

P.S. – Pre Scriptum: l’articolo che state per leggere ho cominciato a scriverlo a fine gennaio scorso, per poi affinarlo nelle settimane successive. Ora lo pubblico ma mi fa piacere leggere di alcune iniziative che vanno esattamente nella direzione sulla quale qui ho scritto, ma non per chissà quale preveggenza, semmai per naturale buon senso. Di esse ve ne parlerò nei prossimi giorni, intanto vi invito a farmi sapere che pensate di quanto leggerete ora.
Forse già sapete o avrete sentito dire che, nella gestione dei corsi d’acqua e degli ecosistemi relativi, uno dei fattori fondamentali da considerare è il “Deflusso Minimo Vitale” (DMV), cioè «la portata istantanea da determinare in ogni tratto omogeneo del corso d’acqua, che deve garantirne la salvaguardia delle caratteristiche fisiche, di quelle chimico-fisiche delle acque nonché il mantenimento delle biocenosi tipiche delle condizioni naturali locali.»
Ecco, proprio in forza di una definizione del genere e contestualizzandola alla montagna, verso la quale – o, per meglio dire, verso alcune delle sue località più rinomate – sovente si dirigono fiumi di turisti la cui presenza genera situazioni e circostanze non esattamente contestuali ad un territorio montano pur variamente antropizzato, mi viene da pensare che come per i fiumi si considera il suddetto “Deflusso Minimo Vitale”, per certa montagna si dovrebbe considerare un AMV, “Afflusso Massimo Vitale”: «la presenza antropica istantanea da determinare in ogni zona omogenea di un certo territorio montano, che deve garantirne la salvaguardia delle caratteristiche fisiche, ambientali, paesaggistiche, culturali, nonché il mantenimento dell’ambiente identitario generato dalle condizioni naturali e antropiche locali» – per abbozzare una definizione sulla falsariga dell’altra.
Troppo spesso ho la netta e inquieta sensazione che molti progetti di sviluppo turistico (non solo tali, ma soprattutto) concepiti per la montagna basino grandemente i risultati riguardanti frequentazione prevista su fattori di quantità e non di qualità, in base alla elementare equazione «più gente va in montagna = più guadagna chi ci lavora = più successo ha il progetto». Ciò, dunque, senza minimamente considerare, apparentemente, quanta presenza di visitatori occasionali, con tutti gli annessi e connessi relativi, possa sopportare un luogo e il suo territorio senza che quella presenza diventi un danno e una forma di degrado degli stessi. Sono principi, ad esempio, parecchio utilizzati dall’industria dello sci alpino, che punta a ottimizzare i propri tornaconti e a sostenersi finanziariamente proprio sulla massa di sciatori che è in grado di accumulare in un certo comprensorio, l’efficienza dei cui impianti di risalita, guarda caso, viene misurata in primis dalla portata oraria. Col risultato che sì, da un lato per prendere la funivia non ci sono più code, ma dall’altro le piste di discesa presentano un affollamento che nemmeno Piazza Duomo a Milano la domenica pomeriggio. Ma intanto all’uopo si allargano le strade, si costruiscono enormi parcheggi e locali al servizio degli sciatori grandi come centri commerciali, si cementificano spazi naturali eccetera. Tutte cose, inutile dirlo, che non c’entrano nulla né con il paesaggio della montagna, né con il suo ambiente e nemmeno con la cultura, di contro trasformando certe località montane iperturistificate in mere riproduzioni di ambiti metropolitani privi di identità: veri e propri non luoghi montani, insomma.
Senza cadere in passatismi di sorta, peraltro ingiustificati e incoerenti con la realtà contemporanea, viene comunque da pensare a certe pratiche di gestione della montagna d’un tempo, intrise di saggezze secolari e saperi solidamente basati su esperienze condivise. Le vaccate, ad esempio, dette anche erbate, ovvero la quantità di capi monticabili in un certo alpeggio, dato che ne contraddistingueva la funzionalità e il valore nonché il cui rispetto era un elemento vincolante per l’assegnazione e la gestione della relativa malga. Se quell’alpeggio poteva ospitare cinquanta vacche, non se ne potevano monticare cinquantuno. Fine, senza se e senza ma. Una questione di salvaguardia della vitalità dell’alpeggio e al contempo degli animali ospitati, in un equilibrio funzionale e benefico per entrambi. Perché non utilizzare un tale principio ovvero la semplice ma profonda saggezza che vi sottende, ripensata e contestualizzata agli spazi antropizzati sottoposti a frequentazione turistica, dunque a una presenza superiore a quella determinata dagli abitanti stanziali? Perché la qualità (in diverse accezioni del termine) del territorio montano deve essere soggiogata alla quantità di chi dovrebbe frequentarlo, senza che tra i due elementi vi possa essere una correlazione funzionale determinata dalle peculiarità del territorio stesso e dalle possibilità pratiche di accoglienza, cioè da un dato concreto che potrebbe ben definirsi l’AMV, “Afflusso Massimo Vitale” di quel luogo?
So bene che tutto ciò possa apparire fin troppo idealista quando invece, pensateci bene, è un concetto assolutamente naturale e pragmatico; d’altronde, so altrettanto bene che la matrice materialista di certo turismo di massa contemporaneo che punta senza troppi patemi all’overtourism (si veda il caso recente delle Cinque Terre con la conseguente e inevitabile «nemesi», come ha detto bene Maurizio Maggiani) pur di conseguire i tornaconti desiderati si palesa ormai indubitabilmente come una forma di depredazione dei territori di pregio e dunque anche di quelli montani, dei loro paesaggi, della bellezza, dell’identità e della cultura che li caratterizza, dunque la fonte di un inevitabile degrado che altrettanto inesorabilmente porta alla fine dei luoghi, con tutto ciò che ne consegue per la comunità che li vive, probabilmente illusa dai promotori di quel turismo massificato che la gran massa di persone avrebbe significato una pari gran massa di denari guadagnati e di conseguente benessere – esattamente come accadde in centinaia di località montane turistificate dal dopoguerra in poi e oggi fallite sia economicamente che socialmente e ambientalmente. Oggi non può essere più accettabile una sorte del genere, per la montagna, che invece merita di riguadagnare finalmente e totalmente la propria dignità sia nel panorama politico che in quello culturale, salvaguardando la propria identità da un lato e alimentando dall’altro la vitalità socioeconomica locale, per la quale il turismo può ben essere un supporto efficace e benefico ma solo se totalmente sostenibile dal territorio, dunque tanto ambientalmente quanto antropologicamente. Questa, in fin dei conti, è la vera sostenibilità per la montagna, ciò che può garantirle un futuro equilibrato a lungo a favore di chiunque la possa e potrà frequentare, da abitante o da turista ma, in ogni caso, in compiuta armonia con il suo paesaggio.