Una cosa forse troppo difficile, per il Sapiens

L’imperitura e invariabile costanza che noi Sapiens (per semplicità comprensiva uso il termine al plurale, anche se so che è un errore) mettiamo nel cercare di ricondurre e interpretare ogni cosa che esiste al mondo intorno a noi, animata o no, a una visione rigidamente antropica quando non antropocentrica, seppur per alcuni versi è qualcosa di comprensibile temo che per tutti gli altri versi sia la riprova di come la cultura che anima la civiltà umana sia tanto funzionale ai suoi interessi evolutivi – e fin qui ci sta – quanto disfunzionale ai bisogni di tutto quello che vi sta intorno ovvero al mondo e a ciò che contiene, animato o no. In altri termini, è il principio di fondo in base al quale e sempre più nel tempo noi Sapiens siamo diventati disarmonici rispetto alla sfera vitale nella quale stiamo, disconnessi da essa, decontestuali, per molti aspetti antitetici al suo ordine naturale, nonché uno dei motivi per i quali siamo incapaci di comprenderne la realtà.

D’altro canto, come possiamo pretendere di capire il mondo che umanizziamo, antropomorfizziamo, che pensiamo in grado di esistere solo se sottoposto alle leggi e alle regole (o alle fregole) con le quali abbiamo organizzato la nostra civiltà, se a ben vedere – historia docetnon siamo nemmeno in grado di capire noi stessi e i nostri comportamenti? E di conseguenza come possiamo pensare di salvaguardare il mondo in cui viviamo se formalmente diciamo di volerlo fare ma sostanzialmente miriamo sempre e solo a salvaguardare noi stessi? Ma, appunto: sul serio pensiamo di saper salvaguardare noi stessi quando facciamo di tutto per rovinarci vicendevolmente?

Siamo in un cul-de-sac, chiaramente. Dal quale possiamo uscire solo nel momento in cui sappiamo – sapremo – riconnetterci e riarmonizzarci con tutto quanto abbiamo intorno riuscendo a comprenderne la realtà effettiva e peculiare. Che in parole povere si può riassumere con: ne usciremo quando ci toglieremo di mezzo dal centro del mondo nel quale ci siamo prepotentemente piazzati e dal quale sprezzanti di tutto non vogliamo spostarci. Senza per ciò metterci un passo indietro da ogni altra cosa dopo che abbiamo voluto stare per troppo tempo svariati passi avanti, ma ben più semplicemente e equamente, mettendoci a fianco di ogni altra cosa, di ogni altra creatura, entità, elemento, camminando nel tempo lungo vie diverse l’una dall’altra ma che puntano tutte nella stessa direzione, verso una medesima meta.

Ecco.

Troppo difficile, dite?

Uhm… Forse sì, troppo difficile per noi “Sapiens”. Già.

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L’ordine della vita nel paesaggio

[Foto di Susanne Stöckli da Pixabay.]

Perché un rapporto con il paesaggio sia duraturo, dev’essere reciproco. Al livello in cui la terra ci fornisce il cibo non è difficile da comprendere e la reciprocità viene spesso ricordata nella preghiera di ringraziamento prima dei pasti. Al livello in cui il paesaggio ci appare bello o spaventoso e ci colpisce, oppure al livello in cui ci fornisce le metafore e i simboli per indagare nel mistero, è più difficile definire la reciprocità. Se ci si avvicina alla terra con un atteggiamento d’obbligo, disposti a rispettare cortesie difficili da esprimere e che possono essere anche un semplice gesto delle mani, si stabilisce una considerazione dalla quale può emergere la dignità. Da questo rapporto dignitoso con la terra è possibile immaginare un’estensione di rapporti dignitosi in tutta la propria vita. Ogni rapporto viene formato con la stessa integrità, che inizialmente spinge la mente a dire: le cose nella terra si armonizzano in modo perfetto, anche se cambiano sempre. Io desidero che l’ordine della mia vita sia organizzato nello stesso modo in cui trovo la luce, il movimento leggero del vento, la voce di un uccello, la forma d’un baccello che vedo davanti a me. Voglio in me stesso questa impeccabile, incontestabile integrità.

(Barry LopezSogni artici, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2006, pag.387; orig. Arctic Dreams, 1986.)

Il popolo degli alberi

[Foto di Chris Lawton da Unsplash.]
Kahlil Gibran affermò che «Se un albero scrivesse l’autobiografia, non sarebbe diversa dalla storia di un popolo.» Gli alberi come un popolo, già, ovvero boschi e foreste come “collettività”. Non siamo certamente adusi a definizioni del genere, per gli alberi, e invero già fatichiamo a non considerarli meri oggetti, a riconoscere a essi un valore vitale come quello di ogni altra creatura che dimora sul pianeta ed è dotata di moto.

D’altro canto, cosa definiamo noi “popolo”, normalmente? Una comunità umana, non altro; semmai a volte lo utilizziamo per certe comunità animali ma, al nostro solito, con accezione e punto di vista del tutto antropocentrici, come forma imitativa del nostro vivere sociale o per mera definizione funzionale se non pittoresca. E perché gli alberi non lo sarebbero, invece? Solo perché non si muovono come noi, non hanno occhi, bocche, arti, non si cibano come noi e non emettono suoni o versi? Perché non ci assomigliano in nulla, insomma? Ma se un albero per assurdo parlasse e sostenesse dal suo punto di vista la stessa cosa di noi umani, che non saremmo un “popolo” dacché siamo così diversi dalle loro comunità, non ce la prenderemmo e non ci sentiremmo offesi?

Lo so, potreste considerare tali mie elucubrazioni come quelle sul sesso degli angeli; in verità credo che non sia granché diffusa una consapevolezza adeguata su cosa siano gli alberi ovvero, in generale, su quante forme di vita differenti dalla nostra e da quelle a essa affini abbiamo intorno che non sappiamo identificare come meriterebbero. Per l’appunto, gli alberi sono l’esempio migliore di una forma di vita diversa, che assimilare alla nostra risulta fuori luogo ma con la quale relazionarsi come con ogni altra di tipo animale è fondamentale – tanto più che, come dimostra con sempre maggior compiutezza la scienza, trattasi a suo modo di una vita intelligente, cioè con modalità anche qui differenti dalle nostre ma non per questo meno considerabili. Credo sia importante conseguire questa consapevolezza riguardo la presenza degli alberi nello spazio-tempo mondano e tra di noi, ovvero sia necessario considerarne la peculiare importanza: sovente gli alberi, tanto più quelli che da tempo (magari anche da millenni) dimorano nei rispettivi spazi vitali non sono soltanto divenuti parte del paesaggio naturale dei luoghi che li ospitano ma pure delle geografie umane e sociali lì presenti e storicamente consolidate, presenze identitarie e culturali che con tutte le altre hanno costruito il luogo e la sua vitalità in ogni aspetto di essa. Bisogna assolutamente considerare non solo la nostra visione antropica verso di essi, c’è da capire a fondo anche la loro “visione” verso di noi umani, comprendere quanto la loro presenza nel tempo – e nel loro tempo, a sua volta diverso da quello degli uomini e più affine a quello della Terra – ha influito sullo sviluppo delle comunità umane, delle relazioni in esse e con la specifica realtà del luogo, sulla definizione del paesaggio locale e su come, in esso, la presenza arborea sia (nel passato e nel presente) assolutamente in equilibrio con quella degli uomini, degli animali e di qualsiasi altro elemento che quel paesaggio forma.

Un’autentica cura e sensibilità verso i territori in cui viviamo, i loro ambienti naturali e il paesaggio che se ne percepisce credo necessiti della consapevolezza suddetta: non solo per meglio salvaguardare il bosco – o per relazionarsi meglio ad esso negli spazi antropizzati ove sia presente – ma più in generale per comprendere meglio la dimensione ecosistemica della quale facciamo parte e comprenderci adeguatamente in essa, come elementi armoniosi e virtuosi. È una piccola azione, peraltro meramente immateriale e culturale, richiede pochissimo sforzo e solo un poco di attenzione ma può conseguire grandi risultati, già.

P.S.: sono considerazioni, queste che avete appena letto, ispirate dalle lunghe e belle chiacchierate con l’amico Tiziano Fratus, Homo Radix e cercatore di alberi, raffinato scrittore di libri sul tema e spirito tra i più affini alla meravigliosa dimensione silvestre.

Paesaggio fa rima con viaggio

[Foto di Schwoaze da Pixabay.]
Paesaggio fa rima con viaggio (e viceversa): mi viene da pensare che non sia una mera coincidenza lessicale, questa, quantunque l’etimologia dei due termini abbia comuni radici franco-latine e simili riferimenti originari di natura geografica.

Penso infatti che il paesaggio possa essere considerato a suo modo un “viaggio”, solo che in tal caso è il mondo che si “muove” attorno a noi, non viceversa. Quando ricaviamo e determiniamo la concezione di “paesaggio” attraverso l’osservazione e la percezione sensibile di un territorio, è come se gli elementi che lo formano “viaggino” intorno a noi e poi dentro di noi, nella nostra mente e nel nostro animo, lì dove le personali conoscenze culturali, sensibilità, impressioni, emozioni, percezioni, ne traggono la visione particolare che definiremo proprio come “paesaggio”. E qualsiasi elemento di esso è unito e in relazione a ogni altro: attraverso queste vie immateriali noi muoviamo i nostri sensi pur restando fermi ed è come se quegli elementi del paesaggio ci venissero incontro, facendo sì che li si possa radunare nella mente e, appunto, contribuiscano a formare l’idea di “paesaggio” che è l’immagine determinata del territorio attraverso il quale poi potremo materialmente viaggiare: ma sarà un viaggio di ritorno, per così dire, che chiude e rende compiuto un movimento circolare virtuoso grazie al quale possiamo dirci in relazione con quel territorio, con i luoghi che ospita, con l’ambiente che lo caratterizza e col paesaggio che lo identifica altrettanto compiutamente.

Aveva ragione Bruce Chatwin quando, in Anatomia dell’irrequietezza, scriveva che «Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma.» Ecco: è la forma del paesaggio che ha viaggiato fin dentro la nostra mente, la cui forma sarà in qualche modo speculare alle forme del territorio dal quale scaturisce quel paesaggio. Un’armonia fondamentale che può, anzi deve stare alla base della nostra relazione con il mondo, e con la quale possiamo certamente dire di poterci stare bene, di viverci bene perché il mondo “vivrà bene” anche grazie alla nostra presenza.

 

I piccoli grandi

[Immagine di Anja da Pixabay.]
Detto tra noi, a dover avere a che fare con la gente (in senso lato) per cose piacevoli o meno, sono sempre più convinto che i bambini siano molto più adulti negli adulti.

E che la migliore visione delle cose del mondo, e la più efficace per viverci al meglio, qualsiasi cosa ciò comporti, sia quella dei piccoli, non dei grandi. La fantasia più curiosa e bizzarra d’un bambino mostra di frequente più logica, a modo suo, del pensiero e delle intenzioni degli adulti, già.

Perché spesso sono proprio loro, i grandi, a essere “piccoli”, non viceversa. Me compreso, ovvio, che però cerco di imparare almeno qualcosa al riguardo, dai bambini – sperando di riuscirci, ecco.

P.S.: a proposito di quanto sopra, clic.