuminanti sui temi della montagna. Intervento ovviamente interessante (lo potete leggere interamente cliccando sull’immagine qui sopra) che ha nella chiosa, a mio parere, la sua parte più importante:
L’antropocentrismo assoluto ha certamente arrecato danni per un eccesso di volontà di potenza della tecnocrazia. Tuttavia, non per questo, dobbiamo demonizzare l’essere umano in quanto tale. Riguardo alle politiche della montagna si tratta di scegliere, con onestà mentale, che tipo di montagna vogliamo. Una montagna selvaggia dove le attività umane sono bandite e dove gli abitanti sono una presenza scomoda o, viceversa, una montagna abitata ben sapendo che una convivenza perfetta fra uomo e grandi predatori è un’illusione.
Una conclusione con la quale il professor Salsa mette sostanzialmente in luce l’evidenza che, nella realtà di fatto, alla questione non c’è una soluzione “ideale”: ma non tanto perché non la si sappia trovare, semplicemente perché, forse, non esiste proprio. Nella realtà di fatto, ribadisco, non in senso assoluto – che è una condizione però alla quale mi pare siamo già andati oltre da un bel pezzo. Al solito, in questo per molti versi incauto paese, tocca gestire problematiche generate da mancanze istituzionali croniche: in tal caso, le evidenti mancanze, piccole e grandi, nel processo di gestione del patrimonio faunistico selvatico. Tuttavia, al di là di questa triste ma inesorabile presa d’atto, Salsa osserva giustamente che sarebbe bene una volta per tutte mettere da parte qualsiasi «illusione» di sorta, come anche nel mio piccolo e insignificante ho provato a segnalare nell’articolo scritto sulla questione qualche giorno fa: l’orso fa l’orso, l’uomo fa l’uomo. La tragedia non era impossibile che accadesse ed è possibile che accada ancora. Affinché non succeda mai più, come qualcuno desidererebbe, o spariscono gli orsi o spariscono gli uomini, oppure si controlla la loro popolazione in maniera adeguata e con le dovute risorse, umane e finanziarie, contemplando la possibilità, che dovrà essere resa la più remota possibile ma che non si potrà mai debellare del tutto, del tragico incidente, così come accade, per logica naturale, in ogni paese che abbia territori popolati da animali selvatici potenzialmente pericolosi per l’uomo ovvero per qualsiasi altra causa in un contesto naturale non antropizzato. In Natura il rischio “zero” non esiste (altra illusione troppo spesso pretesa da certo marketing turistico, e meno male che quella è e non una certezza), e se lo si vuole ridurre allo zero-virgola si agisca in tal senso, con onestà mentale come osserva Salsa e possibilmente senza causare ulteriori danni. Se l’orso fa l’orso, l’uomo faccia l’uomo ovvero la creatura intelligente ma veramente tale, non solo a parole vuote di sostanza. Perché, forse, mi viene da pensare, stiamo facendo di un “non problema” un dilemma fondamentale peraltro senza nemmeno essere in grado di risolverlo: questo rischia di rendere la morte di Andrea Papi un fatto non solo tragico ma pure vano, e ciò sarebbe una ulteriore inaccettabile mancanza.
Ecco. Tutto il resto mi pare siano solo chiacchiere, legittime ma poco o nulla sensate. D’altro canto l’illusione facilmente genera miraggi e conseguenti isterismi, come si è visto qui e in molti altri casi. Sarebbe una bella manifestazione d’intelligenza anche evitarli, d’ora in poi.
Vi appunto quanto ho personalmente còlto, in modo schematico per farla breve, da tutto ciò che ho letto in questi giorni sulla vicenda dell’uccisione di Andrea Papi da parte dell’orsa Jj4, letture frequenti affrontate per capire il meglio possibile il caso non avendo competenze e titoli per formulare altrimenti una mia opinione:
In primis, il pensiero è per Andrea Papi e per il grande dolore dei suoi familiari. La speranza è che non sia morto invano.
L’orso fa l’orso, l’uomo fa l’uomo. È un’ovvia evidenza che però non sembra tutt’ora così evidente sotto ogni suo aspetto e ogni sua conseguenza.
La tragedia non era impossibile che accadesse ed è possibile che accada ancora. Affinché non succeda mai più, come qualcuno desidererebbe, o spariscono gli orsi o spariscono gli uomini.
Tutte le considerazioni ragionate e articolate che ho letto sono contrarie all’abbattimento dell’orsa, colpevole solo di aver fatto l’orsa (vedi punto 1) quantunque la cosa possa risultare inquietante a qualcuno.
Tutte le opinioni che propugnano l’abbattimento dell’orsa e di altri suoi simili che ho letto appaiono costantemente superficiali, poco argomentate, prive di raziocinio e guidate da un mero, seppur per certi versi comprensibile, sentimento di rivalsa.
In ogni caso l’abbattimento dell’animale non risolverà nulla.
Non sappiamo più essere parte dell’ecosistema al quale apparteniamo al pari degli orsi e di ogni altra creatura vivente. La nostra posizione dominante, invece di renderci saggi governanti del mondo e della Natura, inesorabilmente ci rende pericolosi guastatori dei suoi equilibri, nonostante di essi siamo parte integrante, ribadisco. I diritti dell’uomo dominante sulla Natura comprendono innanzi tutto il dovere di salvaguardare i diritti di tutte le altre creature.
Per non aver paura della Natura bisogna conoscerla e avere consapevolezza di ciò che si fa dove ci si trova. Educazione, cognizione, rispetto, attenzione. Ciò vale rispetto agli orsi, ai lupi, all’andare in montagna, nei boschi e sulle vette, in ogni luogo e in qualsiasi momento. Ed essere parimenti consapevoli che, nonostante tutte le precauzioni possibili e immaginabili, purtroppo qualcosa può comunque andare storto. Ma vale anche in città questa cosa, anzi, di più.
Non può essere la politica ad avere il controllo assoluto della convivenza ambientale e ecosistemica tra uomini e animali – e in generale tra umanità e Natura – e nemmeno il potere decisionale ultimo, ma soggetti scientifici competenti e adeguatamente strutturati ai quali la politica si possa affidare e il cui operato debba sostenere nel modo migliore possibile. Altrimenti le cose non potranno che peggiorare ancora di più.
Questo è quanto ho ricavato dalle mie numerose letture sulla vicenda. Ecco.
Che nessuno salti alla conclusione che il cittadino comune debba prendere un dottorato in ecologia prima di poter “vedere” il suo paese. Al contrario, lo specialista può diventare del tutto insensibile – proprio come un impresario di pompe funebri è insensibile ai misteri del suo ufficio. Come tutti i veri tesori della mente, la percezione può essere frazionata all’infinito senza perdere nessuna delle sue qualità. Le erbacce cresciute in città possono offrire la stessa lezione delle sequoie; il contadino può vedere nel suo pascolo di vacche ciò che forse non è concesso allo scienziato che si avventura fin nei mari del sud. La facoltà di percepire, in breve, non può essere acquisita con i titoli di studio o il denaro; cresce in patria come all’estero, e chi ne ha solo un po’ può usarla con lo stesso profitto di chi ne ha molta. E dal punto di vista della percezione, l’attuale corsa di massa verso la natura è futile, oltreché dannosa.
Al di là del potente valore culturale atemporale di queste parole di Aldo Leopold, quell’ultima osservazione sulla corsa di massa alla Natura – così spesso “auspicata” e sostenuta dal marketing turistico nonostante lo sparlare di “sostenibilità”, “eco”, “green”, eccetera: il lago di Braies nelle immagini lì sopra è un luogo tra i più emblematici al riguardo, come già scrissi qui – potrebbe far credere a qualcuno che questo brano sia stato scritto ai giorni nostri, magari proprio negli ultimi anni per come sembra coglierne ispirazione. Invece A Sand County Almanac venne pubblicato nel 1949 raccogliendo testi scritti da Leopold antecedentemente, il che rende sorprendente e parecchio emblematica l’attinenza delle sue osservazioni con la realtà corrente. O, forse, con una realtà che tutt’oggi pesca da un immaginario diffuso nei confronti dell’ambiente naturale già distorto da tempo e che, nel corso degli anni, ha sempre più perso la relazione con la Natura trascurando ampiamente le facoltà percettive del “cittadino comune”. Quelle facoltà che consentono di osservare e non solo di vedere il mondo, di elaborarne il paesaggio, di comprenderne o quanto meno di meditare la realtà sistemica, di intessere quella relazione fondamentale tra uomini e paesaggi che genera identità reciproca, valore culturale, cognizione intellettuale e fa da base all’altrettanto reciproca e armonica salvaguardia: dell’uomo nei confronti della Natura (che invece la “corsa di massa” di matrice più o meno turistica mette a rischio) e viceversa. Una facoltà, la percezione, che come sostiene Leopold non può essere acquisita perché tutti quanti ce l’abbiamo già – ce l’avremmo già, se solo ricordassimo dove l’abbiamo smarrita, negli angoli più reconditi e bui della nostra mente e dell’animo. E, infatti, tale dimenticanza la si vede poi tutta, in molti luoghi – naturali e non solo – del mondo abitato e modificato dagli umani.
P.S.: tornerò a breve a disquisire di overtourism montano, una questione che va affrontata al meglio e quanto prima per evitare che degeneri causando danni irreparabili alle nostre montagne (e non solo a quelle).