Sappiamo tutti del cambiamento climatico. Ma lo capiamo veramente?

[Foto di Chris Gallagher su Unsplash.]
Avendo la fortuna e il privilegio di poter chiacchierare spesso con amici e conoscenti climatologi, glaciologi, biologi, naturalisti ma pure con sociologi e antropologi, nel discutere di percezione del cambiamento climatico nell’opinione pubblica c’è un aspetto che appare drammatico anche più degli altri. Non è la presa d’atto che realmente il clima sta cambiando, ormai dubitata e negata solo da qualche mentecatto e dai pochi che mentono sapendo di mentire e facendolo per mera ideologia – e d’altro canto ciò che sta accadendo al clima è palesemente sotto gli occhi di tutti. Semmai il vero dramma è che la grandissima parte di noi opinione pubblica e società civile, pur sapendo del cambiamento climatico, non si sta rendendo conto delle conseguenze che comporterà a chiunque. Conseguenze importanti e sovente gravi le cui cause sono in corso da tempo così che quelle che constatiamo oggi – fenomeni meteo estremi, cicli biologici alterati, situazioni di carenza idrica, eccetera – sono solo l’inizio di una catena di eventi che contraddistinguerà sempre di più gli anni futuri, coinvolgendoci in modo crescente e collettivo con effetti formalmente ipotizzabili ma in sostanza largamente imprevedibili.

Al momento, nonostante siamo in un periodo dell’anno nel quale dovremmo rabbrividire dal freddo e invece ci basta avere indosso una felpa e le stazioni sciistiche appaiono coi prati accanto alle piste come fosse primavera inoltrata, la grandissima parte di noi continua a rimuovere dalla propria mente i pensieri e la considerazione del problema, trascurandolo, ignorandolo o minimizzandolo nella convinzione che il peggio accadrà sempre a qualcun altro e che comunque, in un modo o nell’altro, ce la caveremo come ce la siamo sempre cavata fino a oggi. Tanto, cosa volete che sia una differenza di mezzo grado in più o in meno! Poca roba, vero?

No, falso:

E se l’aumento delle temperature globali andasse oltre il mezzo grado preso ad esempio nella tabella soprastante (tratta da questo articolo di “Swissinfo.ch”), come peraltro tutti i report scientifici danno per praticamente certo da qui a pochi anni?

Cioè, per dirla in altro e più comprensibile modo: e se invece stavolta non ce la cavassimo? Se, come detto, il peggio dovesse ancora accadere e per questo non riuscissimo a renderci conto di quanto ci potrebbe aspettare e non tra un secolo ma già nei prossimi anni?

[Il Po in secca, la scorsa estate 2022. Immagine tratta da qui.]
Durante una delle chiacchierate suddette un amico ha chiesto a un entomologo e ricercatore universitario con il quale si parlava degli effetti del riscaldamento globale sugli ecosistemi agrari, in base alla sua esperienza accademica e professionale quanto l’umanità (passatemi la scurrilità, ma è per rendere letteralmente il dialogo) sia «nella merda», da uno a dieci. L’entomologo, sorridendo amaramente e senza esitare, ha risposto: «dieci». Ed è la stessa risposta ricevuta per domande analoghe da molti altri scienziati di varia specializzazione.

Tutto ciò è “catastrofismo”? Be’, è il termine più in voga tra quelli che capiscono meno, o non vogliono capire, la questione.

Ecoansia? È un atteggiamento opposto al primo nella forma ma pressoché identico nella sostanza delle conseguenze.

In verità, siamo tutti quanti – catastrofisti e ecoansiosi tanto quanto assennati e raziocinanti – a bordo di una nave il cui scafo presenta numerose falle e imbarca acqua ma che si può ancora rassettare e rimettere in linea di galleggiamento. Quelli che negano che la nave abbia problemi e quegli altri che si mettono a urlare disperati sono parimenti dannosi e inutili all’obiettivo prefissato, cioè aggiustare tutti insieme la nave affinché si possa continuare la navigazione comune nel mare dello spazio e del tempo. Ma è necessario sforzarsi riguardo la necessaria comprensione di quanto sta accadendo e delle sue conseguenze certe, potenziali e possibili: è la consapevolezza fondamentale non solo per resistere alla realtà in divenire e elaborare la più consona resilienza – oltre che per mettere al bando negazionisti, catastrofisti, ecoansiosi et similia – ma ancor più, come ripeto, per rimettere a posto le cose nel loro giusto equilibrio, su questo nostro piccolo e insostituibile pianeta. Viceversa sì, la nostra nave è e sarà inesorabilmente spacciata: siamo veramente così ottusi da dover finire in ammollo, per giunta senza nemmeno una scialuppa di salvataggio, per capire finalmente ma ormai inutilmente che i buchi nello scafo c’erano eccome e andavano riparati a tempo debito, prima che il danno fosse irreversibile?

Oppure, possiamo continuare ad andare avanti speranzosi che «ce la caveremo anche questa volta», appunto. O, per usare uno slogan coniato per un’altra recente emergenza planetaria, «Andrà tutto bene!» (in Italia 196.348 morti, dato aggiornato al 01 marzo 2024). Tanto la speranza è sempre l’ultima a morire, come recita il noto adagio popolare. L’ultima, già.

Le montagne italiane si spopolano sempre più: ma in concreto si fa qualcosa affinché ciò non avvenga?

(Articolo originale pubblicato su “L’AltraMontagna“: lo trovate cliccando sull’immagine qui sotto.)

L’analista economico Lorenzo Ruffino sulla sua pagina X (ex Twitter) ha pubblicato una mappa che rende evidente il saldo naturale della popolazione italiana nel 2022 (ultimo anno con i dati completi disponibili su base ISTAT). Come scrive Ruffino, «Il saldo naturale è di -322 mila persone. Tutte le province hanno avuto un salto naturale negativo. Bolzano è l’unica vicino all’equilibrio.»

Ora, provate a confrontare la mappa di Ruffino nelle sue colorazioni più scure, quelle che indicano il saldo di natalità peggiore, con una carta fisica dell’Italia: noterete che le zone con il saldo naturale più negativo combaciano ampiamente con quelle montane e rurali.

Ecco: da ormai molti anni sentiamo dire che gli interventi finanziari istituzionali a favore dei territori montani sono elargiti con lo scopo principale di frenare lo spopolamento delle montagne. Tuttavia, se si va a verificare come quei fondi pubblici vengono spesi, si evince che solo una piccola parte va a favore delle comunità residenti, dei loro bisogni primari, dei servizi di base, delle necessità funzionali al sostegno della quotidianità, mentre la fetta maggiore viene spesa nel comparto turistico, ritenuto (per non dire imposto come) l’unica economia che possa sostenere i territori montani. Cosa che la realtà dei fatti indica come falsa, evidentemente.

Per approfondire il tema, anche attraverso altre evidenze al riguardo, potete leggere l’articolo completo su “L’AltraMontagna” cliccando qui.

Se a una diga succedesse ciò che non dovrebbe succedere

[La diga dell’Albigna sovrasta l’alta Val Bregaglia, in Svizzera. Immagine tratta dall’appendice fotografica de Il miracolo delle dighe, autore Schölla Schwarz, CC BY 3.0, fonte originale qui.] 

L’eventualità di rottura di una diga è piuttosto remota, ma non può essere del tutto esclusa. È anche per questo che annualmente vengono portati avanti i test delle sirene. In caso di anomalie a un impianto d’accumulazione, la popolazione viene esortata in primis tramite l’allarme generale ad accendere la radio e a seguire le istruzioni di comportamento diramate dalle autorità.
Quando viene emesso l’allarme acqua (dodici suoni continui e gravi in sequenze di 20 secondi ad intervalli di 10 secondi), invece, non vi è più tempo per informarsi; a questo punto alla popolazione non rimane altro da fare che abbandonare al più presto la zona di pericolo. In linea di principio, il sistema di sorveglianza e d’allarme degli impianti d’accumulazione consente di avvisare la popolazione con sufficiente preavviso, ma in caso di rottura completa e improvvisa il tempo di preallarme è molto breve.

Nel mio libro Il miracolo delle dighe. Breve storia di una emblematica relazione tra uomini e montagne racconto, tra molte altre cose, del fascino che buona parte delle persone subisce nei confronti delle dighe, soprattutto quanto durante un’escursione in montagna se ne ritrova davanti una, cercando di spiegarne le motivazioni rapportandole all’immaginario comune riguardo il paesaggio montano  e, appunto, alla nostra relazione con esso. È una fascinazione ambivalente, in effetti: da un lato dettata dalla grandiosità della diga nella grandiosità dell’ambiente naturale entro il quale è inserita, dall’altro dall’impressione un po’ inquieta che il ciclopico muro incute in molti, alla quale si può assommare il timore che il pensiero d’un suo cedimento potrebbe generare, memori noi tutti di alcune grandi tragedie cagionate dalle dighe, Vajont in testa (la cui diga tuttavia non cedette – ma racconto tutto meglio nel libro).

Fatto sta che la possibilità del cedimento di una grande diga, quantunque remota e oltre modo calcolata e prevista dai modelli progettuali e di sicurezza degli impianti, non si può escludere. Come ci si può cautelare, dunque?

[Veduta da nord della Val Bregaglia con nel fondovalle il villaggio di Vicosoprano e, indicata dalla freccia gialla, la diga dell’Albigna, della quale se ne vede una parte. Foto di Staublex, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]
L’argomento, sull’onda dei fatti bellici relativi alla distruzione della diga di Nova Kakhovka in Ucraina ad opera dell’esercito russo, è stato trattato di recente da un articolo del canale d’informazione svizzero “Tio.ch” chiedendo il parere di un esperto del settore e richiamando alcuni interessanti documenti della Confederazione Elvetica al riguardo; da tale articolo ho tratto la citazione che avete letto in principio di questo post la cui fonte originaria è l’UFPP – Ufficio Federale della Protezione della Popolazione. Leggendolo mi sono tornati in mente certi ricordi di me bambino per ciò che osservavo a valle della grande diga di Albigna, in Val Bregaglia (Canton Grigioni, Svizzera), quando a bordo dell’auto di mamma e papà si risaliva la strada che da Chiavenna attraverso il Passo del Maloja porta alle piste da sci engadinesi. Quella di Albigna è una delle dighe alpine più impressionanti da ammirare, essendo piazzata sul ciglio di un versante scosceso mille metri sopra il fondovalle, e dai finestrini dell’auto la osservavo ammirato tanto quanto intimorito per tutto il tragitto stradale che ne consente la visione, all’andata e al ritorno, confidando che se ne restasse lì ben ferma e salda e non scivolasse a valle spinta dalla massa d’acqua del grande lago (ben 70 milioni di m3) trattenuto lassù. Tuttavia, prima di arrivare in vista della diga, a nutrire la mia curiosità era la visione, sui tetti dei villaggi posti lungo lo strada della Bregaglia a valle dello sbarramento, di alcuni grandi altoparlanti posti in modo da dominare le case: proprio quelli delle sirene di allarme citate nell’articolo. Peraltro già allora, pur nella mia ingenuità bambinesca, mi chiedevo quanto tempo effettivo, al suono dell’allarme, gli abitanti di quei villaggi potessero avere prima che l’onda d’acqua fuoriuscita dalla diga che avesse tragicamente ceduto spazzasse via ogni cosa. Calcolata sulla mappa, la distanza tra la diga e Vicosoprano, il primo centro abitato di una certa importanza (445 abitanti) a valle è di circa 5 km, il che equivale a un tempo di 3 o 4 minuti, più o meno, prima dell’arrivo dell’onda: in effetti pochissimi per mettersi in salvo fuggendo dal fondovalle per risalirne il più possibile i fianchi al fine di togliersi dal volume d’acqua. L’affermazione che «Il tempo di preallarme è molto breve» citata dall’UFPP svizzero suona parecchio eufemistica.

Ovviamente, l’augurio è che una tale spaventosa evenienza non debba mai (più) essere vissuta e che simili grandi catastrofi – Gleno, Molare, Vajont e Stava, per l’Italia – restino confinate nelle pur tristi cronache storiche a far da ineludibile bagaglio d’esperienza. Anche per ciò la Svizzera è particolarmente diligente nei test d’allarme collettivi per la popolazione: a fronte dei controlli estremamente accurati che ogni grande diga subisce continuamente al fine di prevenire con largo anticipo qualsiasi possibile problematica, l’evento estremo non si può escludere totalmente. Eppure, ribadisco, è anch’esso parte integrante – sorprendente, quasi paradossale – del grande fascino che le dighe suscitano nelle persone che se le ritrovano di fronte. E che, in cuor loro, ne vengono affascinate anche perché a quei grandi, possenti, apparentemente solidi muraglioni affidano più o meno consapevolmente tutta la loro fiducia che tali restino, lì dove sono, fino a che al di là dell’enorme muro vi sarà un altrettanto grande lago, dunque che la loro forza statica sappia sempre ben contrapporsi alla spinta dinamica dell’acqua.

Ma, come detto, ne Il miracolo delle dighe vi racconto in modo ben più articolato e suggestivo questo fascino, cosa comporta per la nostra presenza sulle montagne e come ha influito, e influisce, sulla relazione che ne consegue. Una relazione assolutamente emblematica, appunto, anche per quanto vi ho raccontato in questo articolo.

Per saperne di più, sul libro, cliccate sull’immagine della copertina lì sopra.

Politica e “montanità”, in Italia

[Una veduta del nucleo di Codera, nell’omonima valle laterale della Valchiavenna, in provincia di Sondrio. Immagine tratta da www.valcodera.com.]
Per capire quanto sia riprovevole e al contempo deleterio il disinteresse sostanziale che da decenni la politica italiana riserva verso i territori di montagna – perché, è bene rimarcarlo anche se non dovrebbe più servire, le infrastrutturazioni dedicate al turismo di massa e agli ambiti correlati, cioè gli interventi di maggior portata realizzati in quelle aree e puntualmente definiti pratiche di “sviluppo dei territori montani”, spesso alimentati con finanziamenti pubblici a pioggia privi di qualsiasi visione progettuale, non rappresentano una forma di interesse e di cura verso la montagna ma una pratica di mero sfruttamento e messa a valore, più o meno lecita ma tant’è – dicevo, per capire quel disinteresse politico, forse più di dati numerici, statistiche e infografiche può bastare una semplice mappa dell’Italia sulla quale sia evidenziata la “montanità” del territorio nazionale e, per diretto raffronto cromatico, anche le aree non montane:

È la gran parte del suolo italico, in pratica. Ignorarla politicamente, come a mio modo di vedere (e non sono solingo a pensare ciò), è un po’ come ammirare un capolavoro artistico, ad esempio La Primavera del Botticelli, considerando solo il volto di Venere e non tutto il resto dell’opera, così lasciando questa restante parte di essa, la più ampia, senza cura dunque esposta al degrado.

E se è pur vero che buona parte della ricchezza del paese si concentra nella parte bianca della mappa suddetta, ciò non giustifica che nell’altra parte predominante si lasci diffondere l’indigenza – in senso economico ma pure sociale e culturale. Il valore artistico de La Primavera botticelliana è dato dall’opera nella sua interezza e integralmente ben curata, non da un solo suo frammento pur importante.

A fronte di tale cospicua montanità italiana, le rare iniziative attuate a suo favore – spesso con fondi europei, nemmeno nazionali, quindi non ascrivibili al buon agire statale se non per la parte burocratica – appaiono veramente poca cosa ovvero, osservando la situazione dall’altra parte, un chiaro atto di accusa alla classe politica del paese. Che può continuare a evitare di risponderne ma che non potrà mai evitare di esserne ritenuta responsabile, in primis di quel divario generale tra montagna e città che tanto spesso di dice di voler colmare quanto raramente si opera per farlo concretamente.

Posto ciò, non posso che augurami che le comunità di montagna sappiano riconquistare la lucidità culturale e la dignità politica, ovvero la più consapevole e compiuta relazione con i territori montani che abitano, per non farla passare liscia a certa politica così inadempiente e menefreghista, riportandola sui propri doveri e le relative responsabilità. Perché un’altra cosa evidente che “racconta” la mappa lì sopra pubblicata in senso geopolitico, è che se la montagna italiana è ben gestita e curata lo è l’intero paese. Non comprendere una cosa tanto chiara è solo un diabolico perseverare, ecco.