Basta con gli chalet in montagna!

Fare cose nuove in montagna si può e si deve, e lo si può fare senza che l’innovazione deprima la tradizione o la banalizzi o semplicemente la trascuri: occorrono cultura, competenza, sensibilità, cura della relazione con i luoghi e dell’uomo con essi e il loro paesaggio. La montagna è una dimensione ideale per manifestare le doti citate, ancor più perché la pregevolezza e insieme la delicatezza del suo territorio evidenzia da subito ciò che invece è stato fatto senza la necessaria premura verso di esso, e senza il buon senso che vi dovrebbe stare alla base.

Il progetto (nelle immagini) dello studio Naema Architekten, di Bolzano, realizzato a Fleres, vicino Colle Isarco, a mio parere è un ottimo esempio di quanto ho scritto, e un elemento di giudizio ideale rispetto a tante altre realizzazioni montane, molto meno ispirate (ma la definizione è assai eufemistica, sia chiaro). Ha pure una bellissima storia di rinascita da un doloroso trauma ad arricchirne il valore e a trascenderlo dai meri aspetti architettonici, dunque è ancor più ammirevole.

L’opera ha vinto il premio “Best Project 2022 di Archilovers, il social media dedicato alla progettazione architettonica.

Per saperne di più, date un occhio qui. Le immagini sono tratte dal sito web di Naema Architekten, sul quale trovate altri dettagli del progetto.

P.S.: perché quello strano titolo al post? Be’, sia chiaro: non è che ce l’abbia in senso assoluto con gli chalet, però per certi versi sì, come denoto qui.

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Fare cose belle e buone, in montagna. Sulle Madonìe (Sicilia), ad esempio

Le Madonìe (in siciliano Li Marunìi) sono tra le montagne più belle della Sicilia e del Mediterraneo. Tanto poco esteso quanto ricco di angoli spettacolari e in costante vista del Mar Tirreno, il gruppo presenta le più alte vette dell’isola dopo l’Etna, sfiorando i duemila metri di quota con il Pizzo Carbonara (1979 m) che domina una morfologia parecchio variegata nonché alcune peculiarità notevoli come la faggeta di Piano Cervi, la più meridionale d’Europa. D’altro canto l’ambiente naturale delle Madonìe è talmente pregiato che la zona, il cui parco è inserito già dal 2004 nella Rete Mondiale dei Geoparchi, dal 2015 si fregia del titolo di Geoparco Mondiale UNESCO.

Nonostante ciò, anche le Madonìe non sono sfuggite al tentativo di imporre ai loro territori i modelli del turismo di massa più banalizzanti e decontestuali: la località sciistica di Piano Battaglia, pur piccola, è il frutto di quell’imposizione, dagli scopi ben più attenti al consumo del luogo che alla sua valorizzazione autentica e con la solita cronaca di pasticci finanziari, chiusure, riaperture, richiusure, soldi pubblici malamente spesi, problematiche legate al clima, eccetera: la sua storia è raccontata – succintamente ma compiutamente – nel libro Inverno Liquido di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli.

Anche per i motivi che ho appena citato, qualche anno fa un gruppo di cittadini madoniti per passione, interesse, competenze, ha deciso di impegnarsi alla promozione e sviluppo dei territori montani delle Madonie, creando un’associazione culturale che oggi si può ben indicare come un esempio mirabile e assai efficace di valorizzazione della montagna in senso generale: è Identità Madonita, nata proprio per attivare e promuovere nuovi processi di sviluppo, reti di aziende, persone e servizi dedicati non solo al visitatore ma anche ai giovani madoniti. L’associazione promuove forme di sensibilizzazione attraverso attività mirate ad accrescere la conoscenza ed il valore del territorio, a combattere lo spopolamento e attivare nuove visioni e interpretazioni del territorio locale. Inoltre usa lo sport per attivare forme di sensibilizzazione dei giovani madoniti in base al principio per il quale la conoscenza approfondita di pratiche che agevola la scoperta dei luoghi del territorio può essere potente volano di nuove forme di coscienza, di attività imprenditoriali e di attrazione, così da innescare nuovi meccanismi di sviluppo benefici per l’intero territorio.

Infine, Identità Madonita sfrutta la conoscenza dei suoi membri per promuovere e incentivare forme di reti di persone e servizi al fine di facilitare la fruizione e la coltivazione della cultura delle Madonie. Per questo tra i soci dell’associazione si trovano maestri ceramisti, agronomi profondi conoscitori delle tradizioni contadine, maestri pupari, esperti cuochi, ex componenti dei reparti speciali dell’esercito, artisti pittori, e soprattutto appassionati esperti di sviluppo locale: un ambiente umano ideale per implementarvi la collaborazione di partner commerciali accuratamente scelti per supportare la permanenza e le attività dei visitatori, i quali a loro volta possono approfittare di tale rete per scegliere servizi e aziende innanzi tutto dell’entroterra madonita ma anche della zona costiera, che ha nella cittadina di Cefalù, con la sua rinomanza turistica riconosciuta a livello internazionale, un importante e emblematico legame referenziale tra il mare e il comprensorio montano delle Madonie.

Un’esperienza veramente notevole e ammirevole, quella di Identità Madonita, che ha molto da insegnare a tante altre località montane alpine e appenniniche dalla storia assimilabile che ancora, per motivi di vario genere ma che ormai tutti conoscono bene, non riescono a liberarsi dal giogo della monocultura dello sci nonostante nulla vi sia più – in senso geografico, climatico, ambientale, economico, sociale, culturale, eccetera – nella realtà effettiva di quei luoghi che possa giustificare questo soffocante accanimento turistico. Insomma: chapeau!

(Tutte le immagini presenti nell’articolo sono tratte dalla pagina Facebook dell’Associazione Identità Maronita.)

N.B.: altre cose belle e buone fatte in montagna:

Ne uccide più la lingua – di luoghi belli.

Ecco cosa accade quando si lavora senza documentazione. Una pubblicità banale e senza contenuti per raccontare i paesi. Con il sottotesto dei “valori” della tradizione rivolto a un pubblico eterobasic. La stessa triste storia del Friuli Venezia Giulia questa volta per il Piemonte, una trafila di aggettivi evasivi senza contesto, che potrebbero raccontare qualsiasi luogo e qualsiasi cucina. Più la tristezza del dominio visit.it. Si aggiunge la Toscana, che sceglie di svalutarsi e cadere nel cliché e chi l’ha ideata non ha visto nemmeno la foto.

Nel leggere questo post su Facebook della bravissima Anna Rizzo, il cui recente libro I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia credo sia tra i più importanti da leggere, tra quelli usciti negli ultimi tempi, per chi si occupa e/o è appassionato di paesaggi (nel senso più completo e profondo del termine), m’è tornato in mente uno spot radiofonico ascoltato poco prima di Natale di una località delle Dolomiti abbastanza nota anche se non tra quelle più gettonate – motivo alla base di quello spot, suppongo. In esso si pubblicizzavano le varie attività invernali praticabili in loco e, cosa che di primo acchito mi ha piuttosto sorpreso, erano per la maggior parte attività alternative allo sci su pista: escursioni di vario genere, sentieri invernali, ciaspolate, slitte, centri benessere, enogastronomia, eccetera. Qualcosa di pregevole, insomma, nel dominio imperante della monocultura sciistica che viene quasi sempre imposta come l’unica “possibile”, “giusta”, “conveniente” per le montagne, con notevole e ormai ingiustificabile ipocrisia.

Molto meno pregevole, di contro, ho trovato il lessico con il quale lo spot pubblicizzava tali attività: una banale sfilza di termini, molti anglosassoni – “resort”, “wow!”, “snow & fun!”, “super!” oltre agli ormai immancabili “slow” e “green” – e a quegli altri ordinariamente fantasiosi – “relax”, “esperienza unica”, “natura incontaminata” e così via. In pratica, lo stesso linguaggio abitualmente utilizzato per pubblicizzare lo sci su pista ovvero il turismo montano più convenzionale e massificato, con il risultato di banalizzare e svilire la potenziale bontà innovativa delle attività alternative citate. Il che mi ha fatto capire quanto la standardizzazione dell’immaginario montano in chiave di comunicazione e marketing turistico sia ormai profondamente pervasiva e vada a intaccare anche quegli ambiti che, senza una gestione altrettanto alternativa non solo in senso commerciale ma pure culturale, appaiono null’altro che “effetti collaterali” della monocultura sciistica dominante e non, come dovrebbe essere ovvero si vorrebbe far credere, alternative autentiche ad essa e la base di nuovi paradigmi turistici e di frequentazione dei territori montani, più consoni alla realtà che stiamo vivendo e a quella degli anni futuri.

Il meccanismo di fondo è d’altronde proprio quello descritto da Anna Rizzo nel suo post sopra citato: l’utilizzo di un lessico tanto intrigante quanto evasivo, privo di qualsiasi vera referenzialità al luogo e alle sue peculiarità, con termini pescati da un vocabolario striminzito e convenzionale con i quali alla fine si può descrivere qualsiasi cosa, dalla località alpina fino a quella sul mare, dal luna park fino al villaggio vacanze, l’evento fieristico o la sagra paesana. Un vocabolario il cui titolo potrebbe essere «Specchietti lessicali per allodole turistiche», ecco, il quale rappresenta una delle manifestazioni più evidenti dell’omologazione del turismo di massa, plasmato attorno a pochi “principi” che possano garantire il massimo tornaconto – a chi li formula – con il minimo sforzo, senza di contro doversi preoccupare troppo della gestione del luogo, (s)venduto come fosse un bene uguale a tanti, come se le sue caratteristiche geografiche, paesaggistiche, culturali, ambientali potessero essere le stesse di ogni altro, come se non potesse avere una propria anima, un proprio Genius Loci, un’identità peculiare che ne farebbe un luogo unico ma, in quanto tale, poi più difficile da vendere perché bisognoso di ben più attenzione, sensibilità, conoscenza, ponderazione. No, troppo complicato, laborioso, troppa competenza da mettere in campo, troppo tempo da doverci spendere sopra. Così, si apre il vocabolario passepartout, si tirano fuori i soliti termini ormai facilmente identificati dal pubblico come “attrattivi”, li si infila in qualche slogan a effetto e amen, il lavoro è fatto.

È veramente così che si possono “valorizzare” i nostri luoghi di maggior pregio? È in questo modo che si possono sollecitare i turisti a visitarli e a comprenderne il valore? Oppure dietro un linguaggio talmente enfatico e pubblicitariamente estremizzato non si fa altro che volgarizzarli, svuotandoli di qualsiasi loro valenza culturale per venderli più semplicemente e rapidamente sul mercato del turismo massificato? Non è che pensando di essere tanto bravi a esaltare la bellezza di quei luoghi in verità chi li promuove finisce per esserne l’inesorabile giustiziere?

Forse Anna Rizzo ha ragione: i borghi d’Italia, ovvero in generale i suoi luoghi di pregio, vanno salvati, sì, ma innanzi tutto da chi li vuole – e pretende di – “valorizzare”. Prima di doversi rammaricare della loro definitiva decadenza, già.

Cronache del cambiamento (climatico): mai così poca neve, sulle Alpi

[Foto di Alexander Hipp su Unsplash.]

Dal Quattrocento all’inizio del Novecento il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi sono state coperte di neve è stato più o meno costante. Poi nell’ultimo secolo è via via diminuito e la media degli ultimi vent’anni è inferiore di 36 giorni a quella dei precedenti 600 anni. Sono le conclusioni di uno studio realizzato da un gruppo di ricerca dell’Università di Padova e dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (ISAC) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) di Bologna, appena pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature Climate Change.
Il gruppo ha analizzato gli anelli di accrescimento di una serie di ginepri vivi e morti cresciuti in Val Ventina, una valle laterale della Valtellina, in provincia di Sondrio, cresciuti ad altitudini comprese tra 2.100 e 2.400 metri sul livello del mare. Confrontando le informazioni ottenute in questo modo con i dati meteorologici disponibili, gli scienziati sono riusciti a stimare i cambiamenti nella durata del manto nevoso dal Quattrocento in avanti. «Ciò ci ha permesso di comprendere che quello che stiamo vivendo negli ultimi anni è qualcosa che non si era mai presentato precedentemente», hanno concluso l’ecologo forestale Marco Carrer dell’Università di Padova e Michele Brunetti dell’ISAC. È il primo studio che dà informazioni riguardo ai giorni con la neve sulle Alpi andando tanto lontano nel tempo.

[Dall’articolo Sulle Alpi non ci sono più i giorni di neve di una volta pubblicato su “Il Post” il 13 gennaio 2023. Cliccate sull’immagine per leggere nella sua interezza.]

Ora, ovviamente, ci aspettiamo che gestori dei comprensori sciistici, amministratori pubblici ad essi sodali, difensori a spada tratta dello sci su pista sempre-e-comunque e negazionisti climatici vari diano degli “ambientalisti estremisti”, dei “catastrofisti” o dei “terroristi climatici” anche ai ginepri e agli altri arbusti delle Alpi. Ecco.

Un ragionamento sempre più necessario, «oltre le tifoserie»

Mi è sembrato fosse necessario, all’inizio di questo 2023 di tragedia climatica, aprire una riflessione sul futuro dello sci, del turismo invernale, dell’accoglienza, e in particolare ancora dell’innevamento artificiale alla luce dei cambiamenti, appunto, climatici. Seria e laica. Ho detto che dobbiamo avere una sede chiara per farlo, per aprire questa riflessione, permanente (perché non si esaurisce e non è tra centro-destra e centro-sinistra, tra tifosi, tra maldestri fautori dell’una o dell’altra posizione, si o no contro sci, inverno caldo, innevamento con cannoni). La sede può essere (se non Palazzo Chigi), il Ministero del Turismo, insieme con il Ministero dell’Ambiente, quello degli Affari regionali che ha la competenza in materia montagna. Oltre le logiche negativiste e partitiche. […]
Per tornare agli impianti di risalita, occorre valutare dove e come (farne altri e potenziare gli esistenti), oltre demagogia e facili luoghi comuni. Il dramma climatico che stiamo vivendo non lascia scampo. E con il Governo, con le Commissioni parlamentari che hanno specifica competenza, in sede istituzionale, è necessario un ragionamento oltre schemi e ‘si è sempre fatto così’. Fare come abbiamo sempre fatto, bene o male che fosse, su sport invernali, sci e innevamento programmato, turismo nelle Alpi e negli Appennini, potrebbe non avere senso di futuro, imbrigliando montagna e turismo in una strategia del passato. Noi vogliamo stare nel futuro. Senza rischiare di sprecare milioni e milioni di euro per un investimento a perdere nel bel mezzo della tragedia climatica che ancora qualcuno nega.

Questi sono alcuni passaggi dell’intervento di Marco Bussone – Presidente dell’Uncem, Unione Nazionale Comuni e Enti Montani, dal titolo Oltre le tifoserie pubblicato sul suo sito web il 7 gennaio 2023, e ampiamente ripreso da molti organi di stampa.

Un intervento importante da parte di una figura istituzionale dell’ambito montano nazionale, che nuovamente palesa la necessità ormai inderogabile in carico a tutti i soggetti che operano nei territori di montagna di riflettere attentamente quando non di ripensare radicalmente la frequentazione turistica invernale sui monti, alla luce delle realtà attuali e future climatiche, ambientali, ecologiche, economiche, sociali, culturali. Una necessità che significa futuro, come segnala anche Bussone, quando viceversa ignorarla significa oblio pressoché inevitabile, per le montagne e per le loro comunità.

Cliccate sull’immagine in testa al post (tratta dallo stesso sito web di Marco Bussone) per leggere l’intervento nella versione integrale.