In montagna si «vive», sempre!

P.S. – Pre Scriptum: questo articolo, che scrissi per un altro blog, risale a più di cinque anni fa. Credo tuttavia che l’avrei potuto scrivere poco fa e sarebbe uscito sostanzialmente uguale: per ciò che vi è scritto e, ancor più, per l’idea dalla quale ciò che potete leggervi nasce. Un’idea che a sua volta scaturisce dalla relazione con la montagna che da lungo tempo cerco di approfondire sempre più: non so se con successo, ma ci provo.
Buona lettura.

[Foto di Andrea Peroceschi, tratta da www.ilovevaldinon.it.]borghi
In montagna non ci si abita, non si risiede o si lavora, non si alloggia e non si soggiorna per poco o tanto tempo, non la si visita ovvero semplicemente ci si sta ma, sempre e comunque, in montagna si vive. Per una sola ora o per la vita interna, mentre si svolge una professione o ci si diverte oppure durante qualsiasi altra attività di sorta: si vive, costantemente e pienamente, punto.

Questo deve diventare un “nuovo” (sempre che tale possa essere considerato) paradigma fondamentale, se si vuole che la montagna torni a vivere veramente. Non più un luogo dove alcune persone vivono e altre persone fanno qualcosa d’altro. No: ci si resti per solo qualche ora o per un’intera esistenza, lo stare in montagna deve sempre essere sinonimo di vita, dunque di completa e profonda consonanza con l’ambiente montano. Un ambiente che è vivo in ogni suo elemento, e che dunque richiede altrettanto a chiunque decida di interagirvi. Le separazioni sociali e commerciali tra abitanti e villeggianti, tra residenti e turisti (e per certi versi pure tra “montanari” e “cittadini”), non hanno più senso o, meglio, risultano del tutto antitetiche ad un rinnovato sviluppo autentico e virtuoso dell’ambiente montano. La montagna non è un oggetto, non lo è mai stato ma per troppo tempo così è stata considerata: un “mezzo”, uno strumento per conseguire certi interessi più o meno futili o leciti, quindi una merce da vendere, utilizzare e poi lasciarsi alle spalle. Qualcosa di sostanzialmente inerte, insomma, quando di contro è un ambito, la montagna, che come pochi altri rappresenta la vita alla massima potenza – il suo essere un iper luogo viene proprio (anche) da qui. Giammai “oggetto” ma soggetto, entità, essenza, come già veniva considerata da numerose popolazioni antiche e come oggi si ricomincia a considerare anche dal punto di vista giuridico (come di recente accaduto con il Monte Taranaki in Nuova Zelanda, ad esempio). E non si credano queste mere iniziative “esotiche” di paesi lontani e diversi: c’è molto di che riflettere e imparare, da parte nostra, riguardo tali realtà.

D’altro canto non c’è bisogno, in fondo, di spingersi in considerazioni di natura “panteista” dacché non serve (non dovrebbe servire) di rimarcare quanto sia oggi necessario, doveroso, imprescindibile salire verso l’alto per vivere la montagna, per esserne parte attiva e virtuosa e non più per altro. Chi va sui monti, fosse solo per qualche ora ovvero per motivi del tutto ricreativi, deve starci come se ci vivesse da sempre e come se per sempre dovesse viverci, deve comprendere come la sua presenza in quel territorio massimamente vivo non possa contemplare alcuna passività perché il territorio e l’ecosistema montano sono vivi della vita che ogni elemento vi apportacosì come subiscono danni e alterazioni se accade il contrario, se vi viene apportata inerzia, incuria e nocività. C’è la vacanza, la giornata di divertimento, il relax, ci mancherebbe: ma nessun momento pur meramente ludico può esimersi nella sostanza dall’essere un momento di vita piena proprio perché vissuto in un luogo che è pieno di vita. Cosa che, per giunta rende, la vacanza o la giornata di relax ancora più bella, più divertente e ritemprante, più memorabile.

Sia chiaro: è un principio, questo, che vale per qualsiasi territorio. Tuttavia, se possibile, in montagna vale ancora di più e assume significati ancora più emblematici. In fondo, sostenere che sui monti la vita si eleva verso l’alto come in nessun altro posto non è cosa affatto insensata né tanto meno metaforica. Anche per questo, dunque, in montagna si vive e si deve vivere sempre. Ogni altra presenza, lassù, ogni altro modus vivendi, ogni altro “stare”, obiettivamente con la montagna, e con il buon futuro di essa, non c’entrano – non possono c’entrare più nulla.

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La beffa nevosa

[Un’immagine di oggi da una delle webcam posizionate all’Alpe Motta, sopra Madesimo, con tanta neve caduta al suolo in poche ore come mai ce n’è stata per tutto l’inverno dove fino a ieri c’erano prati ormai verdi.]
Devo proprio manifestare la mia solidarietà ai gestori dei comprensori sciistici i quali, dopo un altro inverno assai avaro di neve naturale che li ha “costretti” a sparare neve artificiale a gogò, con gran consumo di acqua, energia e conseguente gran dispendio di soldi, si vedono arrivare dal cielo la più cospicua nevicata da parecchi mesi a questa parte in queste ore, a primavera inoltrata, con gli impianti e le piste chiuse e la stagione turistica ormai finita. Se mai potessero esistere divinità preposte al governo del tempo meteorologico, verrebbe da pensare che ce l’abbiano con l’industria dello sci su pista!

Se qualcuno vuole percepire dell’ironia in queste mie considerazioni, sappia che è solo incidentale: la neve naturale è sempre quanto mai benvenuta, soprattutto in questi tempi di inquietante siccità, e lo dovrebbe essere sempre, non solo per evitare il ricorso a quella bruttura assoluta – a mio modo di vedere – che è la neve artificiale. Ne gioirebbero ampiamente in primis gli impiantisti, che vedrebbero allargarsi parecchio i margini della loro attività imprenditoriale (è inutile ricordare quanto costi la produzione di neve artificiale, strategia di adattamento principale ai cambiamenti climatici, per le stazioni sciistiche, ma strumento di dissesto finanziario pressoché inesorabile per i loro bilanci) e ne gioirebbe la montagna in generale, ecologicamente, ambientalmente, culturalmente nonché, senza dubbio, economicamente, per come la neve rappresenti un “tesoro” oltre modo prezioso per la montagna, non solo paesaggisticamente.

Detto ciò, certo fa specie vedere così tanta neve ormai quasi a maggio e così poca in pieno inverno; è accaduto di frequente anche in passato ma dopo stagioni climaticamente regolari, mentre oggi rappresenta evidentemente l’ennesimo segnale di un disequilibrio ambientale in corso, giunto chissà a che punto del suo divenire. Godiamocela, questa benefica neve tardiva, e poi cerchiamo con il nostro agire collettivo di salvaguardare la speranza, ecco.

Su Israele e le sue contraddizioni, anche montane

Trovo veramente triste, nonché inevitabilmente inquietante, constatare come un grande paese quale è Israele, tra i più avanzati al mondo pur tra le contraddizioni geopolitiche note a tutti e d’altro canto per certi versi un modello di efficienza socioeconomica notevole, permanga ostaggio ormai da troppo tempo nelle mani di personaggi politici a dir poco biechi, per di più ora spalleggiati dagli esponenti di un integralismo religioso tra i più fanatici e oscurantisti di quella regione del pianeta. Se costoro vincessero la “battaglia” politica con il resto del paese, temo che anche le questioni geopolitiche aperte, in primis quella palestinese, ne risulterebbero aggravate con conseguenze imprevedibili.

D’altro canto, quasi a voler dimostrare che storia e geografia sono sempre e comunque materie e ambiti strettamente connessi, e a proposito di montagne, le contraddizioni di Israele si manifestano anche in quota. Infatti il paese formalmente ha due vette massime: una, quella internazionalmente riconosciuta, è il monte Meron, o Har Meron (“cartolina” sopra), alto 1208 m, situato in Galilea e sede di una delle maggiori riserve naturali del paese, il quale tuttavia è il punto più elevato solo secondo le frontiere israeliane riconosciute a livello internazionale. Secondo il diritto israeliano, invece,  la vetta più alta del paese si troverebbe nelle alture del Golan ed è il monte Hermon o Har Hermon (rtolina” sotto), alto 2814 m e posto lungo la frontiera con il Libano e la Siria, conquistato dopo le guerre del 1967 e del 1982 e pesantemente presidiato dalle forze militari di Israele dacché non riconosciuto dagli stati confinanti, ma anche sede di uno dei maggiori comprensori sciistici del Medio Oriente.

Contraddizioni etno-geopolitiche che, in ogni caso e in qualsiasi modo, c’è solo da sperare che si possano risolvere presto nei modi più equilibrati possibile.

(Crediti delle immagini: monte Meron, foto di צילום:ד”ר אבישי טייכר, CC BY 2.5, fonte https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17266379; monte Hermon, foto di Beivushtang da en.wikipedia.org, CC BY-SA 3.0, fonte https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18237900.)

Speriamo che torni, la neve

P.S. – Pre Scriptum: il testo che leggete qui l’ho steso qualche tempo fa, verso metà febbraio. Stavo recandomi in Valtellina per un evento e lungo la strada, uscendo dall’ultima galleria della “variante di Morbegno” all’altezza di Ardenno, mi sono ritrovato davanti la visione panoramica di buona parte del solco vallivo valtellinese, da lì pressoché rettilineo, fino ai monti ormai prossimi al bormiese. Monti già piuttosto elevati, in alcune vette prossimi ai 3000 metri di quota, ma inopinatamente spogli di neve, scarsamente presente solo molto in alto o nei canaloni più profondi. Sembrava una visione tardo primaverile e invece era la metà di febbraio, periodo nel quale quelle montagne dovevano apparire completamente bianche di neve fino a quote basse. È stato sgomentante constatare tutta quella miseria nivale, e inquietante pensare che era (è stato) già il secondo inverno così avaro di neve, con gravi ripercussioni sulla presenza di acqua nei fiumi e sullo stato dei ghiacciai, che infatti la scorsa estate si sono fusi come mai era accaduto prima.

Da tutto ciò sono nati i pensieri che poi, uniti ad altri che il mio sguardo sui monti elabora di continuo, hanno portato al testo che leggerete. Forse avrei dovuto pubblicarlo prima, in periodo invernale; d’altro canto anche la primavera sarebbe stagione propizia, alle quote medio-alte, per nevicate abbondanti e salvifiche, ma in fondo la mia – per quel poco che pare e per quanto banale possa essere – è una sorta di invocazione che, stante la realtà che stiamo vivendo e probabilmente vivremo sempre più negli anni futuri, assume un valore atemporale costante. Nell’ovvia speranza che venga esaudita, per il bene delle montagne e di noi tutti.

[Foto di Karl Hedin su Unsplash.]
Speriamo che torni, la neve.

Speriamo veramente e non dico una nevicata ogni tanto, magari copiosa ma che rapidamente il clima trasforma in un ricordo bello e un po’ triste. Speriamo invece che torni con abbondanza e con costanza ad ammantare le montagne, a regalare loro il fascino più gelido e al contempo più fervido che vi sia, a coprire con metri e metri di sublimi preziosi cristalli ogni cosa, sui monti.

Speriamo che torni e vi si possa sciare sopra senza più quella terribile piaga della neve artificiale, deleteria imitazione che offende le montagne per rallegrare chi non le rispetta, e per divertirsi con essa come con nessuna altra cosa fin da bambini e ancora da grandi possiamo e sappiamo fare. Speriamo che torni per ridare alla montagna d’inverno la sua peculiare bellezza, la sua dignità, la sua insostituibile identità, e per ridarle il suo tempo più naturale ritmato dal variare delle stagioni.

Speriamo che torni per curare e nutrire i ghiacciai, per dare vita persistente e spumeggiante ai ruscelli, ai torrenti, ai fiumi, per far scintillare pienamente i laghi, per dissetare ogni creatura vivente e allontanare qualsiasi arido e sterile incubo.

Speriamo che la neve torni così da farci riconoscere le montagne per ciò che realmente sono e saranno ancora, non per quanto sembrano ma non sono o per ciò che erano e non sono più.

Speriamo che torni portando con sé la compagnia del freddo, che ci potrà far rabbrividire fuori ma al contempo ci farà comprendere quanto sia importante essere caldi dentro, e speriamo che torni perché chiunque, anche i bambini di oggi, possano restare sommamente affascinati, sorpresi, stupiti,  bocca aperta nell’ammirare il volteggiare infinito dei fiocchi che dal cielo fluttuano verso terra.

Speriamo che torni perché la montagna senza neve è come un capolavoro pittorico privato del colore, col rischio che qualcuno ce ne metta dell’altro che non c’entra nulla e lo abbruttisca, facendogli perdere buona parte del suo valore e della sua bellezza.

Speriamo che torni, la neve, quanto prima. E che torni quando saremo ancora qui, ma anche se non sarà così non fa nulla: l’importante è che torni, prima o poi, e che le montagne d’inverno si possano imbiancare come prima e più di prima, che le loro vette possano scintillare nel cielo gareggiando con la luminosità diurna e stellare, ammantate del bianco che come nessun altro è sintesi e compendio assoluti di qualsiasi colore che può avere la vita.

Speriamo, già.

(Non) capire lo sci

In effetti posso (tentare di) capire la sensazione vivida di “accerchiamento” che percepiscono i gestori dei comprensori sciistici, per come sugli organi di informazione, da fonti diverse e con frequenza sempre maggiore, si possono leggere e sentire articoli o servizi che raccontano della crisi sempre più profonda nella quale stanno scivolando i suddetti comprensori sciistici e di come risulti oltremodo necessario ripensare il turismo montano invernale, posta innanzi tutto la realtà climatica in divenire ma non solo per questo (uno dei quali è quello de “Il Post” del 9 febbraio 2023 che vedete qui sotto: cliccate sull’immagine per leggerlo). Accerchiamento al quale gli impiantisti reagiscono con rabbia sempre meno malcelata, accusando chi sostiene il bisogno di ripensare il turismo invernale (anche) di voler mandare al fallimento le società di gestione degli impianti di sci e così di creare migliaia di disoccupati e rilanciando ossessivamente l’idea che senza lo sci la montagna e la sua economia morirebbero.

Lo posso “concepire”, quel loro atteggiamento, perché posso immaginare come sempre più gli impiantisti sentano venir meno la terra da sotto i piedi o, per meglio dire, la neve da sotto i piedi, proprio per i cambiamenti climatici in atto, e ciò generi loro un panico difficilmente represso. Ma se è concepibile e immaginabile, la loro posizione, non è d’altro canto affatto comprensibile. Il panico che si intravede dietro le suddette reazioni irose – che purtroppo non di rado sfociano in atteggiamenti da negazionismo climatico – è a ben vedere per gran parte colpa di loro stessi, e del loro essere rimasti sostanzialmente immobili rispetto a un’evoluzione sempre più problematica del clima sulle montagne che la scienza registra e prevede da decenni, la quale da tempo ha già causato la chiusura di numerose stazione sciistiche di bassa quota. L’unica reazione formulata da parte degli impiantisti, in pratica, è stata quella di aumentare sempre di più l’utilizzo della neve artificiale, salvando le piste da sci ma non i propri bilanci e pure qui con un crescendo drammatico, visti i costi attuali dell’energia e l’impatto sui patrimoni idrici locali, il che ha generato da un lato un circolo vizioso di continue elargizioni di soldi pubblici da parte dello stato e delle regioni e, dall’altro, di aumenti dei costi degli skipass insostenibili per molti: non a caso il numero di sciatori è in costante decremento da tempo, al netto delle fluttuazioni stagionali e dei casi particolari.

In fondo non lo si può capire, l’atteggiamento degli impiantisti, perché sono proprio loro a non capire la realtà dei fatti, come stanno andando le cose, come sarà il futuro prossimo (sperando che quello più lontano non si manifesti ancora peggiore di quanto oggi è prevedibile). Dal mio punto di vista il nocciolo della questione non è tanto l’essere a favore o contro lo sci su pista, ma è richiedere fermamente che, vista la realtà delle cose, lo sci su pista garantisca una sostenibilità ecologica e economica la più compiuta possibile evitando definitivamente di palesarsi per ciò che spesso oggi appare, ovvero un sistema di sfruttamento eccessivo e di degrado dei territori montani che non agevola affatto l’economia locale, anzi la danneggia proprio in forza della sua impronta sproporzionata avvantaggiando (temporaneamente e occasionalmente) solo chi è direttamente coinvolto nella gestione finanziaria dei comprensori.

Se gli impiantisti sapessero assicurare quanto sopra, e nel caso in cui i loro comprensori fossero posti oltre il limite dei 1800-2000 m che tutti i rapporti scientifici e climatici fissano come quello al di sotto del quale l’innevamento – né naturale e né artificiale, in forza delle temperature – non sarà più garantito, la loro attività sarebbe obiettivamente ammissibile e giustificabile. Per lo stesso principio di obiettività, i comprensori sciistici al di sotto di quelle quote e finanziariamente dipendenti dai contributi pubblici non è logico che possano restare in attività: dura quanto possa essere una verità del genere, non ci si può sfuggire ma può certamente diventare lo stimolo e il punto di partenza per un ripensamento della frequentazione turistica dei relativi territori ben più sostenibile, consona al luogo, contestuale alle caratteristiche climatiche, innovativa e, perché no, alla fine più redditizia di un’attività sciistica oltre modo esosa e totalmente dipendente dalle variabili meteorologiche e del clima nonché più soddisfacente per il potenziale pubblico, che parimenti con maggior facilità potrebbe essere fidelizzato alla frequentazione del luogo proprio perché a sua volta reso meno dipendente da fattori esterni alle peculiarità turistiche locali.

D’altro canto, l’alternativa a tale ricontestulizzazione deli comprensori sciistici sostenibili e al ripensamento di quelli inesorabilmente destinati a cessare l’attività è solo l’incancrenimento dell’immobilismo a difesa degli impianti a far da prologo al definitivo fallimento non solo dei comprensori così mal gestiti ma di tutto il loro territorio montano, come una nave dallo scafo pieno di falle che mai sono state riparate e nemmeno ci si è voluto premunire di scialuppe di salvataggio, così che, quando rapidamente colerà a picco, vi saranno ben poche alternative alla conseguente fine.

Dunque, gli impiantisti in verità si dovrebbero certamente sentire “accerchiati” ma innanzi tutto da se stessi e dalle loro alienazioni turistico-imprenditoriali. Ed è un peccato che non capiscano (non vogliano capire) perché sempre più persone come me non comprendono il loro comportamento, ovvero non capiscono la realtà nella quale tutte le montagne, e tutti noi che le frequentiamo, stiamo dentro. L’augurio fervido è che sappiano farlo quanto prima, il tempo rimasto non è ormai molto ma solo in ottica sciistica: le montagne invece sono lì che attendono soltanto la nostra più consona, consapevole e sostenibile presenza, per il bene di chiunque le ami e ne voglia salvaguardare l’insuperabile e insostituibile bellezza.

(L’immagine in testa al post è di ©Mischa Heuer ed è tratta dalla pagina Facebook “Alto-Rilievo/voci di montagna”, qui. Ringrazio molto Pietro Lacasella, gestore della pagina, per la concessione e le info sull’immagine.)