Ma la vacanza, oggi, è ancora una “vacanza”?

[Immagine ©fotoagh.it – Alessandro Ghezzer]

Turismo oggi significa soprattutto consumo, intrattenimento, distruzione, superficialità e velocità; e la sua pratica è diventata talmente disciplinata e concentrata da essere talvolta più fonte di stress che di benessere. Spesso i turisti globali non sono interessati all’anima e alla storia del luogo che visitano, bensì vi si recano solo per fotografare e collezionare esperienze, sgomitando nervosi fra tante altre persone che si trovano nella stessa destinazione per lo stesso motivo, attratte dalle tendenze dei social più che da reali desideri. Mettersi in mostra online e poter affermare di averlo fatto è ormai diventato più importante del viaggio stesso. Invece, la fine del turismo e la nuova ecologia degli spazi del tempo libero possono significare la nascita di nuove forme di vacanza più educate, rispettose, lente, limitate e gestite; nelle quali il viaggio è lungo e fa parte dell’esperienza, e la meta non è un luogo da consumare e immortalare sullo schermo dello smartphone, bensì un territorio da osservare e conoscere nella sua complessità e in cui confrontarsi con l’altro, inteso come una cultura diversa dalla propria. ln questo modo la vacanza può diventare per tutti uno spazio di rigenerazione, benessere e arricchimento del sé, che si tratti di una città storica o di un ambiente naturale. Ciò si può accompagnare a una rivendicazione dell’ozio e del riposo, altrettanto importanti nella prospettiva della maggiore quantità di tempo libero da conquistare.

[Alex Giuzio, Turismo insostenibile. Per una nuova ecologia degli spazi del tempo libero, Altreconomia, 2025, pagg.153-154.]

Già, dice bene Alex Giuzio in questo passaggio del suo ottimo e illuminante libro (che ho avuto la fortuna di presentare lo scorso giugno a Oltre il Colle con l’autore): ma la vacanza per come ci viene venduta e imposta dai modelli turistici contemporanei, è veramente una vacanza? Oppure è solo una messinscena, una finzione che siamo indotti a recitare, una circostanza artificiosa ovvero la riproposizione dei conformismi e dei cliché del nostro modus vivendi quotidiano, soltanto modulati in altre forme per ingannarci al riguardo? E se fosse anche per ciò che molta parte del turismo oggi proposto fosse “insostenibile”? Perché non è sostenibile che si possa realmente considerare “turismo” nel senso buono del termine?

Forse anche questi aspetti del tema in questione andrebbero finalmente analizzati e compresi meglio, se si vorrà elaborare un’evoluzione dei modelli turistici veramente virtuosa e benefica per i territori, le comunità che li abitano e i vacanzieri che li frequentano.

La “destagionalizzazione” del turismo montano: strategia efficace o subdolo inganno?

[Immagine tratta da jennyvallese.com.]
Solitamente la nostra frequentazione della natura, in particolar modo dei luoghi più o meno turistici e turistificati, è legata a scopi ludico-ricreativi: ci sta, è il modello di fruizione di tali luoghi che si è sviluppato nel tempo ed ha elaborato l’immaginario comune con il quale li intendiamo: posti dove trovare dell’intrattenimento che il modus vivendi quotidiano in città per ovvi motivi non ci può concedere, almeno non come possono fare quelle località, con l’aggiunta dell’attrattiva estetica del territorio naturale, che a sua volta ci dona geografie impossibili da ritrovare nei centri urbani.

Ribadisco: è una cosa legittima e comprensibile oltre che per molti versi necessaria, vista la vita caotica e stressante che così spesso ci tocca vivere nella quotidianità.
Resta tutta il fatto che una tale frequentazione degli ambienti naturali non ce li fa vivere veramente, non ci porta a essere parte di essi, a elaborare con essi una relazione veramente compiuta, anche solo per le poche ore che ci stiamo, in un fine settimana o in un’uscita domenicale. I modelli di fruizione turistica (anche quando apparentemente non sono tali, in realtà pescano comunque da quell’immaginario: basti pensare all’elaborazione estetica veicolata dal marketing turistico, e non solo da questo, con cui di norma percepiamo e interpretiamo i paesaggi di montagna) attraverso i quali visitiamo quei luoghi sono esclusivamente costruiti in funzione dei suddetti scopi ludico-ricreativi. Infatti, se tali scopi non riusciamo a conseguirli, facilmente dell’escursione compiuta porteremo a casa un ricordo meno gradevole e appagante di altre volte, vuoi anche perché sempre in forza di quei modelli e degli immaginari di cui ho detto poc’anzi forse ci saremo costruiti delle aspettative basate su di essi e non sulla realtà effettiva dei luoghi che abbiamo visitato. Molto spesso il turismo contemporaneo punta proprio su questo: offrire le stesse esperienze, rese modello ripetuto una volta che ne si è constatato il potenziale successo e l’attrattiva collettiva, in luoghi diversi, sovente radicalmente differenti ma nei quali, appunto, vengono replicate quelle dinamiche turistiche ovvero, fondamentalmente commerciali. Esempio “piccolo” ma ormai grandemente classico di questa standardizzazione massificata dell’esperienza turistica sono le “panchine giganti” che ormai a centinaia occupano luoghi interessanti standardizzandone la fruizione e dunque le stesse valenze paesaggistiche dei luoghi, che ne escono appiattite e conformate; ma anche la stessa industria dello sci e in certa parte anche l’escursionismo, nonostante si svolgano su montagne sempre diverse e dunque dotate di differenti peculiarità, tendono a costruire e offrire al turistica identiche fruizioni, esperienze, modalità di visita e di frequentazione dei territori, con ciò deprimendo quando non banalizzando le valenze intrinseche e referenziali di ciascun luogo.

[Immagine tratta da www.iltquotidiano.it.]
È una formula apparentemente di successo, che funziona un po’ ovunque ma ciò perché basata su una dinamica puramente consumistica, che prende solo dai luoghi fruiti e sfruttati senza lasciare ad essi nulla, se non qualche iniziale tornaconto all’esercizio commerciale di turno. Tuttavia con il tempo, come detto, inesorabilmente consuma il territorio e tutto ciò che contiene, inclusa la componente umana, fino a che più nulla in loco sosterrà la richiesta di intrattenimento del turista definitivamente trasformato in cliente, così che il luogo perderà ogni valore in tal senso e il cliente cercherà intrattenimento altrove, in una riproduzione delle stesse dinamiche costante e continuamente demolitrice. Sia chiaro: sarà una perdita solo formale, in verità il valore del luogo, le sue peculiarità, le sue potenzialità resteranno intatte anche in presenza di un consumo notevole – del territorio naturale in primis – solo che si sarà consumata anche la capacità di cogliere quelle sue caratteristiche specifiche. Il che genererà inevitabili conseguenze ambientali ma anche, e soprattutto, sociali, economiche, culturali, di chissà quale lunga durata nel tempo e sperando che non risultino irreversibili – come ad esempio quando tali dinamiche innescano fenomeni di spopolamento ancora più accentuati che nel passato nonostante le promesse iniziali di segno opposto (di casi al riguardo sulle montagne italiane se ne contano a centinaia), dovuti non solo a ragioni socioeconomiche ma pure alla perdita di identità culturale del luogo, talmente legatosi nel tempo ai succitati modelli turistico-consumistici di massa da far che, una volta svaniti questi, tanto il luogo che la sua comunità non sappiano più ritrovare uno scopo per sé stessi, per la relazione reciproca e dunque per la loro permanenza attiva nel territorio. Per essere chiari: ci sono località che buona parte delle persone ormai riconoscono solo perché ci si scia, non per altro: be’, personalmente credo e temo che località del genere abbiano già la sorte segnata, se non sanno e sapranno rielaborare un identità più consona al loro territorio e alle peculiarità variamente culturali che offrono, dunque più referenziale, più in grado di riconoscerli come “luoghi”, innanzi tutto, e in ciò diversi ovvero peculiari rispetto ad ogni altro.

Quando sento parlare di “destagionalizzazione”, per certe località particolarmente investite da fenomeni di iperturismo stagionale, come le stazioni sciistiche (il cui periodo di apertura di impianti e piste in forza della crisi climatica in corso è e sarà sempre più breve e incerta), da un lato capisco le accezioni con le quali si interpreta il termine e le trovo anche legittime, dall’altro tuttavia mi sorge un’inquietudine piuttosto profonda. Perché non di rado mi sembra che l’unico scopo che si vorrebbe conseguire con la destagionalizzazione turistica in certe località sia soltanto quello di riprodurre lungo l’intero anno, e non solo nei periodi di maggior frequentazione, quegli stessi modelli di fruizione turistica di massa così poco o nulla attenti ai territori e dunque così consumanti i paesaggi. Quando ciò accade il disastro a danno dei luoghi si moltiplica inevitabilmente.

[Immagine tratta da www.scimarche.it.]
Più che di destagionalizzazione io vorrei sentir parlare di defruizione o, se si preferisce, di polifrequentazione (ma potrei indicare altri “neologismi” al riguardo, anche se immagino avrete capito il senso generale): cioè, molto semplicemente, puntare sì ad attrarre turismo lungo l’intero anno ma attraverso modalità di frequentazione differenti e volta per volta consone alla stagione, al clima, ai cicli naturali, alle valenze ambientali e paesaggistiche che il luogo può offrire mese dopo mese, alle possibilità ricettive oltre che alla capacità altrettanto consona di narrare il luogo in base a tutte queste sue variabili locali, che in fondo sono anche i tanti elementi che compongono e rendono speciale l’identità culturale del luogo stesso. Troppo spesso, come dicevo, la fruizione turistica invernale, basata per gran parte sullo sci (anche se solo nel modello imperante in quanto imposto: in verità la pratica sciistica sta diventando sempre meno importante nell’economia montana invernale, sia per la crisi climatica e sia per i costi sempre più alti che impone) e quella estiva, che oggi punta molto su escursionismi “alla moda” e sull’e-mtb (ormai la versione su due ruote dentate dello sci) sono sostanzialmente basate sugli stessi modelli e immaginari, oltre che su una narrazione del marketing tranquillamente sovrapponibile. Il tutto, ovvio, solo per tentare di preservare lo stesso business, dunque lo stesso modello di fruizione, senza alcuna sostanziale variazione e, cosa per me ancora peggiore, manifestando un identico disinteresse profondo verso i luoghi e le loro comunità, entrambe asservite a quel business consumistico. Che appunto consuma, ribadisco, e come dice il termine stesso ciò che viene consumato prima o poi finisce, si esaurisce, viene eliminato chissà per quanto tempo, forse per sempre.

Per questo io sostengo da tempo, oltre ai miei profondi dubbi sulla “destagionalizzazione”, la necessità che i luoghi turistici – quelli di montagna innanzi tutto ma perché sono il mio campo di studio e interesse principale ma anche perché presentano forse più potenzialità che altri – debbano assolutamente diversificare anche le proprie economie locali, non legandosi in maniera troppo stretta a quella turistica e per ciò non svendendo il proprio territorio e le risorse che offre principalmente ad essa. Perché non si può (più) fare industria in montagna, ovviamente di un certo tipo e taglia, perfettamente armonizzata all’ambiente e totalmente sostenibile, nelle varie forme che le terre alte consentirebbero? Perché si parla tanto di “economie circolari” per le arre interne e rurali ma poi, alla stregua dei fatti, molto spesso la definizione si concretizza in pochi esempi quasi più di immagine che di reale sostanza imprenditoriale e economica, e di nuovo pressoché legata all’economia del turismo? Perché, tornando più direttamente al comparto turistico, non si riesce a pensare a un portato socioeconomico diverso da quello imposto dall’industria turistica classica, proprio attivando modalità differenti di frequentazione dei territori che sappiano coinvolgere in maniera molto più ampia l’intera comunità residente, dunque con ricadute molto più diffuse di quelle ordinariamente generate dal turismo massificato, soprattutto quello “mordi-e-fuggi” che oggi rappresenta lo standard per moltissime nostre località turistiche?

Certo, serve quel cambio di mentalità generale che già tanti invocano da tempo: innanzi tutto nella politica locale, ma qui che avvenga la vedo così dura che personalmente auspicherei che siamo per prime le comunità residenti nei luoghi turistici a cambiare idea su di essi e su loro stessi, rendendosi conto che chiunque venga a visitare i propri territori, in qualsiasi modo lo faccia, dovrà farlo cercando di andare oltre la mera e banale ricerca di intrattenimento ludico-ricreativo e comprendendo cosa hanno intorno e perché il luogo in cui si trovano è diverso dagli altri e a suo modo speciale se non unico. In fondo non è compito della politica fare ciò – potrebbe esserlo ma essa sembra non avere una tale facoltà o non si dimostra interessata a manifestarla – dunque non resta che agli abitanti dei luoghi compiere questo atto, in fondo semplice eppure per molti versi rivoluzionario, quasi sovversivo se paragonato a quei modelli di turistificazione consumistica di cui ho detto. In fondo questo è anche il modo fondamentale, più immediato e efficace per rimettere al centro di tutto la comunità, chi anima e dà veramente vita al luogo, la place experience postulata dalla sociologia del turismo contemporanea contrapposta alla customer experience per la quale il cliente-turista ha sempre ragione e domina su tutto e tutti: ovvero, la più deleteria pratica consumistica che per errori e colpe che ora non è il caso di elencare è stata per troppo tempo imposta ai luoghi turistici e alle montagne soprattutto.

È finalmente ora di voltare pagina, di cambiare idee, paradigmi, modelli, visioni, atteggiamenti, umanità verso questi luoghi peraltro così fondamentali per il nostro benessere.

P.S.: anche di destagionalizzazione del turismo in montagna mi occupo – gioco forza! – da tempo, vedi qui.

Piccoli sciatori oggi, grandi clienti domani. L’industria dello sci e la filosofia “anti-montana” alla base dei comprensori sciistici contemporanei

(Articolo pubblicato su “L’AltraMontagna” il 14 marzo 2024.)

Nelle dichiarazioni rilasciate al quotidiano “La Stampa” lo scorso dicembre dall’amministratore delegato di Monterosa Ski Giorgio Munari – proferite allora ma “valide” da tempo, e che vedete riassunte nell’immagine qui sopra – si intuisce bene il pensiero alla base di molta dell’industria dello sci contemporanea: non bisognare praticare un’attività sportiva montana per elaborare e sviluppare la relazione con le montagne e i loro territori, con tutto il portato educativo e culturale conseguente, ma perché da grandi si possa diventare i clienti di quell’industria sciistica. E se alcuni diventeranno clienti, ovviamente altri troveranno lavoro per servire quei clienti, così entrambi favoriranno gli interessi dei gestori dei comprensori sciistici.

Una logica che non fa una piega, anche perché perfettamente mutuata dalle dinamiche industriali che governano il mercato, le grandi realtà commerciali, i meccanismi del consumismo globale: tanti vengono pagati per produrre qualcosa, tanti altri pagano per consumare quella cosa, pochi incassano e ci guadagnano. Peccato che qui si stia parlando di montagne, non di centri commerciali. Ma, con tutta evidenza, l’industria dello sci contemporanea considera le montagne esattamente come dei centri commerciali in altura, i cui frequentatori sono clienti o dipendenti, non altro, con i secondi che producono per i primi che consumano e con i territori montani che fanno da mero involucro funzionale al business. Nessuna promozione culturale dell’andare in montagna, nessun accento sui molteplici valori che dona la sua frequentazione, anche solo nel contatto con l’ambiente naturale – seppur “meccanizzato” spesso eccessivamente. Niente di tutto ciò: l’importante è vendere e/o acquistare uno skipass. La montagna è tutta dentro questo assunto.

Ma non è finita qui. Nello stesso contesto, il presidente dell’Avif – Associazione Valdostana Impianti a Fune Ferruccio Fournier ha se possibile rincarato ancor di più la dose, affermando: «Che siamo un paese di montagna non c’è dubbio. Sul fatto che siamo dei montanari ho qualche dubbio». Ciò in quanto i sistemi informatici dei comprensori sciistici permettono di conoscere la provenienza di chi utilizza gli impianti e, in tal modo, si rileva che in media solo il 10% dei valdostani scia, in alcuni comuni non si va oltre il 6-7%. «Frequentare la montagna vuol dire anche conoscere il territorio, vuol dire essere una autentica comunità di montagna» – ha precisato Fournier. Dunque, in soldoni: ci si può considerare “montanari” non perché si è abitanti delle montagne e parte variamente attiva delle loro comunità ma se si acquistano skipass e si utilizzano impianti e piste da sci – cioè se si diventa clienti delle aziende che gestiscono i comprensori, vedi sopra – altrimenti sorgono dubbi che ci si possa definire tali.

[Immagine tratta dalla pagina Facebook “Visit Monterosa“.]
Obiettivamente, al netto delle posizioni di parte, dichiarazioni del genere, e la visione di fondo che vi si intuisce, appaiono quanto mai sconcertanti. Non appaiono giustificabili nemmeno sotto l’aspetto meramente imprenditoriale: perché in questo caso le aziende e gli “imprenditori” in questione non gestiscono un mero impianto industriale con dentro dei macchinari e i dipendenti che ci lavorano al fine di produrre beni per i clienti che poi li acquistano, ma hanno tra le mani – indebitamente, per molti aspetti – le montagne e le loro comunità con tutto quello le caratterizza dal punto di vista storico, economico, sociale, culturale, antropologico, ecologico, ambientale. Montagne che una congiuntura socioeconomica di lungo periodo ha reso nel bene e nel male dipendenti dal comparto turistico dello sci. Circostanza peraltro palesata e vantata dalle parole di Munari e di Fournier: l’intera dimensione montana, anche quella non infrastrutturata per lo sci, diventa funzionale agli interessi dell’industria sciistica che si auto elegge predominante al punto da esigere che nei suoi riguardi non si possa essere che produttori oppure consumatori, e da tacciare di non montanità quelli che non si assoggettano a tale “regola”…

[⇒ continua su “L’AltraMontagna”, qui.]

Il Lago d’Aral e l’industria dello sci

[Foto di tunechick83 da Pixabay.]
Probabilmente numerosi di voi conosceranno la storia del Lago d’Aral, ne avranno letto da qualche parte o visto le inquietanti immagini che la testimoniano.

In passato il Lago o Mare di Aral (definizione adottata della lingua inglese, Aral Sea), che si trova in Asia centrale tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, era il quarto lago più esteso del mondo (circa 100mila kmq) al punto da essere definito “mare”, appunto. Oggi è ridotto al 10% della sua estensione originaria, persa in meno di 50 anni a causa dei prelievi massicci delle acque dei suoi immissari decisi a partire dagli anni Sessanta dall’allora governo sovietico per coltivare a cotone il deserto. Privato di gran parte dell’apporto dei corsi d’acqua che vi confluivano, il Lago d’Aral ha iniziato a ridursi progressivamente per la forte evaporazione: le acque si sono ritirate in tre bacini residui, lasciando una distesa arida, sabbiosa e salata (chiamata oggi deserto Aralkum), intrisa di residui di pesticidi provenienti dalle colture. La fiorente economia legata alla pesca è andata distrutta: nei bacini rimasti, la salinità era così elevata che i pesci sono quasi del tutto scomparsi. Uno dei più grandi disastri ecologici della storia umana, insomma.

Le immagini del Lago d’Aral che probabilmente avrete visto e che vi saranno risultate più emblematiche al riguardo, oltre a quelle aeree e satellitari che evidenziano la sparizione delle sue acque, sono di sicuro quelle delle numerose navi rimaste in secca nei porti scomparsi o adagiate in abbandono su quello che fino a qualche decennio fa era il fondale sottomarino e ora è il deserto Aralkum.

Inutile rimarcare che da tempo, e tanto più oggi, da quelle parti nessuno ha più pensato di spendere soldi per costruire nuove navi che possano solcare le acque dell’Aral, visto che di acqua nel lago non ce n’è praticamente più.

Be’, quando leggo sui media titoli e notizie come che vedete qui sopra (fateci clic per leggerla), mi viene in mente la storia del Lago d’Aral, già.

Cioè di quando nel bacino un po’ di acqua ce n’era ancora ma molto meno rispetto a un tempo e si era ormai compresa la sorte inesorabile che il lago avrebbe subìto. Al punto che laggiù non vi si costruirono più imbarcazioni ne piccole ne grandi che lo potessero navigare, come detto. Avrebbe significato buttare una gran quantità di soldi al vento, in buona sostanza. Come avreste guardato, e cosa avreste pensato, nel vedere qualcuno varare nel basso e irregolare fondale salmastro superstite di quello che un tempo era l’Aral un maxi-yacht, pure alquanto lussuoso, del costo di svariati milioni per giunta di origine pubblica?

Una follia, in buona sostanza.

Ecco. A leggere le suddette frequenti notizie, sembra che qui sì, se ne vogliono costruire ancora e parecchie di “grandi navi” nonostante l’acqua, nella forma cristallina che ricopriva e imbiancava le montagne al punto che un tempo si potevano facilmente definire un “mare” di neve, stia ugualmente diminuendo sempre di più, purtroppo. Già.

Dal Ministero del Turismo 148 milioni di Euro per gli impianti di sci, solo 4 per il turismo sostenibile. Va bene così?

148 (centoquarantotto) milioni di euro destinati al fondo per l’ammodernamento, la sicurezza e la dismissione degli impianti di risalita e di innevamento artificiale; quattro (4) milioni di euro per la promozione dell’ecoturismo e del turismo sostenibile che mirino a minimizzare gli impatti economici, ambientali e sociali. Entrambi i fondi arrivano dal Ministero del Turismo e sono destinati alle imprese: decreti e graduatorie sono stati pubblicati sul sito del Dicastero citato.

Destinati alle imprese, già, quelle che per proprio statuto fanno lucro in montagna non di rado – purtroppo bisogna denotarlo – senza troppo badare al territorio e al paesaggio sfruttati per i propri interessi. Non vengono destinati alle comunità residenti, ai montanari, ai loro bisogni, ai servizi di base, alle necessità legate alla vita quotidiana, a scuole, trasporti pubblici, sanità, assistenza sociale,  centri socioculturali… tutte cose che, evidentemente, vengono viste con parecchio disprezzo dalle parti del Ministero, altrimenti non si spiegherebbero i 144 milioni di differenza tra i due stanziamenti. Da una parte la torta straboccante di golosità, dall’altra soltanto le briciole.

Inevitabilmente anche l’UNCEM, Unione Nazionali Comuni Comunità Enti Montani, denuncia tale assurda situazione attraverso le parole del Presidente Marco Bussone (prese dall’articolo di “Ossola News” che vedete lì sopra, nel quale le potete leggere nella loro interezza):

I fondi potevano essere distribuiti diversamente, guardando alla vera sostenibilità, alle green communities, e non solo ai 300 paesi alpini e appenninici con impianti di risalita, importantissimi, ma non da soli, in un sistema. I finanziamenti del Ministero del Turismo, ribadiamo con forza, vanno investiti coinvolgendo insieme con le imprese – come Uncem aveva chiesto, inascoltata senza motivo, in alcuni tavoli tecnici ministeriali – direttamente gli Enti locali, Comuni, Unioni montane, Comunità montane. Potevano essere loro i beneficiari, per fare progetti integrati pubblico-privati, per le comunità locali. Invece le risorse ministeriali vanno direttamente alle imprese. Molti fondi per far fronte al futuro dello sci che, con la crisi climatica in corso, va totalmente ripensato.

Anche su “Il Fatto Quotidiano” Alberto Marzocchi, giornalista nonché maestro di sci, dunque assai competente sulla materia, ha pubblicato un illuminante articolo nel quale elenca, con nomi e somme, tutti gli stanziamenti a livello nazionale per le stazioni sciistiche, accentuando il parossismo della “nevicata” di soldi pubblici elargita dal Ministero, sovente a comprensori che da numerose stagioni lavorando in perdita e presentano bilanci da tribunale fallimentare. Una vera e propria «politica dell’accanimento terapeutico», come inevitabilmente la definisce Marzocchi.

Be’, a me pare ormai palese che, in tema di politica contemporanea e gestione dei territori montani e rurali, abbiamo a che fare con un sistema distorto, malato, pericoloso, insostenibile sotto ogni punto di vista, per nulla vantaggioso ma distruttivo per le montagne e per le loro comunità. Un sistema che va cambiato più rapidamente possibile, altrimenti il rischio sarà di degradare in maniera irreversibile un patrimonio inestimabile di storia, cultura, economia, bellezza, paesaggio, Natura che è di tutti noi e chiunque ha il diritto di godere e il dovere di tutelare. Anche contro certe figure politiche così strafottenti verso di esso e, appunto, verso di noi tutti.