A sciare in inverno come si faceva in estate

A volte, meditando sulla situazione climatica e sulle sue conseguenze rispetto al turismo sciistico, ho pensato tra me, ridendo: sta a vedere che, con i cambiamenti climatici che fanno nevicare a quote sempre più alte – quando nevica in un senso accettabile del termine! – finirà che d’inverno si andrà a sciare a 3000 metri sui ghiacciai come si faceva una volta ma d’estate, perché lassù il clima e la neve saranno quelli che oggi d’inverno sempre meno si possono trovare alle quote “classiche”, nei comprensori che purtroppo, di questo passo, nel periodo invernale non riusciranno nemmeno più a produrre neve artificiale o a conservarla sulle piste.

Ma me lo dicevo scherzosamente, appunto, pensando come in fondo un’ipotesi del genere non potesse che essere solo una divertente baggianata

Ecco. Maledizione a me che mi metto a pensare certe cose!

N.B.: l’articolo è apparso su “La Provincia di Sondrio” venerdì 24 marzo 2023. Ringrazio l’amico Angelo Costanzo che me l’ha inviato.

N.B.#2: per dovere di cronaca storica, è interessante sapere che il Passo dello Stelvio fino al 1915 venne mantenuto transitabile anche in pieno inverno nonostante le nevicate del tempo fossero ben maggiori di quelle odierne. L’apertura invernale venne interrotta e poi definitivamente interdetta degli eventi bellici della Prima Guerra Mondiale.

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A proposito dello “Ski Dome” di Cesana Torinese…

In fondo io potrei essere “favorevole” alla realizzazione dello Ski Dome di Cesana Torinese, sì.

Ehi, aspettate a fare quelle facce lì, mi spiego subito!

A parte il fatto che affermazioni come «Ci darebbe lavoro per 12 mesi all’anno», citata nell’articolo qui sopra raffigurato, sono le stesse che una ventina di anni fa si sentivano in zona in occasione della costruzione delle varie infrastrutture olimpiche, che poi sappiamo bene che fine abbiano fatto (infatti lo Ski Dome di Cesana verrebbe costruito dove ora giace fatiscente la pista di bob di “Torino 2006”), e guarda caso sono identiche a quelle che negli anni Settanta echeggiavano nelle varie località montane ove spuntavano impianti di risalita e condomini di seconde case come funghi… ma sarà solo una bizzarra coincidenza, no?

Dunque, dicevo: in linea di principio gli Ski Dome, se proprio si volesse realizzarli, andrebbero costruiti direttamente nelle città. Che senso ha riprodurre le condizioni classiche della montagna invernale in montagna? Tanto vale farlo direttamente nelle aree metropolitane (ce ne sono parecchie a ridossi di aree collinare e elevazioni varie che offrirebbero il minimo dislivello necessario) così pure da risparmiare risorse energetiche, economiche e ambientali nonché il viaggio ai loro fruitori, e i gas di scarico relativi, ai territori transitati. Per cui, posto ciò, allo Ski Dome di Cesana dovrei dire assolutamente di no.

Però

Pensandoci in questi giorni, mi sono detto che probabilmente sulle nostre montagne al di sotto di certe quote non si scierà più, e spesso agli sciatori su pista contemporanei (lo dico con tutto il rispetto del caso) non interessa tanto il luogo montano ove sciare e la varia cultura che lo caratterizza ma solo il servizio offerto in base allo skipass pagato. Certo sarebbe bello riconnettere tali sciatori ad una ben più consapevole e sostenibile frequentazione delle montagne, ma posso supporre che a molti di essi la cosa non interessi granché, chiedendo essi soprattutto di poter continuare a sciare. A tal riguardo, mi vengono in mente i grandi centri commerciali delle aree metropolitane, ai cui fruitori non interessa nulla del (non) luogo in sé ma solo di ciò che contiene e offre – negozi, marche, prodotti, intrattenimenti vari, eccetera. Se molte persone preferiscono passare il loro tempo libero in un enorme capannone pieno di negozi piuttosto che in montagna o in altro ambito naturale, non glielo si può certo impedire, anzi: si può concludere che il centro commerciale, addensando nei suoi spazi quelle persone evidentemente poco sensibili alla relazione con l’ambiente naturale, il paesaggio e con le loro valenze culturali, le tolgono di mezzo a quelli che invece tale relazione la vogliono coltivare. D’altronde si è visto bene cosa è accaduto nel corso dei lockdown per il Covid, negli ultimi anni, con i centri commerciali chiusi e molti dei loro fruitori riversatisi in massa sui monti, in località che non sono e non sarebbero mai in grado di sopportare tutta questa gente e morirebbero di overtourism in men che non si dica.

Ecco: lo Ski Dome sarebbe il centro commerciale della montagna, in fondo il principio che dà forma e sostanza ai due spazi è lo stesso. Lo Ski Dome toglierebbe di mezzo (mi scuso per la reiterata espressione rude, ma rende l’idea) coloro ai quali non interessa nulla della montagna, del suo ambiente, del suo paesaggio, della relazione con esso ma vorrebbero solo sciare come si faceva una volta e come oggi, stante la realtà climatica corrente, non si può più fare, liberando della loro presenza culturalmente sterile la montagna che in tal modo sarebbe ben più a disposizione di chi la voglia godere in modo consapevole e sostenibile senza più il disturbo, non solo acustico, provocato abitualmente dal turismo meccanizzato come quello sciistico. Chi vuole solo sciare, se ne sta chiuso dentro il suo “meraviglioso” Ski Dome, chi vuole vivere più compiutamente la montagna ha tutte le possibilità per farlo. Entrambi a loro modo contenti – certo, gli sciatori skidomati con parecchi soldi in meno in tasca, visto quanto dovrà costare la fruizione di un impianto tanto economicamente gravoso, ma se a loro va bene così, amen.

Tutto ciò, al netto della sostenibilità economica e ambientale dell’impianto, che ovviamente restano elementi imprescindibili in merito alla sua realizzazione – sempre che lo Ski Dome diventi “sostenibile” semplicemente scrivendo nel suo progetto esecutivo che è “sostenibile”, che pare sia il modus operandi al riguardo alla base di molte di queste opere!

Così, dunque, sarei “favorevole” allo Ski Dome di Cesana. Capito, ora?

«E il Ghiacciaio della Marmolada, te lo ricordi?»

A proposito di ghiacciai che spariscono*, come quello dell’Adamello del quale ho scritto di recente qui, ho trovato le immagini di un altro “caso” assolutamente significativo al riguardo relative a un ghiacciaio divenuto tristemente celebre, la scorsa estate.

In quella sopra pubblicata, risalente agli anni a cavallo tra fine Ottocento e primi del Novecento, potete vedere la grotta-bivacco scavata sotto Punta Penia, la cima più alta della Marmolada, considerato il rifugio più antico delle Dolomiti e uno dei primi in assoluto delle Alpi. Il tizio in posa all’ingresso è Alfred von Radio-Radiis, alpinista e industriale austriaco, pioniere dell’industria automobilistica, discendente da un’antica famiglia nobile goriziana e all’epoca celebre frequentatore delle Dolomiti. Il bivacco venne realizzato tra il 1874 e il 1876 e vi si accedeva direttamente dal ghiacciaio, come si nota nell’immagine e come fu possibile fare fino agli anni Venti del secolo scorso.

[Cliccate sull’immagine per leggere un articolo che racconta la storia della grotta-bivacco.]
Oggi ovvero un secolo dopo la grotta-bivacco è posta oltre ottanta metri sopra il livello attuale del ghiacciaio della Marmolada (o di quel che ne resta), e vi si può accedere soltanto disarrampicando con manovre di corda dall’alto. Fosse pure ancora utilizzabile come alloggio di emergenza, risulterebbe pressoché inaccessibile.

Più di ottanta metri di spessore di ghiaccio, ovviamente esteso per la larghezza e la lunghezza di qualche chilometro e lì presente da chissà quanti secoli, svaniti in soli cento anni e con maggior rapidità negli ultimi tre decenni. Era come un grande serbatoio di acqua potabile, solidificato in loco da condizioni climatiche ora ugualmente svanite, una preziosa riserva idrica che non abbiamo più a disposizione e che nelle condizioni attuali non si potrà più ricostituire.

Ecco. Ognuno tragga pure le considerazioni e le conclusioni che preferisce.

N.B.: cliccando sull’immagine qui sopra, sulla quale ho evidenziato con la freccia la posizione della grotta-bivacco ad agosto 2020 – e si noti quanto è in alto rispetto al ghiacciaio attuale, la cui superficie nel frattempo si sarà ancora più abbassata – potrete vedere un video de “Il Corriere delle Alpi” che racconta la sua storia passata e presente.

*: «Ma come? Parli di ghiacciai che si sciolgono pure ora che siamo in pieno inverno?»
Secondo Arpa Lombardia, sabato prossimo, ultimo giorno dell’anno 2022, «lo zero termico sarà attorno a 3000 metri, in ulteriore risalita nella giornata. Attorno a 3600 metri in serata». Significa che ci sono le condizioni affinché pure in pieno inverno i ghiacciai si possano sciogliere e dunque sì, ne parlo anche ora.

Tre anni di acqua potabile persi per sempre

Quando si disquisisce della situazione climatica corrente, a supporto delle considerazioni sul tema sovente si snocciolano dati e relativi grafici tanto inequivocabili quanto, a volte, di primo acchito complicati per chi non ne sia abituato, dunque a volte respingenti. Le immagini fotografiche – magari se riprodotte in timelapse come quello (spaventoso, dal mio punto di vista) qui sopra riprodotto – sono molto più immediate e comprensibili ma pure qui, se non si conosce almeno un poco l’ambiente montano, che un ghiacciaio avesse uno spessore di 200 metri e oggi solo di 100, oppure che un tempo fosse lungo 2 km e oggi solo uno, per molti non significa molto anche visivamente: il paesaggio in questione non sembra così cambiato, se non si ha l’occhio di coglierne le differenze.

Il tutto rimanda alla questione di come trasmettere i dati scientifici riguardanti i cambiamenti climatici per farne strumento di informazione e, ancor più, di generazione di un’adeguata consapevolezza diffusa che supporti le necessarie azioni atte a mitigare gli effetti del riscaldamento globale e strutturare la migliore resilienza possibile. È una questione delicata, inutile dirlo, sulla quale il dibattito è aperto e ampio.

Una sorta di soluzione indiretta al riguardo la propone Matthias Huss, glaciologo del Politecnico di Zurigo, illustrando nel servizio della RSI che potete vedere cliccando sul frame qui sopra lo stato dei ghiacciai svizzeri in questo 2022 climaticamente drammatico.
In pratica, Huss rivela che i ghiacciai elvetici quest’anno hanno perso il 6% della loro massa, un valore mai registrato prima. Il sei per cento: ok, e che significa?

Il 6% di perdita di massa, significa che nel 2022 i ghiacciai svizzeri hanno perso ben tre km3 di ghiaccio, ovvero tre cubi di ghiaccio dai lati – lunghezza, larghezza, altezza – di un km. Tanta roba, è facile comprenderlo… ma più concretamente, che vuol dire?

Vuol dire che tre cubi da un km3 ciascuno contengono l’acqua potabile che la popolazione svizzera (quasi 8,7 milioni di abitanti nel 2020) consuma in tre anni. Per dirla in altro modo: con lo scioglimento dei ghiacciai registrato quest’anno, la Svizzera ha perso per sempre 3 anni di acqua da bere.

Ora, credo, sarà ben più comprensibile e concreta la gravità della situazione dei ghiacciai in forza dei cambiamenti climatici in corso. E, appunto, sto dicendo dei soli ghiacciai svizzeri: la situazione è la stessa negli altri paesi alpini se non più grave, ad esempio in Italia in forza della sua esposizione a meridione cioè sul versante alpino più caldo.

Quanta acqua potabile hanno perso nel complesso i paesi alpini, in un anno come questo? Quanta ne hanno già persa negli anni scorsi, e quanta ne perderanno ancora nei prossimi? Ovvero, per arrivare al punto: quanto siamo sottoposti al rischio di non avere più riserve di acqua potabile da bere e da utilizzare per la nostra vita e il lavoro quotidiani entro breve tempo?

Ecco.

Non è catastrofismo, questo, ma semplice e obiettiva lettura della realtà. Cosa possiamo farci? Nulla per l’acqua ormai persa; tanto, forse, per quella che ancora i nostri ghiacciai conservano sulle Alpi. Ma bisogna fare subito: attivisti e scienziati lo dicono da lustri, ormai, e più passa il tempo più quel “subito” diventa immediatamente. O forse che, per capire quanto sia necessario agire senza altro indugio, dovremo arrivare a non avere più abbastanza acqua da bere? Come la glaciologia dimostra, questa drammatica ipotesi non è più così lontana: a questo punto sì, il presunto “catastrofismo” non sarà più tale ma diventerà la normalità quotidiana. Vogliamo che finisca veramente così?

C’era una volta lo sci estivo (e i suoi ghiacciai): il Colle del Gigante

Come spiego con maggior dovizia di particolari qui, in questa serie voglio proporre delle immagini comparative di ghiacciai sui quali fino a qualche tempo fa si praticava lo sci estivo (o si pratica tutt’ora ma in un ambiente totalmente diverso e deteriorato rispetto a prima) che per molti versi ritengo ancor più emblematiche di altre “glaciali” riguardo ciò che sta accadendo sulle nostre montagne in forza del cambiamento climatico in corso. Perché c’è stato un tempo e un clima grazie al quale lassù c’erano piste, impianti, alloggi, migliaia di sciatori, divertimento, godimento – che ciò fosse plausibile o no: ora non c’è più nulla, anzi, c’è proprio un altro luogo rispetto ad allora.

Il Ghiacciaio del Gigante, ad esempio, raggiunto dalle funivie che da Courmayeur salivano al Rifugio Torino e a Punta Helbronner, ove sul Colle omonimo (già in territorio francese ma con impianti italiani) si è sciato fino agli anni Novanta. Ecco com’era tra gli anni Sessanta e Settanta:

Ecco come si presentava il giorno 8 agosto 2022, dalle webcam di Punta Helbronner e dell’Aiguille di Midi, sopra Chamonix:


(Cliccate sulle immagini per ingrandirle.)

P.S.: altri ghiacciai ove si praticava lo sci estivo dei quali ho già scritto: