Lunedì 24 aprile su “Sondrio Today”

[L’alpe dell’Oro, in alta Valmalenco, di fronte allo spettacolare versante nord del Disgrazia. Foto tratta da https://lemontagne.net/events/chiareggio-alpe-oro/.]
Lo scorso 24 aprile 2023 “Sondrio Today” ha pubblicato le mie considerazioni in tema di presente e futuro del turismo sulle nostre montagne elaborate a seguito – e non «in risposta» o «per ribattere» o altro del genere, lo sottolineo subito – dell’intervista al direttore del Consorzio turistico Sondrio e Valmalenco, Roberto Pinna, al quale va il mio più consono rispetto e la stima generale per il lavoro svolto; cliccate sull’immagine qui sotto per leggere l’articolo e ringrazio di cuore la redazione per la considerazione e lo spazio concessomi.

Il dibattito conseguente, che trovate sui profili social della testata valtellinese, è al solito vivace pro e contro il sottoscritto e quanto espresso: va benissimo così, l’importante, come ogni volta rimarco, è che le critiche anche feroci siano sempre costruttive e mirate non tanto contro qualcuno ma a favore di qualcosa, ovvero delle montagne, delle genti che le abitano e del loro buon futuro.

Per il resto – altra cosa che ribadisco ad ogni buona occasione – in montagna si può fare pressoché qualsiasi cosa, basta farla con buon senso e con la consapevolezza di sapere pienamente ciò che si fa, ancor più se la si fa sulle montagne, patrimonio di inestimabile valore e bellezza che è di tutti noi e che per questo ciascuno ha il diritto e il dovere di conoscere, tutelare e averne cura.

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La Valmalenco, i giornali cinesi e il futuro del turismo

[Veduta panoramica dell’alta Valmalenco con in primo piano il Lago Palù. Immagine tratta da www.avventuramente.com.]
Trovo sempre interessante e significativa la lettura degli interventi sui media degli operatori dell’industria dello sci e dei soggetti politico-economici ad essa legati, ovviamente in bene e in male stante le mie opinioni su tali temi per la cui costante rifinitura nutro l’interesse suddetto. Poi tali letture di frequente mi fanno sorgere, a margine di esse e dei loro contenuti, divertite suggestioni: ad esempio, dopo aver letto l’intervista di Roberto Pinna, direttore del Consorzio Turistico Sondrio e Valmalenco pubblicata da “Sondrio Today” lo scorso 5 aprile (la potete leggere anche cliccando sull’immagine lì sotto), e dopo l’ascolto alla radio una rassegna della stampa internazionale la mattina successiva, m’è venuto di correlare la prima agli organi di informazione cinesi e al loro peculiare modo di diffondere le notizie. Sia chiaro, lo dico con il massimo rispetto per il direttore Pinna e con ovvio tono ironico, il quale tuttavia non lede la sostanza argomentativa alla base di quanto sto scrivendo.

Mi spiego: nell’intervista il direttore Pinna – figura certamente capace per il ruolo che ricopre – esprime considerazioni alle quali ci si può certamente trovare concordi. Come quando afferma che «Molte voci si augurano una transizione verso un’altra industria del turismo invernale in montagna, dove non tutto ruoti attorno alla neve. Un modello diverso rispetto a quello che si è imposto negli ultimi anni e che comunque non potrà essere realizzato dall’oggi al domani»: vero, infatti siamo già in ritardo con lo sviluppo di questa transizione, che va assolutamente accelerata. O quando osserva che «È vero che gli sport invernali, elemento di punta dell’offerta turistica, dipendono fortemente dall’affidabilità della neve ed è quindi importante comprendere gli impatti e i rischi dei cambiamenti climatici per una efficace progettazione di politiche e strategie di gestione del rischio», evidenza ormai lapalissiana. Oppure ancora quando dice che «Per il Consorzio, sarà cruciale sostenere strategie basate sulla diversificazione delle attività […] Analizzare, ripensare, investire, convertire dovrebbe essere l’unico modo operandi per un territorio montano […] Non abbiamo impianti di risalita che in estate diano buoni gettiti e risultati: investiamo dunque nella promozione, il territorio investa, su quei punti per coprire anche quei gettiti estivi che non sono sufficienti all’apertura, agevoli una trasformazione dell’arroccamento, unito alla ricettività»: tutte cose giuste, sembra proprio che il direttore si ponga perfettamente al fianco di chi già da tempo invoca e promuove un cambiamento profondo dei paradigmi turistici montani atto alla redistribuzione più equilibrata della frequentazione della montagna, d’altro canto inevitabile vista la realtà climatica in divenire e delle numerose variabili economiche, ecologiche, sociali, culturali che oggi ben più di ieri pesano sulle modalità di gestione del turismo nei territori montani (e non solo lì).

Altre osservazioni del direttore Pinna sono invece discutibili («L’innevamento artificiale rappresenta ancora oggi la strategia di adattamento dominante», classica “non verità”, cioè affermazione sostenibile solo se considerata in modo parziale e per sé stessa – peraltro non trattandosi di “strategia”, si legga la definizione del termine su un buon vocabolario – ma molto meno ragionevole se contestualizzata alla realtà oggettiva delle cose e al loro divenire) tuttavia ci sta, ci mancherebbe: il direttore osserva le cose dal suo punto di vista e in base alle proprie convenienze, legittimamente.

Ma ecco che, sul finale dell’intervista, scatta l’apparente “giravolta”: «A chi mi dice, allora si dovranno investire meno risorse nel turismo invernale, dico che ne servono di più. Ricordiamoci sempre che, se si vuole ripensare a un sistema, si dovrà includere e non escludere». Ma come? E le strategie basate sulla diversificazione delle attività? E l’analizzare, ripensare, investire, convertire? Il territorio che deve investire per coprire anche quei gettiti estivi che non sono sufficienti all’apertura? Tutte queste opportune considerazioni e poi alla fine si pretende che si investa ancora più di prima sul turismo invernale (il che, lo sanno anche i sassi ormai, significa una cosa sola)? E dunque con quali soldi si penserebbe poi di investire in quello estivo, sulla diversificazione delle attività, sullo sviluppo di modelli turistici diversi e più consoni alla realtà climatica e economica di oggi e di domani, visto che non siamo ricchi come la Svizzera o l’Arabia Saudita e già oggi l’industria dello sci assorbe la stragrande maggioranza degli investimenti?

Ecco: come dicevo all’inizio, sembra proprio di leggere le notizie dei giornali cinesi, espressione diretta della propaganda del potere ovvero della sua palese ambiguità (si consideri la posizione della Cina rispetto alla guerra in Ucraina, ad esempio). Che è parimenti l’espressione delle mire geopolitiche cinesi: legittima solo dal loro punto di vista ma equivoca da qualsiasi altro. Insomma: a leggere le parole del direttore Pinna viene da pensare che si voglia far credere qualcosa ma, in fine dei conti, si miri a qualcos’altro; o, per dirla gattopardianamente, si finga di voler cambiare tutto ma si punti a non voler cambiare nulla, come se nulla stesse accadendo – non solo dal punto di vista climatico – e come se null’altro potesse importare e abbisognare alla montagna e alla sua comunità residente nell’ottica di uno sviluppo complessivo e strutturato del territorio. Ovvero come se non si volesse considerare null’altro che non sia il proprio business – “proprio”, non della montagna, sottolineo di nuovo. Legittimo, certamente, che si sia d’accordo o meno. Ma quanto può stare ancora in piedi questa ambiguità? Spero a lungo, per certi versi, ma se così non dovesse andare come purtroppo innumerevoli report scientifici fanno temere parimenti ad altrettante analisi di natura socioeconomica e culturale, che ce ne faremo di tutti quegli investimenti rivelatisi fallimentari? Tentare quanto meno di dare corso a certe considerazioni e avviare veramente un modello che includa ogni sviluppo turistico – anche quello sciistico, certo, ma non più dominante come quasi nemmeno i cinesi saprebbero fare! – il più possibile svincolato dalle variabili climatiche o di altro genere e in grado di costruire un futuro ben più sicuro di quello che oggi può assicurare l’egemonia dell’industria dello sci?

Se si vuole che il turismo continui a restare una risorsa importante e un sostegno proficuo per i territori montani, lo sviluppo e la programmazione delle sue attività devono necessariamente avere un visione temporale a medio-lungo termine e una capacità di inclusione innanzi tutto della comunità residente e del suo intero tessuto socioeconomico, le cui filiere locali vanno sostenute a fianco del comprato turistico e in modi equilibrati ad esso, proprio per garantire nel tempo alla comunità una certa indipendenza economica, dunque anche sociale: che non sarà totale, senza dubbio, e la quale dunque potrà essere ben supportata dal turismo o da altre attività affini. Ma è questa la via migliore (forse l’unica?) per costruire il futuro dei territori montani, senza ambiguità in stile cinese e con profonda consapevolezza della realtà nella quale si opera, su scala locale tanto quanto generale. Includere, non escludere: è bene che tali belle e giuste parole diventino fatti altrettanto belli e concreti. Speriamo di riuscirci, tutti insieme.

Sylvain Tesson, “La Pantera delle Nevi”

Come la precedente qui pubblicata, anche questa che state per leggere è una “recensione” sui generis. Questo perché qualche tempo fa ho letto La Pantera delle Nevi, il libro di Sylvain Tesson (Sellerio Editore, 2020, traduzione di Roberta Ferrara; orig. La panthère des neiges) per presentare l’omonimo film uscito nelle sale italiane lo scorso ottobre, dunque per diversi aspetti ciò che ne ho scritto rappresenta una “recensione” sia del libro che della pellicola – cosa che peraltro ci sta, vista la stretta correlazione narrativa, espressiva e artistica tra le due opere. Per lo stesso motivo, se quanto leggerete potrà interessarvi – come mi auguro – al libro, l’invito è comunque quello di vedere prima o poi anche il film, così da rendere completa e compiuta la conoscenza de La Pantera delle Nevi e l’importante esperienza che senza dubbio ne trarrete.

Ma partiamo dalla protagonista assoluta: la pantera delle nevi, o leopardo delle nevi / Panthera uncia: “uncia” deriva dal francese once (italianizzato in onza) inizialmente usato per indicare la lince europea e poi in generale i felini delle dimensioni della lince. Venne individuata per la prima volta nel 1775 da un naturalista tedesco, Johann Christian Daniel von Schreber. Nonostante il suo nome ordinario “leopardo”, è più imparentata con la tigre che con il leopardo propriamente detto.

La pantera delle nevi è uno degli animali più elusivi e misteriosi del mondo, al punto che non se ne conosce con precisione la quantità. Ce ne dovrebbero essere ancora 4-6.000 individui dei quali solo 2.500 in età riproduttiva, dunque è una specie sicuramente in pericolo. È stata a lungo cacciata per la sua pelliccia e solo dagli anni ’80 è protetta in modo ampio. Ma tutt’oggi deve affrontare numerose minacce antropiche: oltre al bracconaggio e alla caccia di frodo, la mancanza di salvaguardia dell’ambiente naturale e le attività industriali-minerarie che disturbano la vita della pantera e la allontanano da molte aree del suo habitat tipico. Il fotografo Vincent Munier e l’autore Sylvain Tesson partono nel 2018, con la regista Marie Amiguet e un collaboratore, per un viaggio di circa un mese negli altipiani tibetani, a quote tra i 4 e i 6000 metri e temperature raramente superiori ai -20° C, alla ricerca della misteriosa creatura… Perché proprio la pantera delle nevi? Perché la sua elusività e il mistero che l’accompagna, nel nostro mondo contemporaneo iperantropizzato, ultratecnologico e che pensiamo/crediamo di conoscere sotto ogni aspetto, simboleggia come poche altre cose ancora la natura selvaggia e un ambito vitale nel quale l’uomo è quasi del tutto assente, dunque un abito che preserva caratteristiche biologiche ma anche filosofiche intatte da decine di migliaia di anni []

[Sylvain Tesson, a destra, con Vincent Munier in una scena del film.]
(Potete leggere la recensione completa de La Pantera delle Nevi cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

COP 27?

In Egitto, paese noto tanto per la difesa dell’ambiente quanto dei diritti umani, è in corso la COP 27, l’ennesima conferenza sul clima nella quale si sta discutendo come non superare un certo aumento delle temperature sul pianeta oltre il quale formalmente siamo già andati da tempo e che tutto sommato resta l’appuntamento principale, a livello globale, per poterci illudere che si stia realmente facendo qualcosa, per i cambiamenti climatici – se a favore o contro non si capisce ancora bene.
In ogni caso forse molti si chiederanno: ma l’acronimo “COP” che significa?
Provo a suggerire qualche ipotesi:

Conferenza
Obiettivamente
Puerile

Circostanza (per)
Ostentare
Pochezza

Club (di)
Oltranzisti (delle)
Perversioni

Combutta (per)
Oltraggiare (il)
Pianeta

Congresso (degli)
Oppressori
Paludati

Convegno
Organizzato
Pernulla
(licenza lessicale)

Cassœula
Oss büs
Panetùn
(ipotesi tuttavia valida non per quella in corso ma per una futura edizione milanese della conferenza)

Crapula,
Orge (e)
Porcherie

Magari anche voi avete ipotesi da suggerire al riguardo?

Il selvaggio ci tiene d’occhio

Il giardino dell’uomo è popolato di presenze. Non sono ostili ma ci tengono d’occhio. Niente di quello che facciamo sfugge alla loro attenzione. Gli animali sono i guardiani del giardino pubblico, dove l’uomo gioca col cerchio credendosi il re. Era una scoperta, e nemmeno tanto sgradevole. Ormai sapevo di non essere solo.
Séraphine de Senlis era una pittrice dell’inizio del XX secolo, un’artista per metà pazzoide e per metà geniale, un po’ kitsch e non molto quotata. Nei suoi quadri, gli alberi erano cosparsi di occhi spalancati.
Hieronymus Bosch, il fiammingo dei retromondi, aveva intitolato una sua incisione Il bosco ha orecchi, il campo ha occhi. Aveva disegnato dei globi oculari sul terreno e due orecchie umane sul limitare di una foresta. Gli artisti lo sanno: il selvaggio vi tiene d’occhio senza che ve ne accorgiate. Quando il vostro sguardo lo scopre, lui sparisce.

[Sylvain TessonLa pantera delle nevi, Sellerio, 2020, traduzione di Roberta Ferrara, pagg.50-51; orig. La panthère des neiges, 2019.]

N.B.: nell’immagine in testa al post, scattata dal fotografo naturalista francese Vincent Munier e tratta dal docufilm La pantera delle nevi, del quale ho scritto (e non solo) qui, c’è un animale selvaggio che vi sta guardando dritto negli occhi. Lo vedete?