Respirare con gli occhi

Respirare con gli occhi.

È una delle cose che cerco di fare più metodicamente, quando vagabondo per le montagne, nei contesti che ritengo più adatti allo scopo – come quello dell’immagine lì sopra. Non c’è bisogno che siano luoghi particolarmente spettacolari, dal panorama “da cartolina”… no, potrebbe essere qualsiasi luogo. Anzi, a volte sono quelli meno rinomati a svelare cose impensabili, appunto.

Respirare con gli occhi, sì.

Guardare i territori, vedere i luoghi, osservare i paesaggi. E inspirare tutto quanto, esattamente come l’aria attraverso il naso nei polmoni per ossigenare il corpo e i suoi organi, ossigenando con gli occhi la mente, il cuore, l’animo.

Penso che l’osservazione costante del mondo nel quale ci troviamo e abbiamo intorno dovrebbe rappresentare un processo biochimico vitale proprio come la respirazione, una modalità per assumere e assimilare un elemento indispensabile, necessario a mantenerci vivi tanto quanto a manifestarci come entità pienamente viventi. D’altro canto, nello stesso modo per il quale tramite la respirazione noi ci componiamo anche di ossigeno, l’assimilazione visiva e intellettuale del paesaggio ci rende suoi elementi più profondamente che attraverso il mero starci dentro. Respiriamo la vitalità del mondo che noi stessi contribuiamo a determinare, “espirando” in esso la nostra presenza interattiva in quel processo biochimico che, appunto, è la nostra vita nel mondo che viviamo.

Ma, anche più semplicemente, respirare con gli occhi significa assimilare compiutamente la bellezza del paesaggio, quand’esso sia considerabilmente “incontaminato” e dunque salubre; infatti, quando di contro ci troviamo in un luogo o territorio contaminato, malamente sfruttato, inquinato, esteticamente sgradevole, non ci verrebbe mai di “respirarlo” esattamente come cerchiamo di tapparci il naso e inspirare il meno possibile in un luogo ove vi siano odori variamente nauseanti. Ecco, è la stessa cosa, in fondo. Per questo è bene respirare con gli occhi in quei luoghi la cui bellezza e integrità ci sappia ben “ossigenare”: per esercitarsi a una maggior resistenza nei luoghi dove invece ci viene da trattenere il respiro per evitare repulsione e fastidio, e al contempo per comprendere quanto sia importante godere di aria buona, e di un mondo salubre, per viverci nel modo migliore e più confortevole possibile.

Provate, dunque, a respirare con lo sguardo anche voi. Mi direte, poi, se vi sentirete più ossigenati, come accade a me.

La meta a metà

C’è chi pensa che la meta sia l’arrivo alla fine di un viaggio e chi sia la partenza per quello successivo. Chi ritiene che la meta sia il viaggio, che chiunque segua la propria strada ha sempre una meta da raggiungere, c’è chi scrisse che spesso c’è una meta ma non una via e chi affermò che in fondo la meta più affascinante sia proprio quella più irraggiungibile.

A volte, a me sembra che la meta migliore sia la metà. Tra il giorno e la notte, tra il buio e la luce, la terra e il cielo, dove finisce il bosco e comincia il prato, tra la città rumorosa e la campagna silenziosa, il fondovalle e la vetta, il sentiero battuto e il terreno selvaggio, nel mezzo tra il punto di partenza e quello di arrivo, lì dove si possono vedere entrambi, osservando di qua e di là, oppure nel mezzo del bivio, senza ancora aver scelto la direzione. Tra la giovinezza e l’età matura, tra la convinzione non del tutto assodata e il dubbio ancora aleggiante, tra il conosciuto e l’ignoto.

La meta è a metà, ecco.

Ma ci potrebbe essere il rischio che dalla metà scaturisca il medio, l’indeterminatezza, l’inconcludenza. La mediocrità. Allora è bene non dimenticare che la metà è il mezzo, cioè il centro, il cuore di ciò che vi è intorno. Il centro dell’universo nel quale c’è ogni cosa, e il centro dello spazio tempo nel quale noi tutti stiamo e siamo, nel nostro viaggio quotidiano. Per questo la luce quanti mai sfolgorante che si può osservare tra il giorno e la notte, a metà del loro regno alterno, mi sembra uno squarcio verso l’infinito osservato dal centro dell’ognidove, lì dove l’orizzonte è totale perché è tutt’intorno e io sono nel centro, che è medĭĕtas, il «mezzo», la meta/à.

Poi il giorno si conclude definitivamente, la notte si determina pienamente e io rimango nel mezzo delle innumerevoli ulteriori mete a cui penso e vorrei raggiungere che non so se raggiungerò mai veramente. Ma il pensarci e restarci, così a metà, è a suo modo una meta da considerare.

Muoversi nella sospensione

Trovo sia affascinante muoversi nella sospensione, in quel frangente nel quale qualcosa non è più ma qualcos’altro non è ancora, lo spazio da dove si può osservare da una certa parte e insieme della parte opposta in un solo colpo d’occhio, di mente e di spirito, l’istante nel quale il dopo si fa prima e finalmente svanisce il presente nell’inafferrabile.

Intercettare l’ignoto tra due ambiti noti, infilarcisi dentro, esplorarlo e trovare per essi una inopinata congiunzione, un nuovo sentiero mai percorso prima ma che segue la linea sospesa tra luce e ombra, una traccia sempre un po’ segreta eppure capace di svelare molto.

È una sospensione che tuttavia non equivale a indeterminatezza, nemmeno a confusione o indecisione. Anzi, starci dentro è una decisione quanto mai consapevole, che a sua volta prende forza nello spazio tra la razionalità e l’istinto, il contatto necessario a vedere meglio, a capire, a comprendere pienamente, a illuminarsi intensamente restando nella penombra, a proteggersi nell’ombra pur godendo della piena luce.

Sentire i suoni nel silenzio, il paesaggio che cambia d’intorno senza che ci si debba muovere, poi noi che cambiano nel paesaggio ormai mutato. La sospensione trova il proprio senso nel suo divenire, nel farsi prima o poi determinazione, nell’offrire la propria dimensione procrastinata e oscillante a chi vi è immerso e da lì voglia generare controllo, regola, direzione. Quella verso cui riprendo a muovermi quando anche il cielo, così sospeso tra il giorno e la notte, decide una volta per tutte da che parte andare.

«In fondo è solo un tramonto!» penserà qualcuno.
Sì, lo è. Ma io vi sono già andato oltre.

Così tanti paesaggi, così poco tempo

[Foto di Tom Morel su Unsplash.]
«Così tanti libri, così poco tempo». Così, pare, un giorno disse Frank Zappa: e se in tale affermazione io mi ci trovo alla lettera, una versione simile l’ho fatta mia e la interpreto in modo che diventi un principio ineludibile: così tante montagne, così poco tempo. Ma anche – in “geoextended version” – così tanti paesaggi, così poco tempo.

Quando sono in viaggio – ovunque mi trovi, a partire dal primo millimetro al di fuori dell’uscio di casa fino in capo al mondo – e osservo senza sosta i territori che attraverso cercando di coglierne più dettagli possibile, mi sorge spesso il pensiero che di spazi e di luoghi da scoprire, esplorare, conoscere, ve ne sono così tanti che veramente un’intera esistenza sembra pochissima cosa. È ovvio e banale dirlo, lo so, ma forse lo è meno se si considera che questo esercizio elementare e ordinarissimo non è così praticato nonché se si reputa che è da una cosa così semplice e ovvia come l’osservare ciò che abbiano intorno che si genera la relazione fondamentale con il mondo che viviamo.

D’altro canto da sempre guardo al territorio come fosse un grande libro sulle cui pagine di roccia e di terra che sono i versanti e le varie forme morfologiche che lo configurano, si possono leggere le sue principali peculiarità e non solo: se quel territorio è antropizzato, vi si può leggere anche la storia che vi hanno inscritto le genti che lo hanno abitato lungo i secoli, raccontando il legame reciproco attraverso i “segni” della loro presenza – le case, i villaggi, le strade, le coltivazioni, i muri, i modellamenti del terreno e finanche le piccole cose, le staccionate, i sentieri, le pietre di confine, gli ometti di pietra…La lettura di tutto ciò è la narrazione del paesaggio, che è sempre un costrutto mediato tra elementi naturali e antropici.

Ma in questa “biblioteca” infinita che è il mondo, può ben essere “paesaggio” anche una piccola valletta nascosta dal bosco, un modesto rilievo roccioso, una semplice radura apparentemente simile a tante altre… Non solo dalle più grandi e imponenti montagne può nascere il paesaggio, seppur qui lo si possa cogliere nei modi più compiuti e spettacolari: anche nei minimi spazi si può riscontrare qualcosa di peculiare, un microambiente che si anima di tante relazioni infinitesimali il cui compendio traccia una narrazione peculiare di quel luogo minimo, che aspetta solo di essere còlta e letta.

Da ciò in fondo nasce quella mia sensazione di illimitatezza dei paesaggi in relazione al tempo a disposizione per esplorarla in maniera soddisfacente. Ma al riguardo mi torna in mente un’altra affermazione letteraria alquanto significativa, di Jules Renard che disse «Quando penso a tutti i libri che mi restano da leggere, ho la certezza d’essere ancora felice». Ecco, quando penso a tutti i luoghi, i paesaggi, le montagne, i territori che mi restano da scoprire e conoscere, ho la certezza di non dover preoccuparmi troppo per la mancanza di tempo e di poter essere ancora, e sempre, felice.

Quelli che si danno contro da soli

La cosa “bella”, di certi progetti di infrastrutture ludico-ricreative in ambiente naturale dei quali si può leggere sui media, è che non serve faticare molto per trovare opinioni e tesi contrarie a tali interventi, perché sono gli stessi promotori a fornirne di ineccepibili!

Ad esempio: lì sopra si disserta d’una “zip line” da realizzare sul Sacro Monte di Varese (cliccate sull’immagine per leggere l’articolo da cui è tratta), sulla quale si dice:

«Le zip-line attualmente esistenti sono poste in luoghi lontani dai centri urbani o in luoghi difficilmente accessibili, come attrazione per lo sviluppo turistico del territorio in cui sono realizzate»: come potrebbero tali infrastrutture meramente ludiche “sviluppare un territorio”, se il solo interesse dei loro fruitori è divertircisi a prescindere da dove esse siano installate, contando semmai solo le caratteristiche atte al giovamento ricreativo? Un territorio si sviluppa lavorando sulle sue peculiarità geografiche, paesaggistiche, culturali e sociali ponendo al centro il benessere del luogo stesso e dei suoi abitanti (la cosiddetta place experience postulata dalla sociologia del turismo contemporanea), non quello dei turisti attirati in loco con una mera giostra!

«La realizzazione di una zip-line a Varese offrirebbe qualcosa di decisamente unico: un volo all’interno di un parco regionale sorvolando la valle del Vellone, un sito Unesco e, cosa davvero unica, l’impianto sarebbe praticamente in una città.» Come?! Si vorrebbe valorizzare un sito ambientale tutelato dall’Unesco e posto in ambito di parco regionale facendolo sorvolare da una “giostra”?

«L’impianto sarebbe a 1.040 metri, alla stazione di arrivo della funicolare a Campo dei Fiori, così da incentivare il suo utilizzo aggiungendo valore turistico.» Ribadisco: di quale “valore turistico” si vuole parlare, imponendo a un territorio montano un’infrastruttura ludica? Quale conoscenza culturale – cosa che dovrebbe comunque rappresentare uno dei fini principali del turismo, anche di quello meramente ricreativo e d’altro canto elemento necessario all’economia del luogo – si può generare e sviluppare con un’infrastruttura del genere?

«La Zip-line porterebbe in vetta moltissimi turisti e appassionati sportivi e dunque rappresenterebbe uno stimolo ulteriore per rimettere «la testa» sul progetto di rilancio del Campo dei Fiori, tutelando al massimo le sue bellezze, la sua singolarità e l’ecosistema.» Vedi sopra: «tutelare al massimo» la bellezza di un territorio montano protetto, peraltro di valore ancor maggiore rispetto ad altri proprio per la sua vicinanza alla città di Varese e all’area iper-antropizzata della Lombardia nordoccidentale, con un elemento di richiamo prettamente ludico-ricreativo volto per giunta a generare un turismo massificato e massificante («moltissimi turisti») che inevitabilmente, in forza di tutto quanto sopra, fa del posto un non luogo. D’altro canto: quante altre “zip line” agghindano già altrettante località montane e non? E quante “giostre” similari? E le peculiarità autentiche del luogo, quelle che lo rendono a suo modo “unico” e che ne generano il paesaggio e l’identità culturale? Tutte sottomesse alla nuova “zip line” e al suo “valore” turistico?

Ecco. Credo non serva aggiungere altro.