Sylvain Tesson, “La Pantera delle Nevi” (Sellerio Editore)

Come la precedente qui pubblicata, anche questa che state per leggere è una “recensione” sui generis. Questo perché qualche tempo fa ho letto La Pantera delle Nevi, il libro di Sylvain Tesson (Sellerio Editore, 2020, traduzione di Roberta Ferrara; orig. La panthère des neiges) per presentare l’omonimo film uscito nelle sale italiane lo scorso ottobre, dunque per diversi aspetti ciò che ne ho scritto rappresenta una “recensione” sia del libro che della pellicola – cosa che peraltro ci sta, vista la stretta correlazione narrativa, espressiva e artistica tra le due opere. Per lo stesso motivo, se quanto leggerete potrà interessarvi – come mi auguro – al libro, l’invito è comunque quello di vedere prima o poi anche il film, così da rendere completa e compiuta la conoscenza de La Pantera delle Nevi e l’importante esperienza che senza dubbio ne trarrete.

Ma partiamo dalla protagonista assoluta: la pantera delle nevi, o leopardo delle nevi / Panthera uncia: “uncia” deriva dal francese once (italianizzato in onza) inizialmente usato per indicare la lince europea e poi in generale i felini delle dimensioni della lince. Venne individuata per la prima volta nel 1775 da un naturalista tedesco, Johann Christian Daniel von Schreber. Nonostante il suo nome ordinario “leopardo”, è più imparentata con la tigre che con il leopardo propriamente detto.

La pantera delle nevi è uno degli animali più elusivi e misteriosi del mondo, al punto che non se ne conosce con precisione la quantità. Ce ne dovrebbero essere ancora 4-6.000 individui dei quali solo 2.500 in età riproduttiva, dunque è una specie sicuramente in pericolo. È stata a lungo cacciata per la sua pelliccia e solo dagli anni ’80 è protetta in modo ampio. Ma tutt’oggi deve affrontare numerose minacce antropiche: oltre al bracconaggio e alla caccia di frodo, la mancanza di salvaguardia dell’ambiente naturale e le attività industriali-minerarie che disturbano la vita della pantera e la allontanano da molte aree del suo habitat tipico. Il fotografo Vincent Munier e l’autore Sylvain Tesson partono nel 2018, con la regista Marie Amiguet e un collaboratore, per un viaggio di circa un mese negli altipiani tibetani, a quote tra i 4 e i 6000 metri e temperature raramente superiori ai -20° C, alla ricerca della misteriosa creatura… Perché proprio la pantera delle nevi? Perché la sua elusività e il mistero che l’accompagna, nel nostro mondo contemporaneo iperantropizzato, ultratecnologico e che pensiamo/crediamo di conoscere sotto ogni aspetto, simboleggia come poche altre cose ancora la natura selvaggia e un ambito vitale nel quale l’uomo è quasi del tutto assente, dunque un abito che preserva caratteristiche biologiche ma anche filosofiche intatte da decine di migliaia di anni.

Qui possono cominciare le relazioni con il mondo della montagna, quelle relazioni per le quali suppongo che il CAI in prima persona abbia scelto di promuovere e supportare l’uscita in Italia del film: come per Munier e Tesson la ricerca della pantera delle nevi rappresenta il tentativo di entrare in contatto con la selvaticità naturale nel suo stato più puto e ancestrale, chi frequenta le montagne ricerca in esse la stessa cosa, almeno nel principio: la possibilità, anche solo temporanea, di ritrovare una dimensione selvaggia che ci possa aiutare a riconnetterci con il mondo naturale e con il suo tempo così diverso dal nostro e così fondamentale, perché è il tempo generato dal moto stesso della Natura. L’uomo con tutta probabilità è l’unica creatura vivente che si è inventata un proprio tempo, che si è fatto sempre più veloce, funzionale ai bisogni, alle necessità e a volte alle presunzioni della sua civiltà, con le conseguenze spesso non così positive che ci ritroviamo a constatare quotidianamente.

Sia il libro che il film  sono ricchissimi di poesia e di filosofia, tuttavia entrambi sono tra le cose principali opere che riflettono sul senso dell’attesa. Munier e Tesson attendono per giorni l’apparizione della pantera delle nevi, immobili nel paesaggio tibetano, nel silenzio più assoluto e a decine di gradi sotto zero, e sanno benissimo di non avere nessuna certezza che la pantera appaia, anzi, a un certo punto Tesson comincia a pensare di essere finito laggiù per nulla. Nel 1978 Peter Matthiessen, naturalista americano tra i primi a recarsi in Asia per cercare di vedere la pantera delle nevi (scrivendone uno dei primi libri a tema, The Snow Leopard), a chi gli chiedeva se aveva poi visto l’animale, rispondeva contento: «No, non l’ho vista, Non è meraviglioso?». Ciò perché Matthiessen aveva saputo trovare del fascino anche nel fatto che la pantera delle nevi l’avesse gabbato e fosse riuscita a sfuggirgli e a restare invisibile, di contro con ciò dimostrando la consistenza del suo fascino leggendario. In altre parole, Matthiessen aveva goduto del fascino dell’attesa e in particolar modo dell’attendere qualcosa che si spera possa manifestarsi senza averne alcuna certezza. Che è, paradossalmente, proprio ciò che rende l’attesa così affascinante.

Uno dei principi fondamentali del Tao, una delle filosofie orientali più antiche dalla quale vengono fatte discendere molte delle altre come lo zen ma che ha solide relazioni anche con il pensiero filosofico occidentale, dice che bisogna attendere senza aspettarsi nulla. Perché se si attende e ci si aspetta inesorabilmente qualcosa, si genera desiderio ovvero brama o al contrario delusione e magari rabbia. Sapete bene che nella nostra epoca abbiamo sostanzialmente perso la facoltà di attendere: andiamo sempre di fretta, tutto deve essere rapido, veloce, immediato ma, guarda caso, tutto diventa occasione di attesa: per ritardi, impedimenti, ostacoli, le code nel traffico e in banca, eccetera. Da ciò nasce lo stress, l’insoddisfazione, l’irascibilità… Ma, ancora a proposito di relazione tra quello che racconta il film e il mondo della montagna, una delle cose che noi che andiamo in montagna ricerchiamo principalmente è proprio la lentezza, la quale presuppone necessariamente la facoltà di saper attendere. Se in vetta a un monte ci si può salire in 10 minuti con una funivia oppure in 3 ore a piedi, capite bene che è la seconda opzione quella che richiede di attendere per poter poi godere del piacere di arrivare in vetta, mentre la prima sottintende la pretesa di non poter aspettare, di arrivare in cima prima possibile. Il che poi generalmente significa il tornare indietro prima possibile – sapete bene che la velocità è contagiosa e diventa una sorta di devianza ossessiva di gravità crescente che alla fine fa consumare il tempo e lo spazio, dunque la montagna stessa che diventa nel principio come una giostra, sulla quale ci si può stare solo per un tot di tempo e poi si deve scendere.

Conoscete certamente quel famoso passo di Gotthold Lessing (dalla commedia Minna Von Barnhelm), «L’attesa del piacere è essa stessa il piacere»: ecco, quello che Munier e Tesson ricercano con il loro viaggio in Tibet, e che poi viene raccontato nel film, in fondo è una manifestazione profonda e compiuta delle parole di Lessing. L’attesa di vedere qualcosa ma senza aspettarsi di poterla vedere veramente diventa il piacere principale, perché genera una dimensione ideale e altrimenti difficilmente ritrovabile, nel mondo ordinario, per riflettere su se stessi, sulla propria vita, sul proprio posto nel mondo e sul mondo stesso, al contempo lasciando che l’animo e lo spirito si possano sorprendere di ogni cosa che comparirà allo sguardo perché ogni cosa sarà inattesa e dunque una sorpresa, un dono del mondo naturale e un privilegio non prevedibile, quindi inestimabile. Se poi, alla fine, persino la speranza massima e assoluta seppur massimamente incerta, ovvero la visione e l’incontro con la pantera delle nevi, avviene realmente, capirete che la sensazione di gioia e di appagamento raggiunge un apice a sua volta impensabile.

Di nuovo mi viene da correlare questa situazione a quella di chi sale sui monti. Penso (e lo penso perché è qualcosa che ritaglio su me stesso e pratico) che chi voglia vivere pienamente l’esperienza montana, slegandola dai meri aspetti alpinistici e prestazionali (quota massima, dislivello, tempo, eccetera… che poi, sia chiaro, ognuno è libero di inseguire e fissare come propri obiettivi), debba necessariamente frequentare i monti senza aspettarsi nulla cioè restando costantemente pronto a sorprendersi di ogni cosa che potrà vedere e incontrare, dunque allenandosi a mantenere i sensi pienamente attivi e attenti così da poter cogliere qualsiasi cosa si manifesti intorno. Ciò anche perché il paesaggio, essendo il frutto tanto di ciò che vediamo quanto di ciò che pensiamo, risulta sempre diverso, anche quello che abbiamo frequentato innumerevoli volte, e dunque sempre in grado di poterci sorprendere con qualcosa di inaspettato e per questo di straordinario. E poi, quella celebre frase di Lessing, «L’attesa del piacere è essa stessa il piacere», non si attanaglia perfettamente anche all’andare in montagna, ove la salita verso la vetta o la meta prescelta, dunque verso il piacere del successo e dell’aver portato a compimento l’uscita, non è essa stessa il piacere di vagabondare in montagna assaporandone pienamente le innumerevoli bellissime sensazioni che dona?

Inoltre, La Pantera delle Nevi offre anche una approfondita e vibrante riflessione sulla presenza e la conseguenza della civiltà umana nel mondo, ovvero sulla necessità, che si sta facendo sempre più pressante, di finirla con la dominazione rigidamente antropocentrica che l’Homo Sapiens ha voluto imporre all’intero pianeta. Nel corso della storia, con l’avanzare del progresso scientifico e tecnologico, ci siamo creduti sempre più in diritto di imporre il nostro controllo sul mondo e su ogni cosa che contiene, vivente e non vivente, ma di pari passo a ciò sono aumentate le conseguenze e si sono fatte non solo sempre più evidenti ma anche più gravi. Di contro, questo pianeta così grande ma nelle scale astronomiche così piccolo riserva ancora molti spazi remoti e inospitali nei quali l’uomo perde buona parte della sua forza e deve inesorabilmente restare in balìa della Natura e del clima, esattamente come ogni altra creatura vivente ma, per molti versi, meno specializzato di esse se non per ciò che gli può dare la tecnologia. È proprio in questi ambiti che ci possiamo rendere conto che alla civiltà umana piace vincere facile, che invece dove la Natura conserva la dimensione originaria l’uomo ha ben poco da poter fare il prepotente e l’ambiente naturale lo rimette al giusto posto, al fianco delle altre creature viventi. Una cosa che in fondo basta salire di quota anche sulle nostre iperantropizzate Alpi per constatare. Dovremmo tutti quanti metterci, almeno una volta nella vita, in balìa della Natura più autentica – chi pratica alpinismo in montagna già per certi versi lo fa (e, per fare un esempio di più conosciuti e affascinanti, mi viene in mente ciò che fece Walter Bonatti nei suoi viaggi in terre lontane): così si può rapidamente capire che il Sapiens, nonostante tutta la sua evoluzione e la tecnologia, non ha affatto vinto sulla Natura, anzi, ne è spesso in balìa come se non più di tanti altri animali, magari considerati “primitivi”.

Nell’ottobre scorso il WWF e la Zoological Society di Londra hanno diffuso la nuova edizione del Living Planet Report, il loro rapporto biennale sullo stato delle specie animali che popolano il nostro pianeta. Il documento segnala una marcata riduzione di specie tra le popolazioni di vertebrati, ma come avviene spesso la pubblicazione dei risultati è stata comunicata con approssimazione dai mezzi di comunicazione. Il rapporto dice che tra il 1970 e il 2018 è stato rilevato un calo medio del 69 per cento delle popolazioni di vertebrati tenute sotto controllo da vari gruppi di ricerca, in termini di abbondanza relativa delle specie. Le principali cause della perdita di biodiversità negli ultimi 50 anni sono le attività umane, a cominciare dagli allevamenti e dalle coltivazioni che hanno via via sottratto spazi alle specie selvatiche. Gli effetti del riscaldamento globale stanno complicando ulteriormente le cose, compromettendo gli equilibri in numerosi ecosistemi e riducendo le possibilità di sopravvivenza per numerose specie.

E allora, proprio riguardo a quanto vi ho appena raccontato fino a qui e avete letto, voglio chiudere questa mia dissertazione proponendovi un significativo brano dal libro di Tesson, tra i passi finali del testo. Ve la lascio come riflessione finale e parimenti come una sorta di primo passo, di passo d’inizio e introduzione sia alla lettura del libro che alla visione del film, entrambi consigliatissimi ça va sans dire:

Il mondo era uno scrigno pieno di cose preziose. I gioielli erano rari perché l’uomo aveva fatto man bassa del tesoro. Qualche volta capitava ancora di avere davanti agli occhi un brillante. Allora la terra sfavillava. Il cuore batteva più in fretta, lo spirito si arricchiva di una visione.
Gli animali erano appassionanti in quanto invisibili. Non mi facevo illusioni: era impossibile penetrare il loro mistero. Appartenevano a quelle origini da cui la biologia ci aveva allontanato. La nostra umanità aveva dichiarato loro una guerra totale. L’eliminazione era quasi completa. Noi non avevamo niente da dire a quelle creature e loro si ritiravano. Avevamo trionfato e presto saremmo rimasti soli a chiederci come eravamo riusciti a spazzarle via in così poco tempo.
Munier mi aveva offerto di sollevare un angolo del velo per farmi contemplare i sovrani della terra nel loro vagare. Le ultime pantere, i chiru e gli emioni sopravvivevano ancora, anche se braccati e ridotti a nascondersi. Vederne uno significava contemplare un ordine meraviglioso, ormai scomparso: l’antico patto tra gli animali e gli uomini – gli uni impegnati a sopravvivere, gli altri intenti a comporre i loro poemi e a inventare gli dèi. Per un motivo inesplicabile, Munier ed io sentivamo una nostalgia per quell’antico patto. «Lealtà oscura per le cose cadute»[1].
La Terra era stata un museo sublime.
Purtroppo l’uomo non ne era il custode.

[1] Citazione da Castighi di Victor Hugo.