Una bambina di quasi cinque anni

La bambina ritratta in questa fotografia, datata 6 luglio 1946, si chiama Egea Haffner. Non ha ancora cinque anni e sta lasciando la città dove è nata, Pola, per iniziare un lungo viaggio da esule, scacciata dalla sua terra dalle milizie comuniste agli ordini del Maresciallo Tito.

L’anno prima, una sera, sente bussare alla porta di casa. Tre colpi secchi. La madre sta cucinando. Altri tre colpi, il padre Kurt Haffner apre la porta. «Dov’è Kurt Haffner?» dice uno dei tre uomini che si trova di fronte. «Sono qui», risponde il padre. «Ci deve seguire al comando. Solo un controllo» gli fanno i tre uomini. Sono membri dell’OZNA, la polizia politica di Tito. Kurt non è un fascista e non ha mai collaborato con il regime mussoliniano, in famiglia non capiscono perché lo stiano cercando. Mette al collo una sciarpa di seta blu a quadrettini, saluta la moglie e la piccola Egea e va con loro. Non tornerà mai più.

Qualche tempo dopo, e prima dell’esilio, Egea e la madre vedono in centro a Pola un gruppi di miliziani titini. Uno di essi ha al collo la stessa sciarpa di seta blu a quadrettini. E capiscono cosa è accaduto a Kurt.

Egea si è salvata, oggi vive a Rovereto. Invece altri bambini come lei, insieme a migliaia di donne e uomini giuliano-dalmati di cittadinanza italiana, moriranno nelle foibe e nei campi di concentramento iugoslavi.

Questo è il mio pensiero minimo in occasione del Giorno del Ricordo 2024.

Come in occasione del Giorno della Memoria, lo scorso 27 gennaio, il mio pensiero l’ho voluto dedicare ai bambini. Perché sono gli adulti che da sempre si prendono la “libertà” e si arrogano il “diritto” di deportare, uccidere, massacrare, commettere crimini e atrocità di ogni genere e sorta ma poi sono i bambini che cresceranno nel mondo devastato da quegli adulti e ne subiranno le conseguenze. E questa, come ho già rimarcato per il Giorno della Memoria, è l’inesorabile garanzia di ulteriori e crescenti efferatezze future contro altre donne, altri uomini, altri bambini.

Riuscirà a capirlo la “civiltà” umana, prima o poi? Per il momento sembra proprio di no.

(Le informazioni sulla vicenda di Egea Haffner sono tratte da https://ilbolive.unipd.it.)

Le Breuil?

P.S. – Pre Scriptum: visto l’inopinato interesse sorto negli ultimi giorni intorno al toponimo Breuil, in forza del dibattito – invero piuttosto grottesco – sul paventato cambio di nome di Cervinia, ripropongo un post dello scorso anno nel quale ne scrivevo in merito ad un altro toponimo simile, che anche in questi giorni qualcuno ha voluto correlare al primo per assonanza lessicale ma pure – ironicamente -per gli effetti di ciò che commercialmente identifica cagionati ai suddetti Vótornèn (in patois gli abitanti della Valtournenche nel cui territorio si trova Cervinia).

Buona (ri)lettura!

Un amico che sa della mia malsana passione per la toponomastica mi chiede se vi sia qualche attinenza etimologica tra i toponimi di forma e suono molto simili relativi a due località alpine parecchio distanti tra di loro: Breuil, ovvero il villaggio “sul” quale è sorta Cervinia, in Valle d’Aosta, e Braulio, monte e valle (con torrente) tra Bormio e il Passo dello Stelvio in Lombardia.

La domanda è legittima perché accade spesso che toponimi di luoghi anche molto lontani tra di loro, aventi forme lessicali simili oppure differenti dacché adattate agli idiomi locali ma con antiche radici comuni, risultino parimenti dotati dello stesso significato. Nel caso specifico però la risposta è no: il valdostano Breuil è un toponimo derivato dalla voce franco-provenzale breuil o braoulé, che indica i piani paludosi di montagna, cioè l’aspetto che probabilmente un tempo aveva il fondovalle della conca alla testata della Valtournenche ove oggi sorge Cervinia; il lombardo Braulio, invece, un tempo scritto anche nelle forme Braulii o Mombragli e la cui radice è la stessa di un’altra montagna della zona, il Piz Umbrail (a volte italianizzato in Ombraglio), è un toponimo il quale sembra richiamare l’ombra che caratterizza la media e bassa valle omonima, un canyon incassato e profondo più di 800 metri rispetto alle creste delle cime circostanti. Il “Monte dell’Ombra”, insomma.

In ogni caso, che abbiano origini e significati comuni o differenti, fateci caso a quanto siano affascinanti i toponimi, specialmente quelli di luoghi così carichi di storie, bellezze, fascini, narrazioni, peculiarità geografiche, ambientali e paesaggistiche come quelli di montagna. Come sostengo spesso al riguardo, il toponimo è un piccolo e immateriale scrigno che sa custodire un sacco di tesori culturali sempre pronti da scoprire, leggere, conoscere e dai quali farsi illuminare nonché, come ha scritto Paolo Rumiz ne La leggenda dei monti naviganti, è una garanzia affinché ci siano sempre i luoghi, cioè quegli ambiti che sono il frutto della relazione tra il territorio, le sue caratteristiche e le genti che nel tempo lo hanno attraversato, vissuto, abitato, modificato. Per questo conoscere i toponimi e ciò che custodiscono è un po’ conoscere i luoghi che identificano in un modo tanto immediato quanto inaspettatamente profondo. Abbiatene sempre cura, dunque: il loro valore è realmente inestimabile!

(Cartolina in alto: il Breuil intorno al 1900; fonte www.comune.valtournenche.ao.it. Cartolina in basso: la valle del Braulio con la strada che da Bormio sale al Passo dello Stelvio; foto di Philip Pikart, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.)

Per salvare le montagne, bisogna rifare i montanari

Attorno al 1950, si riaffacciò il turismo, che da noi aveva avuto inizio al principio del secolo. Nacquero i primi impianti di risalita. Gli ex campioni divennero maestri di sci, i contadini con i cavalli e le slitte addobbate a festa trasportavano i turisti dalla stazione agli alberghi, ai campi di sci. […] Le botteghe del fabbro, del maniscalco, del sarto diventarono boutique; le osterie bar; le trattorie tavole calde; i negozi di alimentari gastronomie; gli erbivendoli “frutteria esotica”; si aprirono supermercati e negozi sportivi, discoteche, gallerie d’arte. Ma insieme venne la speculazione edilizia delle seconde case e dei condomini: sembrava che un fiume di denaro risalisse verso la montagna per portare ricchezza a tutti. Ma chi consigliava prudenza o presentava pericoli veniva irriso. […]
Bisogna rifare i montanari. Le Alpi saranno una risposta a una sfida: sfida della natura e del mondo moderno. Nei secoli passati la gente trovò nelle montagne un luogo per continuare a vivere e lavorare in pace; avvicinandoci al 2000 ancora sulle montagne l’uomo troverà rifugio per superare un sistema che disumanizza e che lascia poco spazio a quelle che sono le vere ragioni dell’esistenza: l’amore, la socialità, il lavoro ben fatto. La montagna è diventata una terra da conquistare per vivere meglio.

Mario Rigoni Stern, che non abbisogna di presentazioni né come autore letterario e uomo di cultura né come uomo di montagna, del suo Altopiano ma non solo, pronunciava le parole che avete letto durante il proprio intervento quale ospite di un convegno internazionale sui problemi delle terre alte al Teatro Toselli di Cuneo nel gennaio 1989 (lo ricorda “La Stampa” qui). Parole di quasi trentacinque anni fa che risultano assolutamente consone anche al nostro presente, anzi, se possibile ancor di più visto come la montagna resti tutt’oggi una terra da conquistare da parte di chi vorrebbe ancora imporle quei modelli novecenteschi di sviluppo consumistico i cui danni tremendi già decenni fa risultavano evidenti – da questa presa d’atto nasce anche la denuncia di Rigoni Stern – ma che invece molti, troppi amministratori pubblici con competenza politica sui territori montani non sanno e non vogliono vedere. Insieme a questi, purtroppo vi sono parecchi montanari che ancora accettano di sottomettersi a logiche economico-politiche totalmente fallimentari e di svendere le proprie montagne all’assalto della turistificazione più becera, che alimenta in un circolo vizioso quel sistema di sperpero di denaro pubblico a fini elettorali con il quale si installano ponti tibetani, panchine giganti, ciclovie che distruggono antiche mulattiere, strade e parcheggi in quota, impianti di innevamento artificiale che consumano le risorse idriche naturali e altre infrastrutture similmente orribili e pericolose per il bene e il futuro delle montagne.

«Bisogna rifare i montanari», aveva ben ragione Rigoni Stern, lui autentico e compiuto montanaro come pochi altri, a lanciare quel suo appello: bisogna rifare i montanari prima che certa politica “rifaccia” le montagna a imitazione delle città più degradate e soltanto per renderle funzionali alle loro mire di potere, prima che le banalizzi, le degradi e le consumi pur di venderle al turismo di massa, totalmente indifferente al loro futuro e a quello delle comunità che le abitano.

[Una suggestiva veduta notturna dell’Altopiano dei Sette Comuni. Foto di Hime Sara, Opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]
Tuttavia quell’appello, come anche ricorda l’articolo de “La Stampa” sopra linkato, non è caduto nel vuoto: sempre più persone, montanare e non, si stanno rendendo conto della pericolosità di quanto sta avvenendo sulle montagne e non accetta più di subirne le conseguenze: nel Vallone delle Cime Bianche, al Lago Bianco del Passo di Gavia, sul Monte San Primo, al Passo della Croce Arcana sull’Appennino modenese oppure nei siti olimpici ove si vorrebbero realizzare lavori tanto costosi quanto impattanti e inutili – la pista di bob di Cortina è l’esempio massimo al riguardo… e sono solo alcuni dei casi citabili in merito alla crescente presa di coscienza collettiva riconducibile all’appello di Rigoni Stern. Solo la politica non vuole rispondere, rimanendo cieca e sorda alla realtà dei fatti e al sentore comune, insensibile al buon futuro delle montagne e alla salvaguardia della loro bellezza. Perché?

Cogliere la bellezza, trascurare la bruttezza

[Sui monti sopra casa qualche giorno fa, verso le 21.]
A volte anche Loki, quando insieme giungiamo in qualche punto dal quale il panorama si apre e la veduta sul mondo d’intorno si fa sublime, sembra essere sensibile come me a cotanta bellezza. Chissà come la percepisce e in che modo la comprende, che impressioni e che suggestioni ne ricava. Mi piace credere che anche gli animali posseggano un proprio concetto di “bellezza”, coniugato in modi del tutto incomprensibili per noi ma comunque logico per loro. E nulla mi può far ritenere che sia meno profondo dell’ideale umano, peraltro, al netto della fantasiosa suggestione dalla quale questo mio pensiero si forma.

In effetti ogni volta mi sorprendo, di fronte a tali visioni di bellezza e forse con inguaribile ingenuità (ma non me ne vergogno affatto), di non trovarmi circondato da tanta altra gente, lì come me a godersi lo spettacolo e a riempirsi il cuore e l’animo della beatitudine che ne scaturisce. D’altro canto mi compiaccio di restarmene solitario lassù, senza alcun disturbo alla mia contemplazione che per ciò ne guadagna, e condividerla con Loki è una suggestione bizzarra ma piacevole.

Mi tornano in mente i versi di una poesia di Wisława Szymborska che in verità parla di guerra, ma nella quale si può leggere che

Questo orribile mondo non è privo di grazie,
non è senza mattini
per cui valga la pena svegliarsi.

Perché anche nel corso di una tragedia come la guerra bisogna trovare qualcosa per la quale si possa coltivare la speranza che non tutto è perduto, anzi, che vi siano più cose belle per le quali vivere e svegliarsi la mattina che brutte. Per quanto mi riguarda, la bellezza del paesaggio – un tesoro inestimabile, abbondante e sempre a disposizione, peraltro – me ne dà la certezza.

Il problema, temo, è che siamo portati a dare sempre troppa importanza e considerazione alle cose brutte invece che a quelle belle: la quali, anche se formano la gran parte della realtà, vengono nascoste dalle prime che solitamente sono tali anche perché eclatanti, rumorose, sbalordenti, sguaiate, grossolane, cafone, triviali… tutte deformità e colpe che chissà come mai incuriosiscono e attraggono, appunto. Nei talk televisivi su quelli che dibattono educatamente “vince” chi urla e strepita, sui giornali tra i titoli in caratteri ordinari prevale quello a caratteri cubitali, nel paesaggio antropizzato tra numerose opere ben fatte attrae lo sguardo quella maggiormente decontestuale. Anche in montagna capita spesso di vedere moltitudini affascinate da attrazioni fuori luogo e francamente volgari, dunque sostanzialmente brutte, e di contro incapaci di osservare e comprendere realmente il luogo che hanno intorno e la sua bellezza, al punto da ottenere uno sconcertante ribaltamento della realtà: ciò che è palesemente brutto viene creduto bello e ciò che è manifestamente bello non viene considerato, come fosse qualcosa di brutto.

È vero, il mondo nel quale viviamo è troppo spesso «privo di grazie», è maleducato, incivile, degradato, violento, pericoloso, ma al di fuori di tali manifestazioni vi è così tanta grazia, così tanta bellezza da cogliere e della quale godere che veramente perdersi dietro le sue dis-grazie non è solo inutile e nocivo ma pure parecchio stupido. «La bellezza salverà il mondo», senza dubbio, ma a patto che noi sapremo coglierla e comprenderla ignorando definitivamente le cose brutte e adoperandoci affinché scompaiano sempre di più. Siamo essere intelligenti e senzienti, dovrebbe riuscirci semplice una cosa del genere: perché invece non riusciamo a praticarla?

Mario Rigoni Stern, 15 anni

Noi, da ragazzi, si andava a piedi lungo le vie dei pastori e dei carbonai, o sulle mulattiere della guerra. Ma da vent’anni a questa parte il nostro Altopiano è stato riscoperto dalle masse come luogo di svago, di riposo, di agonismo, di funghi: terra ludica da conquistare e godere. Ben sappiamo, però, come questa fruizione del territorio, questa antropizzazione, se fatta in maniera volgare può cagionare, e cagiona, anche consumo di ambiente e, quindi, di natura, con la perdita parziale, e forse totale di quel topos di cui tutti sentiamo il bisogno: un rifugio dell’anima e del corpo, sempre più necessario a mano a mano che crescono i rumori confusi della civiltà dei consumi.

[Mario Rigoni Stern, Camminare. Ritrovare quanto perduto, 1983, tratto da Andrea Cunico Jegary, Nomi, luoghi e comunità. Quaderni di toponomastica Cimbra, Altra Definizione Editore, 2021.]

Rigoni Stern lasciava le sue montagne e il nostro mondo esattamente 15 anni fa, il 16 giugno 2008. Autentica e lucidissima coscienza di quelle (ovvero di tutte le) montagne e del tempo che viviamo, il grande autore slegar (asiaghese, in cimbro) non è più tra noi ma resta quanto mai presente e fondamentale, aiutandoci costantemente a meditare e comprendere molte delle cose che col tempo sui monti (e non solo qui) noi uomini facciamo. Resterà – dovrà restare – una figura imprescindibile, e in modo crescente, anche in futuro: finché lo sarà, noi tutti avremo un buon sentiero lungo il quale incamminarci.

P.S.: per conoscere Mario Rigoni Stern e approfondirne la grandezza culturale e umana, c’è sicuramente da leggere il recente Mario Rigoni Stern. Un ritratto, di Giuseppe Mendicino, massimo esperto del grande scrittore di Asiago – sul quale di libri ne ha scritti anche altri, si veda qui. L’immagine in testa al post è tratta dalla pagina Facebook dedicata a Rigoni Stern.