Non mi era mai capitato prima, forse, di intessere con un libro attraverso la sua lettura un rapporto di amore/odio – anzi, uso termini meno iperbolici e più consoni: di concordanza e di dissenso – come con London Orbital. A piedi intorno alla metropoli dello scrittore, filmmaker e psicogeografo gallese – ma ormai londinese honoris causa – Iain Sinclair (Il Saggiatore, 2016, traduzione di Luca Fusari, cura di Nicoletta Vallorani).
Perché (lato concordante) London Orbital è la narrazione di un fenomenale esperimento di walkscape, di esperienza psicogeografica e da “urban stalker” (nel senso strugackijano del termine poi assunto e contestualizzato da Francesco Careri nella sua definizione delle pratiche del camminare come interpretazioni primarie dello spazio e letture artistiche del mondo – “walkscapes”, appunto) compiuto da Sinclair percorrendo a piedi l’autostrada M25, chiamata “London Orbital” in quanto gira intorno all’intera area città di Londra e alla sua area metropolitana, con un tragitto di 200 km perennemente ingolfati di traffico, rumore, inquinamento, che egli segue per andare alla (ri)scoperta delle periferie londinesi e del loro ingente, incredibile, inopinato carico di bizzarrie incoerenze, ipocrisie urbane. Un non luogo autostradale diffuso di genesi conservatrice-thatcheriana compiuto tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, la M25, che secondo Sinclair fa il paio con un altro non luogo, urbano dacché concentrato sulla penisola cittadina di Greenwich, lungo il Tamigi, e di genesi stavolta laburista-blairiana, ovvero il Millennium Dome. Entrambi i progetti legati da uno stesso principio di grandeur politico-propagandistica dalla sorte fallimentare e invero dimostrazione del menefreghismo strafottente verso la cultura dei luoghi e verso la necessaria attenzione antropologico-culturale alla relazione delle persone che quei luoghi abitano, degradata e calpestata per inseguire meri interessi di parte e tornaconti particolari.
Così Sinclair, accompagnato da alcuni fidati compagni di viaggio, parte proprio dal Dome per circumnavigare (in senso antiorario) Londra lungo il percorso della M25 […]
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Se Dio tace
Quando Dio tace, gli si può far dire quello che si vuole.
Sono solo dodici parole ma geniali, e sufficienti per far svanire di colpo quasi due millenni di retorica teologico-dottrinale messa in piedi dal clero cristiano per assicurarsi poteri, egemonie e privilegi arbitrari e biechi, imponendosi come “rappresentanti di Dio in Terra” e sfruttando così la fede popolare. E ciò senza nemmeno negare nel principio l’esistenza di Dio, il quale certo potrebbe tacere perché inesistente, come sostengono gli atei, oppure esistere ma non (voler) parlare ai terrestri (lo capirei molto, nel caso) o parlare ai terrestri senza che questi lo odano e capiscano ovvero in modo inintelligibile, come per certi versi affermano gli agnostici. In ogni caso, sia quel che sia, questo ha determinato che il potere clericale ne approfittasse (tutt’oggi, senza remore) per far dire a Dio di tutto e di più, ma ogni cosa ben funzionale ai propri interessi e tornaconti. Al punto che, se Dio esistesse e parlasse agli umani, in particolar modo a quelli che prestano fiducia alle gerarche clericali, probabilmente imprecherebbe di brutto. Ecco.
I libri sono stati i miei uccelli
Ma i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio; di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l’imprevedibilità.
L’estetica di Instagram
Su “Artribune” – che io considero la migliore rivista italiana di arte e vi assicuro che non è una marchetta, questa – Marco Senaldi cura da tempo la rubrica In fondo in fondo, l’ultima di ogni numero, sorta di contro-editoriale che risulta sempre interessante per come tratti le realtà del nostro mondo contemporaneo da punti di vista alternativi e intriganti, non di rado illuminanti. Quasi sempre, infatti, l’osservazione comune della realtà avviene da prospettive indotte e uniformate, generando inevitabilmente visioni standardizzate; basta spostarsi di un poco a lato, di un pochissimo spesso, perché la visione cambi completamente e altrettanto si modifichi la percezione e il valore di quella realtà osservata. È ciò che cerca sempre di fare la buona arte contemporanea, in fondo, dunque i testi di Senaldi ci stanno benissimo su una rivista che se ne occupa, anzi: vi risultano fondamentali, appunto.
Sul numero 45 del magazine, in un pezzo intitolato The Instagram Aesthetics, Senaldi ci porta a ragionare su come i social media, e in particolare quello “tutto immagini” citato nel titolo, stiano nemmeno troppo lentamente causano un ribaltamento nel regime scopico collettivo, cioè – semplifico radicalmente per massima chiarezza – nella visione dimensionale e prospettica che utilizziamo come sistema standard di osservazione del mondo, attraverso il quale recepiamo le informazioni per concepirlo, (non sempre) comprenderlo e per identificarci in/con esso.
Ve ne cito un brano significativo; l’intero articolo lo potete leggere (e merita alquanto di essere letto e meditato) cliccando sull’immagine in testa al post, tratta dall’articolo stesso. Qui invece potete scaricare “Artribune” #45 in pdf.
Qualcosa di nuovo è accaduto nel nostro regime scopico (per usare l’efficace espressione di Pierre Sorlin) e, anche se sembra un dettaglio trascurabile, è come se, a quello che siamo abituati giustamente a chiamare “il paesaggio mediale” – e un paesaggio per definizione è più largo che alto – si fosse aggiunta una dimensione nuova, che “risolleva” le proporzioni, come nei ritratti dei gentiluomini messi in posa all’impiedi, insomma un “ritratto mediale” (spesso i ritratti hanno una ratio inversa rispetto ai paesaggi).
Ma, forse, non si tratta solo di estetica: questo ribaltamento annuncia istanze più profonde, che paiono spingere verso un’inversione dimensionale generale. La verticalità dei dispositivi neomediali, infatti, sembra sostituire una metafora antichissima del tempo, dettata invece dall’orizzontalità: quella, risalente agli esordi della filosofia antica, dello scorrere delle acque di un fiume. Quando, abbastanza ingenuamente, si dice che i new media hanno “mutato il nostro orizzonte” – si afferma qualcosa di vero, poiché essi hanno letteralmente mutato la disposizione verso il mondo che ci ha caratterizzato da sempre.
Se l’uomo negli animali vede solo sé stesso (John Berger dixit)
Quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti. Quel medesimo animale può benissimo guardare nello stesso modo un’altra specie. Non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessun’altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale. Altri animali sono tenuti a distanza da quello sguardo. L’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiarlo.
(John Berger, Perché guardiamo gli animali?, Il Saggiatore, 2016.)
Forse è anche per questo che nessun’altra specie come l’uomo ha sterminato così tante altre specie viventi: perché in esse ha sempre e solo visto sé stesso e i propri fini – di piacere, guadagno, interesse personale, vittoria, sopraffazione… – mai altre creature ugualmente vive e altrettanto intelligenti se non di più, solo in modo diverso, nonché con le quali rapportarsi in un rapporto biologico ed ecosistemico tanto naturale e necessario quanto incompreso o rinnegato. Ma è basta autoproclamarsi razza più intelligente sul pianeta per togliersi di mezzo anche questo “problema”.
Così, cito ancora John Berger, al riguardo:
“Gli animali stanno scomparendo ovunque. Negli zoo sono un monumento vivente alla loro stessa scomparsa. Così facendo, hanno provocato la loro ultima metafora.”