Il grande “gioco” della scoperta del paesaggio

[Il paesaggio dell’alta Val San Giacomo, o Valle Spluga, uno di quelli che ho più esplorato e “scoperto”, fin da piccolo. Foto di Siro Scuffi, tratta dalla pagina Facebook “Sei dell’Alpe Motta…“.]
Quando qualche anno fa cominciai il lungo lavoro di stesura di un testo per il Club Alpino Italiano che racconta la storia di una sezione del sodalizio alpinistico nazionale attraverso quella dei suoi soci in azione lungo i sentieri, le pareti e gli ambiti montani in genere nei quali la sezione è stata attiva nel tempo, dunque narrando la storia del territorio stesso e della sua frequentazione (ricreativa ma non solo), ho iniziato a rendermi vividamente conto di come quegli itinerari di cui dovevo scrivere, di qualsiasi tipo essi fossero, non erano e non sono mere tracce di un passaggio di convenienza nel territorio, e tanto meno semplici itinerari ludici nella forma e nella sostanza – anche se in tal modo oggi dai più legittimamente concepiti. Certo, il loro scopo primario contestualizzato al presente è quello, ma diventa unicamente quello soltanto se si ignora e si dimentica il moto delle genti lungo di essi nel tempo quale concreta presenza e sussistenza nel territorio attraversato, cioè l’interazione dell’uomo con il paesaggio d’intorno, qualsiasi scopo essa avesse nel passato e abbia oggi.

È stata una percezione, questa, assolutamente affascinante ma affatto inedita per me. Ho avuto la fortuna fin dalla più giovane età della vicinanza familiare di persone che mi hanno abituato al girovagare consapevole nel paesaggio (soprattutto montano), anche attraverso le più elementari camminate in luoghi apparentemente quotidiani e ovvi, la cui storia geografica mi veniva però raccontata quasi favolisticamente ma, senza dubbio, suggestivamente – almeno per la curiosità d’un bambino che si trova di fronte un mondo intero da scoprire, per il quale un semplice sentiero nel bosco diventa scenografia di infinite bizzarre creazioni della fantasia e stimolo all’esplorazione e alla scoperta di cosa ci possa essere dietro ogni svolta, ogni albero, ogni masso. Uno stimolo spesso ben rifornito di suggestioni proprio grazie alle letture dei libri che, potrei dire, divenivano esercizio per la generazione di un primario, indiretto legame tra narrazione letteraria e narrazione geografica. E se in un punto particolarmente ombroso del bosco non trovavo, io bambino curioso e immaginoso, alcun ingresso d’una casa di gnomi o nessun raduno segreto di elfi poco male: in quei frangenti la curiosità era accesa, l’attenzione resa vigile, e la visione così sollecitata poteva cogliere dettagli altrimenti ignorati e ricavare da essi nozioni più o meno importanti, inevitabilmente ingenue, spesso, ma anche quando minime ed esigue mai insignificanti, mai superflue. Attraverso il moto esuberante seppur disorganico della mia fantasia, stavo imparando a capire che nel paesaggio ogni cosa poteva narrare una storia, tratteggiare una trama, rivelare una verità, magari un segreto – tutto quanto: non solo le creature viventi, anche le piante, le rocce, i più piccoli sassi che tuttavia luccicavano al Sole come (all’apparenza) esotiche pietre preziose… e poi i sentieri, il loro percorso, il fondo, l’ampiezza, i muri, le fontane, gli spiazzi nel bosco, i solchi nel terreno fino all’esiguo panorama visibile tra gli alberi o gli spazi sconfinati dell’orizzonte aperto. Tutto.

Inoltre, grazie a questa costante esplorazione e scoperta leggera e ludica del mondo in cui mi muovevo e fantasticavo, stavo seguendo, a mia insaputa ma con tanta passione, una sorta di corso di estetica del paesaggio, ove la materia più armoniosa era determinata non solo dalla sostanza delle suggestioni ricevute ma pure, se non soprattutto, dalla spontanea, infantile (ma autentica, per gli stessi motivi) percezione del “bello” correlata al ludico, al gioco e al conseguente divertimento, che ogni essere umano in età infantile possiede, e che purtroppo sovente smarrisce nell’età adulta – se non quando ci si ritrova in circostanze ricreative per certi aspetti simili nel principio: non a caso proprio il percorrere un sentiero in ambiente naturale predispone spontaneamente alla percezione sensibile della bellezza di esso e al relativo godimento ricreativo. In tali casi come per me allora, la forma del paesaggio era ed è bella perché osservata senza alcun fine utilitaristico e dunque puramente sollecitante la fantasia: un enorme, vastissimo campo giochi – a prescindere dall’età, a ben vedere – nel quale l’importante non era tanto giocarci effettivamente ma starci dentro. Peraltro, ciò mi fa venire in mente il titolo di una delle più famose opere di letteratura alpinistica dell’Ottocento, The Playground of Europe di Leslie Stephen, filosofo, critico letterario e alpinista tra i più celebri di quel tempo (nonché padre di Virginia Woolf): un libro pubblicato nel 1871 nel qual titolo il vocabolo playground, “terreno di gioco”, non richiama solo al teatro alpino quale ambito d’azione dell’alpinistico pioneristico di quei tempi ma anche (e per certi versi in opposizione a cert’altro alpinismo dall’atteggiamento maggiormente bellicoso e prodromico di quello prestazionale moderno) il senso ludico di tale azione, appunto, per la quale lo stimolo estetico alla conquista delle vette di montagne dalla bellezza meravigliosa, ancorché rude e pericolosa, risultava fondamentale per il successo delle ascensioni e per il godimento intellettuale e spirituale di esse.

Insomma, dicevo: un campo giochi nel quale l’importante è starci dentro e, magari, giocarci. Basta questo, alla fine: il senso del “bello” non abbisogna di molto altro (che è tantissimo, sia chiaro!), solo di poter essere goduto; e solo se goduto, il più possibile liberamente, può essere pienamente percepito con tutte sue forme, segni, scritture, oggettività. La sua comprensione, più o meno intellettuale e altrettanto piena, può semmai venire in un secondo momento, ma senza la percezione di esso, l’intendimento e il riconoscimento, non lo si potrà mai veramente comprendere. Al contrario, conseguendo questa percezione, ne potrà scaturire una comprensione che del valore estetico saprà cogliere tutta l’entità.

Credo sia stato anche da ciò che, già in quella giovane età e poi sempre di più, ho ricavato la mia passione per le carte geografiche: perdermi durante innumerevoli pomeriggi nel vagare in esse con lo sguardo era uno dei passatempi preferiti, cercando di immaginarmi nella maniera più vivida possibile ciò che quelle carte raffiguravano ma, prima, venendo semplicemente affascinato dalla loro grafia, dalla rappresentazione al tratto dell’orografia del territorio e degli elementi antropici, dal seguire le linee che lo percorrevano seguendo direzioni molteplici e a volte inspiegabili e che si intrecciavano, si allontanavano le une dalle altre, correvano parallele, si biforcavano e triforcavano, formavano crocevia o, a volte, finivano apparentemente col perdersi nel nulla. Non lo capivo consciamente, ma dimostravo ciò che le carte geografiche in fondo sono: uno specchio nel quale rifletterci e vederci (o immaginarci) nel territorio, esattamente come ci vediamo nello specchio di casa con attorno la parte di essa nella quale è piazzato. Anche solo in ciò la geografia, e la sua materializzazione più pratica e funzionale, la mappa, dimostra la propria importanza essenziale: per comprenderci nello spazio, dare un senso al nostro moto in esso e per comprendere il legame che ci congiunge al territorio, al paesaggio vissuto e vicendevolmente – tra di noi in quanto creature sociali – ai luoghi in esso. Un legame che ha in sé anche la dimensione del tempo, come sancì già un secolo e mezzo fa il grande geografo francese Élisée Reclus, inventore della “geografia sociale” – base dell’attuale geografia umana – e tra i primi a comprendere come non si potesse elaborare una corretta e completa rappresentazione geografica del mondo senza lo studio storico del moto in esso dei popoli e senza la considerazione degli effetti della loro presenza nei territori attraversati e vissuti, su grande scala tanto quanto in ambiti più piccoli e locali.

Ovviamente a quel tempo, da giovane (e di certo sconclusionato) appassionato di geografia e di lettura delle mappe che ero, non conoscevo Reclus e le sue rivoluzionarie intuizioni. Nel mio piccolissimo, tuttavia, ho continuato nel tempo a mantenere vivo l’interesse per l’esplorazione del territorio e del paesaggio, il che ha reso quella percezione di cui dicevo poco fa sul reale valore dei segni, dei transiti umani e della presenza antropica nel territorio niente affatto una novità: certamente il tempo e l’esperienza l’hanno strutturata, le hanno dato spessore e maggiore riconoscibilità, tuttavia ho dovuto trasformare la percezione in intuizione per dare a quello spessore non solo una forma ma pure una profondità, sì che l’idea finalmente si correlasse tanto allo spazio quanto al tempo – un passaggio “reclusiano” fondamentale, questo, per nulla trascendentale eppure trascurato. Ma, per dire, è come voler andare in bicicletta e trascurare la capacità di stare in equilibrio su due ruote: una capacità che tutti possediamo, peraltro, semplicemente attivandola.

Il paesaggio non esiste (se non nella mente di chi lo “osserva”)

[Foto di Alessandro da Pixabay]

Il paesaggio è un costrutto. Questa parola terribile significa che il paesaggio non va ricercato nei fenomeni ambientali, ma nelle teste degli osservatori.

(Lucius Burckhardt)

Perché quando ammiriamo un “paesaggio” come quello (ultra classico!) ritratto nell’immagine lì sopra, pensiamo sia belloPerché le sue forme, i suoi colori, le vedute panoramiche che vi si generano sono sinonimo di bellezza, certamente, e perché un tale concetto di bellezza è quello che abbiamo culturalmente determinato nel tempo con lo sviluppo, anche in senso estetico, della nostra civiltà.

E se fosse invece che il paesaggio sopra raffigurato è “bello” soprattutto perché in realtà si forma dentro di noiè una creazione della nostra mente e del nostro animo, e dunque mai nessuno di noi ordinariamente affermerebbe di se stesso di essere “brutto” dentro?

Nella differenza culturale tra “territorio” e “paesaggio”, cioè tra ciò che vediamo intorno a noi e ciò che concepiamo da quella visione, nella relazione che si forma tra i due elementi e nella sua stortura (il più delle volte inconsapevole, in certi casi no), si può riscontrare sia la fortuna di essi, ovvero la loro frequentazione antropica armoniosa, sia la loro sfortuna, cioè l’origine dei danni che l’uomo con le sue attività vi compie. Comprendere che l’antropizzazione e la territorializzazione realizzate in armonia con lo spazio e l’ambiente naturale generano un altrettanto armonioso e bel paesaggio, nel quale ci si trova bene perché è bello starci, è fondamentale tanto quanto capire che la confusione tra i due elementi e il travisamento del loro valore, innanzi tutto da parte di chi opera e gestisce quegli spazi vissuti e antropizzati, è garanzia pressoché certa di danni e di degrado della bellezza peculiare dei luoghi, dunque conseguentemente anche della nostra relazione con essi, del nostro atteggiamento, della capacità di comprenderne e salvaguardarne il valore. Per questo il paesaggio deve necessariamente scaturire da una nostra elaborazione intellettuale e culturale: se ciò non accade, il territorio diventa come un dipinto dai colori bellissimi ma che non si capisce cosa rappresenti.

Se sparissero certe montagne

Gli umani, per certi versi, sono creature parecchio strane. Ad esempio, comprendono il valore di qualcosa non quando ce l’hanno ma quando viene a mancare, e generalmente questo principio risulta valido vale tanto più è importante ciò che c’è ovvero manca: la pace, l’amore, la libertà… l’acqua…

Tale principio, in modalità differenti ma con una sostanza di fondo similare, resta valido anche in tema di relazione con i luoghi che viviamo, dei quali non riusciamo a comprendere quanto essi, con tutto quello che contengono,  influenzino la nostra presenza in loco e la visione che ne ricaviamo, la quale poi diventa nozione culturale e immaginario più o meno comune che assimiliamo e ci portiamo appresso per poi farne uno strumento fondamentale di valutazione e comprensione personale del mondo – ovvero comprensione della nostra presenza nel mondo, di cosa ci stiamo a fare.

Vi propongo un macro-esempio al riguardo: il Cervino/Matterhorn, la montagna più iconica delle Alpi, marcatore identitario dei territori ai suoi piedi e presenza culturale oltre che geografica per le genti che li abitano. Si giunge al suo cospetto e lo si ammira in tutta la sua grandiosità morfologica, attrattore inesorabile di tutti gli sguardi: per la sua bellezza, l’imponenza, la grandiosità o per il timore che suscita… Nel frattempo, la sua presenza sta definendo negli osservatori il valore del luogo che si trova tutt’intorno, nel quale essi si trovano e con il quale stanno interagendo, ricavandone le proprie percezioni, impressioni, emozioni, esperienze, conoscenze: il “paesaggio”, insomma, che è il risultato di tutte queste cose in relazione al territorio che ne è fonte primaria, il quale identifichiamo culturalmente proprio grazie ai marcatori georeferenziali che vi troviamo e vediamo. Ciò senza contare il fatto che un elemento geografico così iconico e identitario definisce il territorio anche dal punto di vista socio-economico: basti pensare alle innumerevoli riproduzioni della silhouette del Cervino che si possono trovare ovunque. D’altro canto, come dicevo, quello del Cervino è un macro-esempio, il cui principio è riscontrabile in innumerevoli altre circostanze, similari anche quando meno palesi.

Bene, detto ciò: e se il Cervino non ci fosse?

Notate come i luoghi, esattamente quelli soliti eccetto che per la mancanza del monte, cambiano totalmente aspetto e come ci appaiono differenti per molti aspetti, ovvero come la nostra percezione si ritrova a dover elaborare un paesaggio diverso e con peculiarità altre rispetto a quello consueto?

Si direbbe una cosa ovvia, questa: è chiaro che se un certo territorio perde le sue emergenze geografiche e morfologiche principali, cambia aspetto. Tuttavia il nocciolo nella questione non è tanto nel cambio d’aspetto territoriale, ma nella variata e differente elaborazione del paesaggio conseguente, il che determina una diversa relazione culturale con quel luogo, una diversa considerazione, differenti valori che gli si possono attribuire. Insomma: sarebbe sostanzialmente lo stesso luogo, per quanto riguarda la parte antropizzata e vissuta, ma risulterebbe formalmente un altro luogo, che facilmente finiremmo per considerare non solo diverso ma forse più anonimo, meno affascinante e attraente, più “brutto” – e ciò proprio perché conosciamo e possiamo apprezzare l’originale.

(Per fare un altro esempio non alpino, qui sopra…)

Abbiamo una gran fortuna, comunque: il Cervino, e tutte le altre montagne o gli altri elementi iconici e identitari del mondo in cui viviamo, non possono sparire (salvo cataclismi impensabili): non per questo dobbiamo ritenere questi paesaggi scontati, anzi, la comprensione piena del valore della loro presenza, e dell’importanza di essa per chiunque viva quei luoghi e vi sappia intessere una relazione, per quanto sopra va coltivata, sviluppata, resa più forte e virtuosa possibile. Esattamente come è la persona libera che può e deve difendere la sua libertà, avendone piena coscienza dell’importanza, così funziona per i luoghi e i paesaggi del mondo che viviamo. La loro salvaguardia è la salvaguardia di noi stessi, del nostro tempo e della nostra presenza nel mondo: qualcosa che non possiamo assolutamente permetterci di perdere.

Massimo Centini, “I segni delle Alpi”

I processi di identificazione, appropriazione e umanizzazione dei territori che l’uomo formula e mette in atto fin dalla notte dei tempi possono essere concepiti anche – con una formula che a me piace parecchio – come una pratica di scrittura del (o sul) territorio della storia (o delle storie) delle genti che lo abitano nel corso del tempo, pratica che utilizza particolari codici semiologici i quali a loro volta si sono sviluppati nei secoli fino alle più complesse forme moderne, sviluppando al contempo una semantica che a volte è giunta ben leggibile fino ai giorni nostri, altre volte si è persa o è stata dimenticata. Tuttavia i segni restano, testimonianza sovente antichissima e messaggio intrigante di genti che hanno sviluppato relazioni particolari con i territori e i luoghi nei quali hanno inscritto quei segni: e se cogliere oggi il loro significato originario è un esercizio ostico, spesso meramente speculativo, constatarne la presenza marcante e così emblematica nella definizione culturale di quei territori e delle loro comunità residenti è un’attività non solo affascinante ma assolutamente necessaria e fondamentale al fine di mantenere vivi quei territori, la loro cultura, la storia, l’identità, conservando parimenti attivo il dialogo con il Genius Loci, riconoscendo e comprendendo il valore del luogo e ciò che da secoli, se non da millenni, custodisce. Con la possibilità per giunta di indagare e magari trovare la chiave di decifrazione di quei segni, di scoprirne il codice e così svelarne il messaggio: una ricerca oltre modo affascinante e comunque sempre illuminante, anche quando il codice resti segreto (il che ne preserva l’attrattiva, d’altronde).

Massimo Centini, antropologo torinese dalla fervida e variegata attività di ricerca su temi culturali “alternativi”, con una marcata predilezione per quegli ambiti che presentino ancora argomenti arcani e non spiegati e una produzione editoriale nella quale più volte ha disquisito di questi temi riferiti ai territori montani, ne I segni delle Alpi (Priuli & Verlucca, 2014) indaga la vastissima produzione semiotica millenaria delle genti alpine che, in forza delle regioni abitate, delle loro peculiarità e della conseguente particolare relazione intessuta con il territorio, risulta alquanto emblematica. Confrontate infatti con un ambiente oltre modo difficile, nel quale la residenza assumeva la costante forma di sussistenza quando non di sopravvivenza, le popolazioni alpine hanno inevitabilmente sviluppato un rapporto speciale con la Natura, il paesaggio, le altre specie viventi così come con i vari aspetti immateriali legati a una presunta matrice divina, magica o variamente sovrumana: rapporto che si è poi manifestato in una produzione di segni, di tracce, di “scritture” estremamente variegata nonché spesso arcana. []

[Rosa camuna (evidenziata). Località Carpene, Parco archeologico e minerario di Sellero, Val Camonica. Foto di Luca Giarelli, opera propria, CC BY-SA 3.0, fonte: commons.wikimedia.org.]
(Potete leggere la recensione completa de I segni delle Alpi cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)