Il temporale, ieri sera

Ieri sera io e il segretario* Loki ce ne siamo usciti per la consueta passeggiata serale nonostante quasi ovunque attorno e noi e appena oltre le dorsale dei monti sopra casa provenisse il costante e cupo rombo di tuoni temporaleschi, vibrante in un cielo nero come la pece. Qualche gocciolone cadeva, ma almeno sopra le nostre teste pareva che il tappo tenesse, che il soffione della doccia meteorica stesse dirigendo il suo getto altrove e non su di noi.

Così, nonostante la minaccia latente d’una gran lavata ce ne siamo rimasti in giro, a godere di quel rombo possente che da mesi qui non si sentiva, per di più godendo pure del fenomenale lampeggiare che nel frattempo si era aggiunto ai fragori tonanti il quale, se da un lato ci ha fatto intuire l’avvicinamento del fronte temporalesco più esagitato, dall’altro disegnava in cielo intermittenti affreschi luminosi svelando la rissa tra nembi altrimenti celata dal buio profondo.

È stato bello goderci quello spettacolo sfolgorante, nel silenzio d’intorno dei boschi e del paese deserto per lo stesso motivo che teneva in giro noi. Bello anche perché stava preannunciando qualcosa di ancor più raro, di questi tempi dalle mie parti, e per ciò inopinatamente prezioso, cioè un’abbondante acquata. Altro fenomeno tutto da godersi, dunque – anche se al coperto, possibilmente, e sperando che non si palesasse un vero e proprio nubifragio (sì, ciò che oggi viene scioccamente definito “bomba d’acqua”), più violento d’un classico temporale e facilmente più dannoso.

Poi, quando lo spettacolo celeste si è fatto godere come se vi assistessimo dalla prima fila del nostro teatro montano e la pioggia s’è parimenti fatta più seria, ce ne siamo rapidamente tornati a casa, appena prima del climax temporalesco che per una buona mezz’ora ha provato, con un certo successo, a rinfrescarci la memoria sulla propria fenomenale essenza. Ma, appunto, è stato bello rivivere tutto questo dopo così tanto tempo, e in una situazione di spiccata e inquietante carenza idrica, qui dalle mie parti. Ne ben vengano altri, di questi possenti spettacoli di rimbombi e sfolgorii: se mai ci coglieranno in giro per i monti e ci imporranno una solenne lavata (e non una fulminata, possibilmente) amen, va bene così. Anzi: bello, bellissimo. Come la pioggia ripulisce e rilucida la natura, sarà meraviglioso farsi ripulire l’animo e lo spirito da quella stessa, intensa vitalità idrica e così allontanarsi dalla siccità che così spesso sembra attanagliare il nostro mondo. E non solo per mancanza di acqua, già.

*: il segretario personale a forma di cane, sì.

P.S.: di quanto sia bello quando piove ho scritto già altre volte, qui sul blog.

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La ricchezza che abbiamo tutti a disposizione

[Foto di Mika Baumeister su Unsplash.]

Quando stavo facendo delle ricerche per Un paradiso all’inferno (ed.it. Fandango, 2009), un libro sul modo in cui le persone rispondono ai disastri, a colpirmi non fu tanto il coraggio o la capacità di costruire nuove reti sociali e mezzi per sopravvivere, ma il fatto che in queste situazioni si trova qualcosa che si vorrebbe con tanta forza da riuscire a provare gioia anche se intorno ci sono morte, rovina e disordine.
Per rispondere alla crisi climatica, un disastro più grande di qualsiasi cosa la nostra specie abbia mai dovuto affrontare, dobbiamo riportare a galla quello che le persone provano nei disastri: un senso di rilevanza, di connessione e generosità, la coscienza di essere vivi di fronte alle incertezze. Un senso di gioia. È questo il genere di ricchezza di cui abbiamo bisogno. È l’opposto del danno morale: è la bellezza morale. Qualcosa che non abbiamo bisogno di acquisire, perché è già dentro di noi.

[Rebecca Solnit, La vera ricchezza è il nostro futuro, su “Internazionale” nr.1504, 24 marzo 2023, pag.46.]

Risponde indirettamente in questo modo Rebecca Solnit, intellettuale sempre illuminante e stimolante (che molti di voi probabilmente conosceranno per la sua fondamentale Storia del camminare) a una emblematica riflessione di un’altra figura di intellettuale fondamentale, Alex Langer, che quasi quarant’anni fa parlò di come sia difficile rendere la conversione ecologica socialmente desiderabile, nonostante pure i sassi ormai sappiano quanto sia indispensabile a fronte degli effetti del cambiamento climatico – e a prescindere da cosa lo abbia causato, questione innegabilmente importante ma rispetto la quale sarebbe bene andare finalmente oltre, producendo meno parole e più fatti concreti e maggiormente utili a costruirci un’efficace resilienza e un buon futuro. Con ciò andando oltre anche ai negazionisti, ormai sparuti ma sempre pericolosi anche solo come fenomenologia psicosociale, e agli apatici, figli di una società che impone di vivere alla giornata senza curarsi del domani, ma per i cui inevitabili problemi non fornisce alcuna soluzione e nemmeno via di fuga.

L’articolo di Rebecca Solnit è leggibile dagli abbonati a “Internazionale” qui.

La corsa di massa verso la Natura

[Immagine tratta da questo articolo de “Il Dolomiti”.]

Che nessuno salti alla conclusione che il cittadino comune debba prendere un dottorato in ecologia prima di poter “vedere” il suo paese. Al contrario, lo specialista può diventare del tutto insensibile – proprio come un impresario di pompe funebri è insensibile ai misteri del suo ufficio. Come tutti i veri tesori della mente, la percezione può essere frazionata all’infinito senza perdere nessuna delle sue qualità. Le erbacce cresciute in città possono offrire la stessa lezione delle sequoie; il contadino può vedere nel suo pascolo di vacche ciò che forse non è concesso allo scienziato che si avventura fin nei mari del sud. La facoltà di percepire, in breve, non può essere acquisita con i titoli di studio o il denaro; cresce in patria come all’estero, e chi ne ha solo un po’ può usarla con lo stesso profitto di chi ne ha molta. E dal punto di vista della percezione, l’attuale corsa di massa verso la natura è futile, oltreché dannosa.

(Aldo LeopoldPensare come una montagna. A Sand County Almanac, traduzione di Andrea Roveda, Piano B Edizioni, 2019, pagg.182-183.)

Al di là del potente valore culturale atemporale di queste parole di Aldo Leopold, quell’ultima osservazione sulla corsa di massa alla Natura – così spesso “auspicata” e sostenuta dal marketing turistico nonostante lo sparlare di “sostenibilità”, “eco”, “green”, eccetera: il lago di Braies nelle immagini lì sopra è un luogo tra i più emblematici al riguardo, come già scrissi qui – potrebbe far credere a qualcuno che questo brano sia stato scritto ai giorni nostri, magari proprio negli ultimi anni per come sembra coglierne ispirazione. Invece A Sand County Almanac venne pubblicato nel 1949 raccogliendo testi scritti da Leopold antecedentemente, il che rende sorprendente e parecchio emblematica l’attinenza delle sue osservazioni con la realtà corrente. O, forse, con una realtà che tutt’oggi pesca da un immaginario diffuso nei confronti dell’ambiente naturale già distorto da tempo e che, nel corso degli anni, ha sempre più perso la relazione con la Natura trascurando ampiamente le facoltà percettive del “cittadino comune”. Quelle facoltà che consentono di osservare e non solo di vedere il mondo, di elaborarne il paesaggio, di comprenderne o quanto meno di meditare la realtà sistemica, di intessere quella relazione fondamentale tra uomini e paesaggi che genera identità reciproca, valore culturale, cognizione intellettuale e fa da base all’altrettanto reciproca e armonica salvaguardia: dell’uomo nei confronti della Natura (che invece la “corsa di massa” di matrice più o meno turistica mette a rischio) e viceversa. Una facoltà, la percezione, che come sostiene Leopold non può essere acquisita perché tutti quanti ce l’abbiamo già – ce l’avremmo già, se solo ricordassimo dove l’abbiamo smarrita, negli angoli più reconditi e bui della nostra mente e dell’animo. E, infatti, tale dimenticanza la si vede poi tutta, in molti luoghi – naturali e non solo – del mondo abitato e modificato dagli umani.

P.S.: tornerò a breve a disquisire di overtourism montano, una questione che va affrontata al meglio e quanto prima per evitare che degeneri causando danni irreparabili alle nostre montagne (e non solo a quelle).

Piove, finalmente!

[Foto di Anna Atkins su Unsplash.]
Risentire il rumore e l’olezzo della pioggia finalmente battente, anche solo per qualche ora e dopo più di due mesi dalla precedente precipitazione degna di tal nome, ci fa sentire* come viandanti che dopo diverse settimane di viaggio inquieto nel più arido deserto giungono finalmente ad una preziosissima oasi, piccola, certo non sufficiente a dissetarci del tutto ma, quanto meno, capace di ridestare la speranza che non troppo lontane ve ne siano altre, di oasi, ben più ampie e abbeveranti, più capaci di rigenerarci per come ne abbiamo un bisogno tanto forte quanto ancora poco compreso.

Ma, per ora, godiamoci queste ore di pioggia: sono un dono raro, di questi bizzarri tempi.

(*: o forse no, mi sento solo io così, chissà.)

I ghiacciai, a Cremona

Eccovi un altro evento parecchio interessante in tema di montagne, ghiacciai e cambiamento climatico, la cui sede nel bel mezzo della pianura lombarda rende per certi versi ancora più affascinante. D’altro canto l’acqua che scorre (siccità permettendo!) nelle rogge tra i campi della pianura è sempre e comunque figlia, per gran parte, delle vette alpine lontane a settentrione, della neve e dei loro ghiacciai, che la lontananza e le foschie rendono di frequente invisibili ma che non per questo non sono parte fondamentale dello stesso ecosistema idrico padano. Il quale dalle Alpi fornisce acqua e vita all’intero bacino settentrionale del Po e che dunque è bene conoscere, senza dubbio, ancor più se in modi suggestivi e intriganti come quello proposto dalla mostra di Cremona.

Per saperne di più, cliccate qui oppure visitate il sito web del Servizio Glaciologico Lombardo, qui. Per ingrandire l’immagine della locandina, cliccateci sopra.