Le bocciofile, un luogo di socialità paesana in via di estinzione

Come per ogni altra cosa, anche per i territori montani i giovani rappresentano la speranza di un futuro più virtuoso rispetto a quanto fatto di sbagliato, sovente, fino a oggi: è tanto banale dirlo quanto necessario ribadirlo. Ma nei piccoli paesi di montagna, e in generale nei centri minori, è la popolazione anziana a rappresentare la maggioranza residente: cittadini al pari di tutti gli altri ma, come viene da pensare, spesso trascurati dalla politica locale. Fino a qualche tempo fa tali cittadini “diversamente giovani” trovavano in ogni loro paese un luogo di ritrovo caratteristico, tradizionale e di notevole valenza sociale: le bocciofile. Ce n’era almeno una con relativo bocciodromo (i due termini sono sostanzialmente sinonimici) in ogni comune, anche nel più piccolo, diverse in quelli più grandi; da anni sono ormai in via di estinzione. Basti vedere qui sotto la mappa di Google della zona a nord di Milano, tra Bergamo, Lecco e Como, e constatare quante bocciofile vengano segnalate:

Un tempo ce n’erano in ogni paese, ribadisco: decine e decine, nella porzione di territorio sopra mappata.

Perché si è lasciato che chiudessero? Non sono ancora passate le generazioni che intorno ai campi di bocce si radunavano e si radunerebbero ancora, salvaguardando una socialità preziosa e fondamentale per chi la vive oltre che per la vitalità dei paesi stessi. Sarebbero ben vive e frequentate anche attualmente, c’è da scommetterci. Oggi molti di quegli anziani li si vede vagare, e così passare le loro giornate, tra le corsie degli ipermercati – parlo per esperienza diretta e costante: dalle mie parti la chiusura delle bocciofile è avvenuta in contemporanea all’apertura dei primi grandi discount. Sarà stata una coincidenza, forse, o magari no. In ogni caso, meglio che si svaghino giocando a bocce, a carte ovvero altro del genere in quei circoli di paese, oppure nei meandri del turboconsumismo contemporaneo o chiusi in casa sorbendosi le immani stupidaggini della TV di oggi?

I tempi cambiano, i costumi sociali idem e il modus vivendi altrettanto, lo so bene. Potrà apparire una riflessione meramente e ingenuamente retorica, la mia, ci sta. Tuttavia, a mio modo di vedere, potrebbe anch’essa risultare significativa di quella realtà, sicuramente problematica, che affligge le cosiddette “aree interne” del nostro paese. Territori ricchissimi di cultura vernacolare lasciati troppo spesso al loro destino per trascuratezza politica, quando non sciatteria, e per incapacità di comprenderne le reali potenzialità – ne ha scritto mirabilmente al riguardo l’amica Anna Rizzo nel suo I paesi invisibili. Che poi si tratti di preservare ovvero di (ri)aprire bocciofile, circoli e similari luoghi di ritrovo e socializzazione paesana oppure di altri interventi, pratiche, iniziative più articolate e strutturali, credo sia comunque un tema che nel complesso resta troppo ampiamente sottovalutato. Con effetti che poi ricadono sull’intera comunità, giovani inclusi.

P.S.: per fortuna dalle mie parti ancora qualche bocciofila che resiste e, anzi, risulta ben vitale c’è, come spiega questo articolo dal quale ho tratto le immagini che vedete qui sopra.

Perché non rendere i piccoli paesi dei luoghi di produzione culturale?

[Cervara, sui Monti Simbruini, provincia di Roma. Foto di Krichilla da Pixabay.]

Il futuro di un paese non si gioca sulla velocità dei risultati per progettare gli spazi pubblici ma sul tempo da dedicare allo studio. È un percorso che ha bisogno di professionisti: archeologi, cartografi, Storici, archivisti, antropologi, speleologi, naturalisti, paleontologi, etnomusicologi, architetti, urbanisti, archeo-sismologi, botanici che lavorano in équipe per anni in centri ricerca, magari proprio nei palazzi in disuso.
Vorrei che esistessero i Borghi dell’Art. 9 [della Costituzione, n.d.L.] per mettere in pratica i valori costituzionali di equità, giustizia, accessibilità. La filantropia delle migliaia di volontari, i paesani, che presidiano, documentano e lottano per la tutela dei beni pubblici è la garanzia indiretta di un sistema virtuoso di conservazione e di recupero. Sviluppare un approccio consapevole verso questi contesti unici ci permetterebbe di usare un linguaggio inedito, perché i paesi possono essere dei luoghi di altissima cultura.

[Anna RizzoI paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, il Saggiatore, Milano, 2022, pag.153.]

[Cliccate su questa immagine per leggere la mia “recensione” de I paesi invisibili.]
In questo passaggio del suo bellissimo libro I paesi invisibili, Anna Rizzo mette in luce un’altra carenza del “sistema-paese” italiano nei confronti delle aree interne e rurali: l’incomprensione, più o meno voluta, del fatto che i piccoli paesi sono e possono diventare grandi produttori di cultura – e intendo dire cultura propria, non indotta. Non è solo la chiesetta antica, il nucleo medievale o il museo a fare cultura per essi: sia chiaro, sono elementi imprescindibili e ci sta che rappresentino la cultura in modo referenziale per il luogo –l’importante è che siano adeguatamente valorizzati senza essere dati in pasto al porno-turismo massificato, come è accaduto per moltissimi borghi – ma perché non si può considerare ciò che c’è intorno ad essi e dentro quell’intorno, ovvero la comunità residente nei suoi vari membri come un ulteriore e, appunto, più significativo strumento di produzione culturale? Perché non pensare ai piccoli paesi anche come luoghi di studio e spazi attrattivi per quelle figure citate da Anna, impegnate in un lavoro d’equipe a favore di loro stessi tanto quanto (e non di meno) del luogo, in correlazione alla comunità locale e alle sue iniziative volontarie di attenzione verso il proprio territorio che peraltro da ciò trarrebbero nuovo attivismo e maggior vitalità?

Anche questa potrebbe essere (il condizionale è solo formale, perché per me lo è sicuramente) un’altra buona via da percorrere per rigenerare le aree interne contrastandone i cronici fenomeni di impoverimento demografico, sociale, economico nonché, ovviamente, culturale; e una via molto più relazionata al contesto territoriale e alla comunità residente cioè ben più place based di certe altre a partire dai vari modelli turistici i quali, anche quando apparentemente virtuosi, a volte tendono (forse inevitabilmente, forse no) a ricalcare schemi legati alla customer experience, cioè all’assoggettamento del luogo alle proprie finalità più che ai bisogni e alle visioni degli abitanti.

Dice bene Anna: serve «un linguaggio inedito» al riguardo, dunque serve un pensiero differente da quello diffuso che lo possa elaborare e proferire. Una cosa apparentemente semplice, si potrebbe ritenere. E dunque perché non sappiamo praticarla?

Il turismo che “sviluppa” (la fine de)i paesi

[Il borgo di Frattura Nuova visto da Scanno, in provincia dell’Aquila. Foto di Retaggio, Opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]

In molti paesi mancano le scuole, ci sono pochi bambini e adolescenti, non c’è la posta, un bancomat, un benzinaio, nemmeno un piano di mobilità. Le famiglie in qualche modo devono arrangiarsi perché le progettazioni si indirizzano verso la trasformazione di case in strutture di ricezione turistica o in alberghi diffusi. Ecco il motivo del fallimento di molte progettualità calate dall’alto, che non hanno mai interpellato la comunità e i paesani.
La performance turistica batte su tutti i fronti i progetti incentrati sulla creazione di lavoro, di infrastrutture, sulla manutenzione degli spazi pubblici e sull’edilizia scolastica, o più semplicemente attività formative ed educative per i bambini e gli adolescenti: biblioteche, ludoteche, sale prove o palestre, campi sportivi, spazi espositivi, computer, skate park.
Occuparsi soltanto dell’aspetto turistico elude la questione dei diritti. Gli interventi legati alla performance turistica, oltre che generare mostri, generano sfiducia negli abitanti che si sentono sempre più esclusi. Le comunità, i paesani, nella maggior parte dei casi non vengono mai interrogati. C’è questo pregiudizio orribile e fastidioso. La promessa di sviluppo, di innovazione, di crescita economica in un paese che magari viene documentato arretrato è lo specchietto per le allodole di amministratori che dovrebbero tutelare e non esporre il comune all’esibizione e allo sfruttamento dell’immagine.

[Anna Rizzo, I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, il Saggiatore, Milano, 2022, pagg.110-111.]

In poche righe, compendiando in maniera tanto obiettiva quanto illuminante la realtà dei fatti, Anna Rizzo descrive la situazione di molte località italiane, considerate dai loro amministratori locali (!) solo come spazi da turistificare, consumare e vendere a quanti più clienti possibili, siano essi immobiliaristi, imprenditori, tour operator, turisti, con la scusa, ripetuta immancabilmente come un mantra, dello “sviluppo del territorio”. Invece, in questo modo la sola cosa che viene sviluppata, e in crescendo, è la velocità della crisi – economica, sociale, culturale, identitaria oltre che ambientale – di quei luoghi. Tanto poi gli amministratori suddetti finiti i loro mandati se ne vanno altrove, magari vengono pure promossi a cariche politiche e istituzionali superiori – l’ipocrisia fa curriculum, in questo paese dalla memoria cortissima – e pure i turisti rapidamente si dileguano dai luoghi ai quali è stata soffocata l’identità e l’anima. Restano gli abitanti, sempre più abbandonati, derelitti, alienati. Che magari si beccano pure l’accusa di non amare il proprio paese – privato nel tempo di scuole, poste, banche, medici di base, trasporti pubblici… – e di abbandonarlo, spopolandolo.
Ma l’importante in questi luoghi è «fare sempre qualcosa per il turismo» (cit.), no?

N.B.: potete leggere la mia “recensione” al libro di Anna Rizzo qui.

 

Anna Rizzo, “I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia”

«Borghi», «aree interne», «luoghi del cuore»: pensate a quante definizioni utilizziamo abitualmente per identificare tutta quella (gran) parte di paese – cioè di Italia, ovviamente – che non sia città e aree metropolitane e alla quale, spesso se non sempre, ci si riferisce come se fosse una specie di paradiso sospeso nel tempo, dove c’è (si pensa/si è convinti che ci sia) natura incontaminata, aria buona, quiete, paesaggi idilliaci e, appunto, piccoli paesi nei quali siamo portati a pensare e credere che sia bello vivere, a differenza delle città iper cementificate, inquinate, rumorose, pericolose, eccetera.

Vero, sarebbe bello abitare in posti così belli… se avessero medici di base, ospedali vicini, sportelli postali e bancari attivi, scuole aperte, connessioni internet. Ma sovente non ce li hanno, oppure ce li avevano e ora non più perché la spesa pubblica non si può permettere di mantenere certi servizi in centri che hanno un millesimo degli abitanti di una città di media grandezza… però sarebbero (sono) cittadini anch’essi come quelli metropolitani, e dunque? Dunque per non sentirsi persone “inferiori” tocca loro abbandonare il «borgo» nel quale vivevano e trasferirsi dove la dignità della vita quotidiana sia meglio preservata: come si può dunque pensare che altri, giammai abituati a quella ruralità così depressa, possano trasferirsi in quei posti solo perché il bando di turno offre case a un Euro o sgravi fiscali per aprire un’attività commerciale? E poi, acquistata casa e aperta l’attività? Non vi sono banche né poste, la scuola è a 10 km e il medico di base più vicino a 20, le strade sono rimaste all’Ottocento, cinema, teatri o musei non se ne vedono nemmeno con il binocolo, internet o non c’è o c’è solo se fa bel tempo, se piove forte o nevica si resta isolati… Insomma, siamo tutti, o quasi, vittime e complici di un gigantesco inganno politico e mediatico che da decenni ha costruito un immaginario delle cosiddette «aree interne» del tutto distorto il quale, alla lunga, sta paradossalmente (ma forse nemmeno troppo) contribuendo alla loro fine, anche più rapida di quanto naturalmente sarebbe potuto accadere.

Anna Rizzo, antropologa illuminante che ormai da tempo seguo – anche se non con l’assiduità che vorrei – delle aree interne dell’Italia offre ne I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia (il Saggiatore, Milano, 2022) una disamina lucida, vibrante, lontana anni luce da ogni retorica, appassionata, intima, rabbiosa ma di quella rabbia di chi comprende l’inestimabile valore di un tesoro da troppo tempo trascurato, insozzato, dilapidato che tuttavia si vorrebbe far credere luccicante come non mai []

(Potete leggere la recensione completa de I paesi invisibili cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)