«E il Ghiacciaio della Marmolada, te lo ricordi?»

A proposito di ghiacciai che spariscono*, come quello dell’Adamello del quale ho scritto di recente qui, ho trovato le immagini di un altro “caso” assolutamente significativo al riguardo relative a un ghiacciaio divenuto tristemente celebre, la scorsa estate.

In quella sopra pubblicata, risalente agli anni a cavallo tra fine Ottocento e primi del Novecento, potete vedere la grotta-bivacco scavata sotto Punta Penia, la cima più alta della Marmolada, considerato il rifugio più antico delle Dolomiti e uno dei primi in assoluto delle Alpi. Il tizio in posa all’ingresso è Alfred von Radio-Radiis, alpinista e industriale austriaco, pioniere dell’industria automobilistica, discendente da un’antica famiglia nobile goriziana e all’epoca celebre frequentatore delle Dolomiti. Il bivacco venne realizzato tra il 1874 e il 1876 e vi si accedeva direttamente dal ghiacciaio, come si nota nell’immagine e come fu possibile fare fino agli anni Venti del secolo scorso.

[Cliccate sull’immagine per leggere un articolo che racconta la storia della grotta-bivacco.]
Oggi ovvero un secolo dopo la grotta-bivacco è posta oltre ottanta metri sopra il livello attuale del ghiacciaio della Marmolada (o di quel che ne resta), e vi si può accedere soltanto disarrampicando con manovre di corda dall’alto. Fosse pure ancora utilizzabile come alloggio di emergenza, risulterebbe pressoché inaccessibile.

Più di ottanta metri di spessore di ghiaccio, ovviamente esteso per la larghezza e la lunghezza di qualche chilometro e lì presente da chissà quanti secoli, svaniti in soli cento anni e con maggior rapidità negli ultimi tre decenni. Era come un grande serbatoio di acqua potabile, solidificato in loco da condizioni climatiche ora ugualmente svanite, una preziosa riserva idrica che non abbiamo più a disposizione e che nelle condizioni attuali non si potrà più ricostituire.

Ecco. Ognuno tragga pure le considerazioni e le conclusioni che preferisce.

N.B.: cliccando sull’immagine qui sopra, sulla quale ho evidenziato con la freccia la posizione della grotta-bivacco ad agosto 2020 – e si noti quanto è in alto rispetto al ghiacciaio attuale, la cui superficie nel frattempo si sarà ancora più abbassata – potrete vedere un video de “Il Corriere delle Alpi” che racconta la sua storia passata e presente.

*: «Ma come? Parli di ghiacciai che si sciolgono pure ora che siamo in pieno inverno?»
Secondo Arpa Lombardia, sabato prossimo, ultimo giorno dell’anno 2022, «lo zero termico sarà attorno a 3000 metri, in ulteriore risalita nella giornata. Attorno a 3600 metri in serata». Significa che ci sono le condizioni affinché pure in pieno inverno i ghiacciai si possano sciogliere e dunque sì, ne parlo anche ora.

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La crisi climatica, noi e i colibrì

[Foto di Anja da Pixabay.]

Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all’avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà.
Leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume, ma ormai l’incendio stava per arrivare anche lì.
Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d’acqua, incurante del gran caldo, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure e proseguì la sua corsa sospinto dal vento.
Il colibrì, però, non si perse d’animo e continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d’acqua che lasciava cadere sulle fiamme.
La cosa non passò inosservata e ad un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: “Cosa stai facendo?”. L’uccellino gli rispose: “Cerco di spegnere l’incendio!”. Il leone si mise a ridere: “Tu così piccolo pretendi di fermare le fiamme?” e assieme a tutti gli altri animali incominciò a prenderlo in giro. Ma l’uccellino, incurante delle risate e delle critiche, si gettò nuovamente nel fiume per raccogliere un’altra goccia d’acqua.
A quella vista un elefantino, che fino a quel momento era rimasto al riparo tra le zampe della madre, immerse la sua proboscide nel fiume e, dopo aver aspirato quanta più acqua possibile, la spruzzò su un cespuglio che stava ormai per essere divorato dal fuoco. Anche un giovane pellicano, lasciati i suoi genitori al centro del fiume, si riempì il grande becco d’acqua e, preso il volo, la lasciò cadere come una cascata su di un albero minacciato dalle fiamme.
Contagiati da quegli esempi, tutti i cuccioli d’animale si prodigarono insieme per spegnere l’incendio che ormai aveva raggiunto le rive del fiume. Dimenticando vecchi rancori e divisioni millenarie, il cucciolo del leone e dell’antilope, quello della scimmia e del leopardo, quello dell’aquila dal collo bianco e della lepre lottarono fianco a fianco per fermare la corsa del fuoco.
A quella vista gli adulti smisero di deriderli e, pieni di vergogna, incominciarono a dar manforte ai loro figli. Con l’arrivo di forze fresche, bene organizzate dal re leone, quando le ombre della sera calarono sulla savana, l’incendio poteva dirsi ormai domato. Sporchi e stanchi, ma salvi, tutti gli animali si radunarono per festeggiare insieme la vittoria sul fuoco.
Il leone chiamò il piccolo colibrì e gli disse: “Oggi abbiamo imparato che la cosa più importante non è essere grandi e forti ma pieni di coraggio e di generosità. Oggi tu ci hai insegnato che anche una goccia d’acqua può essere importante e che «insieme si può» spegnere un grande incendio. D’ora in poi tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte per fame solo un brutto ricordo”.

Questa antica favola africana appare quanto mai emblematica per il nostro mondo contemporaneo, alle prese con una crisi climatica – ovvero con il più pericoloso incendio che possa minacciare la “foresta” nella quale tutti noi viviamo – ancora sostanzialmente sottovalutata dai più e per la cui risoluzione, o per elaborare un’adeguata resilienza, non pare che i potenti del pianeta ci vogliano mettere troppo impegno, affidando il dibattito sulla questione a conferenze come le varie COP dalle quali, a fronte delle tantissime e spesso nobili parole spese, scaturiscono fatti risibili che sembrano elaborati apposta per giustificare la quasi generale immobilità dei decisori planetari, se non i passi indietro dissennatamente compiuti.

D’altro canto, al di là delle azioni (o delle inazioni) di quei poteri sui quali comunque c’è molto poco da fare affidamento, non è da loro che può venire il vero cambiamento, la più consona resilienza, la possibile soluzione ad una crisi che si fa ogni giorno più deleteria, ma da ciascuno di noi. Dobbiamo farci tutti quanti colibrì, portare per quanto più ci è possibile le nostre gocce di acqua da riversare sulle fiamme che ci stanno avvolgendo, essere consapevoli che il mondo brucia per tutti, non solo per alcuni, e dunque ogni suo abitante ha la precisa responsabilità di fare la propria parte per spegnere il fuoco e per fare che la propria salvezza diventi parte fondamentale con ogni altra della salvezza del mondo e non un ennesimo gesto egoistico e comunque destinati al fallimento, innanzi tutto per chi lo compie.

Come dice il leone al colibrì, nello stare al mondo non importa ciò che si è ma ciò che si fa, anche rispetto alla più minima azione che sarà comunque preziosa e necessaria se è mirata a fare qualcosa di buono. E oggi, francamente, una delle cose più buone che possiamo fare è salvare e preservare la casa nella quale tutti viviamo. Banalissimo da affermare, vero? Quasi patetico, ma se non facciamo tutti quanti insieme qualcosa, non vi sarà nulla di più patetico dell’ingloriosa fine dei grandi e forti Sapiens – noi così privi di coraggio e di generosità, già.

«Te lo ricordi, il Ghiacciaio dell’Adamello?»

[Veduta parziale del Ghiacciaio dell’Adamello dal Corno di Cavento: a sinistra nel 1917, a destra nel 2017. Foto tratta da meteobook.it.]
Il progetto ClimADA, realizzato grazie ad una ampia collaborazione tra enti scientifici e istituzionali coordinati da Fondazione Lombardia per l’Ambiente, si pone il rilevante obiettivo di ricostruire l’evoluzione climatica degli ultimi secoli, l’impatto antropico nell’area di alta montagna alpina, e anche la dinamica delle specie vegetali, dei grandi incendi avvenuti negli ultimi secoli e in generale degli impatti antropici in tutte le aree montane. Da questa attività il progetto ricava studi e ricerche e offre competenze scientifiche per aiutare le amministrazioni locali, le istituzioni pubbliche e private a prendere decisioni sul territorio.

Nell’ultimo biennio ClimADA ha focalizzato la propria attenzione scientifica sul Ghiacciaio dell’Adamello, il più vasto e profondo apparato glaciale delle Alpi italiane: tra le varie attività messe in atto, i ricercatori del progetto hanno analizzato e prospettato la futura evoluzione del ghiacciaio dell’Adamello fino quasi a fine secolo secondo le previsioni attuali, rappresentando efficacemente il tutto in questo video:

Converrete che è un video spaventoso. In pratica, nei prossimi decenni quello che è ad oggi il più grande ghiacciaio italiano scomparirà totalmente. Degli 870 milioni di metri cubi di ghiaccio rilevati a fine millennio, già nel 2019 se n’erano fusi quasi la metà e nel corso del 2022, già unanimemente definito “disastroso” per i ghiacciai alpini, la fusione è risultata doppia rispetto alla media degli ultimi 15 anni.

Si noti bene: non sta scomparendo solo un ghiacciaio tra i più importanti delle Alpi ma sta svanendo una delle maggiori riserve di acqua potabile a nostra disposizione che tra qualche decennio non avremo più, sta cambiando il paesaggio di un’ampia regione alpina, sta cambiando di conseguenza la nostra relazione con il territorio in questione e si sta modificando la percezione culturale che avremo di questi spazi d’alta quota. Quello che per generazioni a scuola è stato studiato come «il più grande ghiacciaio delle Alpi italiane» non esisterà più, sparirà anche come nozione, come conoscenza, come referenza identitaria. Giusto o sbagliato (formalmente) che possa essere, accadrà ineluttabilmente, a meno che si metta in atto un cambiamento così radicale da poter modificare tale nefasta sorte. Qualcuno dice che siamo ancora in tempo, qualcun altro ritiene invece di no: ma nell’uno o nell’altro caso, siamo pronti ad agire oppure a subire di conseguenza? O continuiamo a fare come se nulla sia?

Tre anni di acqua potabile persi per sempre

Quando si disquisisce della situazione climatica corrente, a supporto delle considerazioni sul tema sovente si snocciolano dati e relativi grafici tanto inequivocabili quanto, a volte, di primo acchito complicati per chi non ne sia abituato, dunque a volte respingenti. Le immagini fotografiche – magari se riprodotte in timelapse come quello (spaventoso, dal mio punto di vista) qui sopra riprodotto – sono molto più immediate e comprensibili ma pure qui, se non si conosce almeno un poco l’ambiente montano, che un ghiacciaio avesse uno spessore di 200 metri e oggi solo di 100, oppure che un tempo fosse lungo 2 km e oggi solo uno, per molti non significa molto anche visivamente: il paesaggio in questione non sembra così cambiato, se non si ha l’occhio di coglierne le differenze.

Il tutto rimanda alla questione di come trasmettere i dati scientifici riguardanti i cambiamenti climatici per farne strumento di informazione e, ancor più, di generazione di un’adeguata consapevolezza diffusa che supporti le necessarie azioni atte a mitigare gli effetti del riscaldamento globale e strutturare la migliore resilienza possibile. È una questione delicata, inutile dirlo, sulla quale il dibattito è aperto e ampio.

Una sorta di soluzione indiretta al riguardo la propone Matthias Huss, glaciologo del Politecnico di Zurigo, illustrando nel servizio della RSI che potete vedere cliccando sul frame qui sopra lo stato dei ghiacciai svizzeri in questo 2022 climaticamente drammatico.
In pratica, Huss rivela che i ghiacciai elvetici quest’anno hanno perso il 6% della loro massa, un valore mai registrato prima. Il sei per cento: ok, e che significa?

Il 6% di perdita di massa, significa che nel 2022 i ghiacciai svizzeri hanno perso ben tre km3 di ghiaccio, ovvero tre cubi di ghiaccio dai lati – lunghezza, larghezza, altezza – di un km. Tanta roba, è facile comprenderlo… ma più concretamente, che vuol dire?

Vuol dire che tre cubi da un km3 ciascuno contengono l’acqua potabile che la popolazione svizzera (quasi 8,7 milioni di abitanti nel 2020) consuma in tre anni. Per dirla in altro modo: con lo scioglimento dei ghiacciai registrato quest’anno, la Svizzera ha perso per sempre 3 anni di acqua da bere.

Ora, credo, sarà ben più comprensibile e concreta la gravità della situazione dei ghiacciai in forza dei cambiamenti climatici in corso. E, appunto, sto dicendo dei soli ghiacciai svizzeri: la situazione è la stessa negli altri paesi alpini se non più grave, ad esempio in Italia in forza della sua esposizione a meridione cioè sul versante alpino più caldo.

Quanta acqua potabile hanno perso nel complesso i paesi alpini, in un anno come questo? Quanta ne hanno già persa negli anni scorsi, e quanta ne perderanno ancora nei prossimi? Ovvero, per arrivare al punto: quanto siamo sottoposti al rischio di non avere più riserve di acqua potabile da bere e da utilizzare per la nostra vita e il lavoro quotidiani entro breve tempo?

Ecco.

Non è catastrofismo, questo, ma semplice e obiettiva lettura della realtà. Cosa possiamo farci? Nulla per l’acqua ormai persa; tanto, forse, per quella che ancora i nostri ghiacciai conservano sulle Alpi. Ma bisogna fare subito: attivisti e scienziati lo dicono da lustri, ormai, e più passa il tempo più quel “subito” diventa immediatamente. O forse che, per capire quanto sia necessario agire senza altro indugio, dovremo arrivare a non avere più abbastanza acqua da bere? Come la glaciologia dimostra, questa drammatica ipotesi non è più così lontana: a questo punto sì, il presunto “catastrofismo” non sarà più tale ma diventerà la normalità quotidiana. Vogliamo che finisca veramente così?

I ghiacciai che verranno giù

[Foto © CNSAS.]

Il Paul prende la pala che gli passa il Georg, la notte scorsa si è staccata la lingua del ghiacciaio, dice, hanno sentito il boato anche in fondo alla valle, la Claire mi ha fin svegliato per dirmi che ci stava arrivando addosso e mi ha abbracciato tutto come se ci restasse solo quella notte lì, di un bello che non ti dico, e sorride tra sé, tra qualche anno se guardiamo su il nostro bel ghiacciaio non lo vediamo più, se ne sarà andato per sempre, altro che eterno, l’unica riserva che ci resta sono le storie, al massimo puoi raccontare com’era.

(Arno Camenisch, Ultima neve, Keller Editore, 2019, traduzione di Roberta Gado, pag.68.)

Mi è capitato di nuovo sotto gli occhi questo brano di Arno Camenisch (il libro da cui è tratto lo vedete qui accanto) il quale m’ha fatto riflettere sul fatto che, forse, la terribile estate 2022, iniziata a fine aprile con la sua siccità estrema e il caldo infernale, è finalmente terminata, lasciandosi dietro una scia di disastri di varia entità nonché, purtroppo, alcune terribili tragedie climatiche come quella della Marmolada, caso estremo di una stagione che per i ghiacciai si è rivelata la più drammatica da almeno due secoli a questa parte, ovvero da quando sono iniziate le misurazioni glaciologiche. Quasi che lo scrittore svizzero in quel passaggio si fosse immaginato, o avesse facilmente previsto, gli accadimenti alpestri dell’anno in corso così attinenti alle sue parole più di quanto accaduto negli anni scorsi, che già hanno registrato diffusi sfaceli montani più o meno cospicui e angosciosi.

In effetti abbiamo temuto, per tutta questa lunga estate e in forza della situazione climatica, altri crolli di porzioni di masse glaciali un po’ ovunque sulle Alpi e altri drammi conseguenti come quelli della Marmolada; d’altro canto di frane in quota dovute in gran parte allo scioglimento del ghiaccio interstiziale (il permafrost) se ne sono registrate moltissime, fortunatamente senza troppi danni a cose e persone. Nell’estate appena terminata “scopriamo” – o, per meglio dire, constatiamo inesorabilmente – una montagna ancora più fragile di quanto si potesse temere, ancora più in balia delle conseguenze dei cambiamenti climatici, percependola fatalmente più “pericolosa” e ciò suo malgrado, in fondo, prima che nostro malgrado – anche se per forma mentis diffusa ci viene semplice definirla “colpevole” di ciò che di funesto accade, come dimostrano di frequente i titoli dei giornali che in quelle circostanze utilizzano formulazioni assai cretine come «montagna assassina» o altre affini. Una montagna che, per tutto questo, si mostra ancora più bisognosa della nostra cura e della più approfondita consapevolezza diffusa riguardo le peculiarità del suo ambiente, soprattutto (anche se trattasi di avverbio fin troppo utopista, temo) ove sia una montagna sottoposta alle dinamiche del turismo di massa. Questa consapevolezza deve anche considerare l’evidenza che le montagne, così come ogni lembo della superficie della Terra, sono soggette a cambiamenti geomorfologici nel corso del tempo per le più varie ragioni: è un aspetto della Natura la cui portata si fa storia che poi sono gli esseri viventi a dover comprendere, capire, ricordare, strutturare in memoria, preziosa esperienza, conveniente resilienza.

Fortunatamente, nell’estate da poco conclusa, di altri ghiacciai non ne sono più crollati, almeno con conseguenze tragiche (sorprendentemente, viste le condizioni05), ma la realtà climatica che già viviamo e che ci aspetta negli anni futuri faranno di tali casi una possibilità viepiù frequente. Il pericolo maggiore al riguardo non è quello “ineluttabile” dato dalla condizione delle montagne dettata (anche e in misura sempre maggiore) dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, ma dalla nostra potenziale incapacità di comprenderne l’entità attuale e futura e la necessità di agire collettivamente per mitigarne gli effetti, da un lato, e di riequilibrare la nostra relazione con i territori montani dall’altro. D’altronde siamo noi esseri umani, che peraltro abbiamo le nostre belle colpe per l’acuirsi attuale di certi rischi ambientali sui monti, a definire e configurare la stessa nozione di “pericolo” – noi che saliamo alle alte quote in bermuda e infradito e poi inorridiamo quando lassù qualcuno ci lascia le penne ovvero che passiamo in un attimo dal considerare le montagne un confortevole paradiso a temerle come un incubo infernale… Ma le montagne con le loro pareti, le pietraie, le guglie, i ghiacciai, comunque crolleranno prima o poi, che accada domani o tra un milione di anni, per cause naturali oppure artificiali e che se ne percepisca il pericolo o meno. Coniugare e contestualizzare quella nozione nella nostra relazione con i monti può contribuire a rendere il loro valore e la loro bellezza eterni anche nel nostro bagaglio culturale più di quanto le nevi da sempre parimenti definite, “eterne” (definizione sinonimica scolastica di “ghiacciai”, lo saprete), oggi non lo sono più, e allo stesso modo possono permetterci di coltivare la più edotta e proficua consapevolezza diffusa a favore delle montagne e del loro paesaggio. Che potranno variare, modificarsi, rovinarsi o quant’altro ma sono e saranno sempre uno dei più preziosi e fondamentali patrimoni donati all’umanità, finché questa esisterà.