Ladìis en Gentlemen (Siòre e Siòri), ecco a voi la nuova frontiera del divertimento sulla neve! Derapate nei boschi, salti sui pendii, serpentine sfrenate in ogni prateria innevata, e i più fighi di tutti riusciranno anche a impennare! Più nessun candido manto di neve resterà intonso: «easy to ride, easy to transport, easy to store, more Fun»! E tutto questo SOSTENIBILE! Già, perché la cosa è 100% elettrica! Come i taser della Polizia, esatto! Potrete rompere i cogl… ehm, divertirvi come matti su ogni montagna innevata sentendovi dei VERI ambientalisti con la coscienza a posto! E nel caso che impennando vi ribalterete e la cosa vi finirà in testa ammazzandovi, diranno di voi che sarete morti difendendo la Natura. Che volete di più?
Come dite? «Come può essere “sostenibile” una cosa del genere solo perché è elettrica?» Che domande! Lo è perché c’è scritto così!
Come dite ancora? «Non sarebbe meglio andarsene a piedi, sulle montagne, in armonia con l’ambiente e per godersi il paesaggio con calma?» Razza di trogloditi, ma certo che no! E ciò perché easy to ride, easy to transport, easy to store, more Fun! Mica pizza e fichi, eh!
Ah, che meraviglia la tecnologia contemporanea al servizio della salvaguardia della Natura, vero? Eh già, siamo proprio “Sapiens”, non c’è che dire!
Destagionalizzazione è un altro di quei termini divenuti dei “mantra” nella promozione turistica contemporanea e nella comunicazione politico-istituzionale di sostegno ai progetti di “sviluppo turistico” e di infrastrutturazioni varie circa i quali si voglia convincere l’opinione pubblica della loro bontà. Probabilmente ve ne sarete accorti anche voi.
In realtà il termine ha un’etimologia di matrice economica, e indica il «metodo statistico atto a identificare e rimuovere le fluttuazioni di carattere stagionale di una serie storica che impediscono di cogliere correttamente l’evoluzione dei fenomeni considerati. Ad esempio il calcolo dell’indice della produzione industriale, la cui serie “grezza” (non destagionalizzata) presenta una brusca caduta nei mesi estivi a causa della chiusura di molte fabbriche o imprese» (fonte qui) per cui, togliendo i dati di quel periodo fuori norma, si destagionalizza il calcolo rendendolo più obiettivo e credibile.
Nell’ambito turistico “destagionalizzazione” ha assunto un significato comunque di natura economica, riferito alla pratica di «Ampliare la propria offerta turistica, organizzando un evento in un periodo dell’anno diverso da quello in cui comunemente è collocata l’offerta principale. Pratica diffusa, che viene messa in atto soprattutto nelle località balneari. Un esempio ampiamente discusso è Viareggio: il Carnevale ha fatto sì che la città oltre ad essere molto visitata nel periodo estivo, goda di un buon numero di turisti anche in inverno.» (fonte qui). La destagionalizzazione dell’offerta turistica impone un «ripensamento dell’offerta turistica con uno sforzo comune offrendo formule di turismo lento e sostenibile, responsabile ed eco-culturale, enogastronomico e del benessere.» (fonte qui).
È interessante quell’appunto, nella seconda citazione riportata, che segnala come la destagionalizzazione turistica sia una pratica diffusa soprattutto nelle località balneari. Fatto sta che, dal Covid in poi più che per quanto accaduto prima, stia apparentemente diventando una pratica assai in voga anche tra le località sciistiche montane. Apparentemente, ribadisco, dacché l’impressione vivida che se ne ricava è che la “destagionalizzazione” supposta da molte località montane pressoché totalmente vocate allo sci su pista sia in realtà un tentativo di spalmare lungo più mesi l’anno le pratiche turistiche massificate e banalizzanti che caratterizzano lo sci contemporaneo, puntando alla lunaparkizzazione spinta delle montagne per ricavarne una fruizione massimamente monetizzabile tanto quanto la meno culturale e responsabile possibile. In sostanza si vorrebbe praticare l’opposto di quanto l’accezione economica originaria del termine “destagionalizzazione” indica: non tanto un metodo per evitare i periodi turisticamente meno intensi ma per espandere il più possibile i periodi intensi e più massificati dunque impattanti, degradanti, banalizzanti i territori montani in oggetto. Un luna park alpestre, con tanto di giostre d’ogni sorta, aperto non più solo per quattro o cinque mesi l’anno ma per dieci o undici, senza alcun ripensamento autentico dell’offerta di pratiche turistiche «con uno sforzo comune offrendo formule di turismo lento e sostenibile, responsabile ed eco-culturale», come indicato nella terza citazione, ma tutto l’opposto: una negazione sempre più assoluta di qualsiasi pratica turistica che non sia quella legata alla monocultura sciistica e ai modelli del più pernicioso turismo di massa. Modelli che, ove non sia messa in atto un’accurata e oculata gestione in senso generale, hanno provocato e stanno provocando danni un po’ ovunque i quali evidentemente non vengono minimamente considerati dai promotori di quei progetti di “sviluppo turistico” che, come ho già detto (scritto) più volte, sembrano fermi agli anni Settanta del secolo scorso, come se nulla fosse accaduto in seguito fino a oggi ovvero come se la realtà sociale, culturale, economica, ambientale e climatica dei territori di montagna fosse rimasta immutata e restasse immobile, sospesa dalla realtà.
Ma cosa è veramente sospeso dalla realtà? La montagna o chi la pensa nel modo appena descritto?
Be’, a questo punto permettetemi un finale sarcastico: non è che da “destagionalizzare” veramente, prima della montagna, siano quelli che si arrogano il diritto e il potere di soggiogarla alle loro illogiche iniziative, destagionalizzandoli (sinonimo di “rimuovendoli”, nella definizione economica citata in principio) in modo che non possano più fare danni né in inverno e in estate e nemmeno negli altri periodi dell’anno?
La notizia dal titolo che vedete nell’immagine lì sopra, tratta dal sito web del “Giornale di Brescia” che l’ha pubblicata lo scorso 11 novembre (cliccateci sopra per leggerla), è di quelle che da un lato confortano e dall’altro inquietano.
Confortano perché, a fronte delle infrastrutture «per far rinascere e riscoprire la montagna, rendendola attrattiva per gli sportivi» (cito dall’articolo) piazzate sul Piz di Olda, bella vetta di oltre 2500 m che fa da pietrone d’angolo tra la Valle Camonica e la laterale Val Saviore, con un passato da seconda linea bellica a poca distanza dal fronte che nel corso della Prima Guerra Mondiale sconquassava l’Adamello, evidentemente qualcuno dei promotori delle opere ha capito di averla fatta troppo grossa ovvero di non poter riuscire a nascondersi come avrebbe voluto davanti alle mancanze di autorizzazioni segnalate dall’articolo nonché all’impatto delle opere così allegramente (e troppo rapidamente, appunto) installate sul Piz di Olda. Monte che, d’altro canto, per quanto sopra esposto non viene affatto messo al riparo dal pericolo che i promotori delle “passerelle” non ci riprovino a imporle e a esaltarle come “sviluppo della montagna” o cose simili, trovando la scappatoia burocratica consona a saltare a piè pari, in perfetto e italico stile, le numerose e evidenti criticità delle installazioni, a partire dalla presenza del vincolo ambientale sul territorio in questione.
Da ciò infatti nasce l’inquietudine che, dall’altro lato, suscita la notizia – queste come le molte altre che si possono leggere con sempre maggior frequenza sui media: l’inquietudine del constatare come vi siano amministratori pubblici di territori particolarmente pregiati, sotto molti aspetti sia materiali che immateriali, e anche per questo delicati dunque necessitanti di una particolare competenza politico-culturale, che con tale sconcertante leggerezza (ovvero per altre loro “doti” che evito di citare per non sembrare troppo irrispettoso e offensivo) promuovano, acconsentano nelle loro sedi istituzionali e giustifichino opere così stupide, oltre che così decontestuali e volgarmente impattanti sul territorio. Ma come è possibile che non capiscano ciò che fanno? O forse bisogna nuovamente pensare che capiscano benissimo e se ne disinteressino totalmente di quanto sanno di capire?
Certamente qualcuno potrà ribattere a tali domande spontanee rimarcando il fatto che si tratti di piccole cose, niente di devastante, e che tanto sulla vetta dell’Olda già alcuni ci arrivano con la propria bici. Be’, ciò invero rappresenta una buona ragione in più per non realizzare le opere previste, e che la storia del turismo alpino di massa insegna bene che in molti casi le più grandi e degradanti “turistificazioni” delle montagne nascono proprio da piccole opere, trascurate dai più e magari in origine pure “apprezzate” ma già manifestanti perfettamente la mancanza di cultura, cura, attenzione e progettazione nei confronti dei territori in cui sono state realizzate. Ma scusate, poi: sviluppare il turismo di montagna significa che chiunque possa pretendere di poter arrivare dovunque o quasi? Su ogni vetta adatta al caso, in ogni luogo incontaminato, in ogni angolo che sia in qualche modo vendibile e monetizzabile? Se non tutti sono in grado di salire una certa montagna, in qualsiasi modo lo si faccia, ci sarà un valido motivo, no? Valido, peraltro, anche per non poter pretendere di salirci comunque attraverso la realizzazione di percorsi facilitati che in realtà quella montagna la banalizzano e la degradano nel valore geografico, alpinistico, culturale.
[Panoramica della vetta del Piz di Olda, con sullo sfondo l’Adamello, tratta da www.montagnecamune.it.]Ecco, veramente io mi chiedo perché chiunque «adora il brivido, le pedalate intense e faticose, i tecnicismi sulle due ruote» debba necessariamente andare fino ai 2500 m del Piz di Olda e solo grazie a un percorso artificiale brutto e avvilente, quando poi sulla vetta già i bikers più bravi ci arrivano superando a modo loro gli ostacoli naturali lungo il percorso (siamo in alta montagna, mica sul lungolago di Lovere, no?). Che senso ha? Forse che la Valle Camonica non offra sufficienti percorsi di ogni genere per gli amanti delle pedalate montane senza il bisogni di piazzarci manufatti artificiali? Forse che l’andare in bicicletta sui monti debba necessariamente significare “brivido”, “pedalate intense”, “tecnicismi” e ciò valga ovunque, ovvero dovunque qualche amministratore locale privo di scrupoli e soprattutto di attenzione e cura verso i propri territori acconsenta di poter andare? È questo il nuovo “turismo green e sostenibile” che si vorrebbe proporre quando non imporre – visti gli andazzi – per i nostri territori montani? E ribadisco la domanda fondamentale, al riguardo: è questa la montagna che vogliamo? È questa la montagna che gli amministratori pubblici sostenitori di tali opere vogliono ingiungerci? Un luogo totalmente deprivato della sua cultura e trasformato sempre di più in un adrenalinico parco giochi nel quale non contano più la storia, le geografie, le narrazioni secolari, le comunità residenti, le potenzialità culturali, le bellezze naturali ma solo il brivido e i tecnicismi? Ribadisco di nuovo: non conta l’entità degli interventi, non la forma e non tanto la visibilità ma principalmente la sostanza e la proposta, politica, culturale, imprenditoriale, turistica, che essi manifestano, e che rischia di diventare la norma per il contesto territoriale in questione.
Sarebbe molto interessante e importante se gli amministratori pubblici locali rispondessero a tali sollecitazioni. Sarebbe bello se manifestassero il coraggio di farlo e al contempo se finalmente prendessero l’impegno di evitare i soliti slogan sullo “sviluppo della montagna”, sulle “opportunità da cogliere”, sulla “lotta allo spopolamento” oppure i termini “green”, “sostenibile” e compagnia cantante. Sarebbe importantissimo se mostrassero la capacità di presentare una progettualità strutturata e a lungo termine pensata ad hoc per il territorio e capace di formulare per esso prospettive concrete, coerenti, realmente innovative, in grado di mettere al centro di tutto le comunità residenti costruendo su di esse e sul loro buon futuro lo sviluppo del territorio, in senso economico, ecologico, sociale, antropologico, culturale.
Se invece non fossero in grado di fare quanto sopra, o se credessero di esserne capaci ma solo in base a mere convinzioni immateriali di matrice funzionalmente politica, be’, dovrebbero rendersi conto di avere già fallito. E che purtroppo con le loro iniziative insensate rischierebbe di fallire anche tutta la montagna, come è già accaduto altrove quando si sia preteso di intervenire con opere del tutto fuori contesto per inseguire tornaconti particolari a discapito dell’interesse e del benessere collettivo. Veramente gli amministratori pubblici camuni vogliono assumersi una responsabilità del genere?
[Foto di Emibuzz, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte: commons.wikimedia.org.]La recente introduzione di un biglietto d’ingresso (di 3 Euro) per visitare Corenno Plinio, meravigliosa località dalla lunga e affascinante storia sulle rive del Lago di Como, sinceramente mi lascia alquanto perplesso. I promotori dell’iniziativa – ovvero le amministrazioni pubbliche locali con il supporto di quelle regionali – sostengono che il denaro ottenuto dovrà servire per la manutenzione della località, piccola ma ricca di emergenze storiche e artistiche (a partire dal fascinoso Castello Andreani), a conseguente vantaggio del suo sviluppo turistico, il che parrebbe una motivazione comprensibile per l’introduzione del “pedaggio”. Tuttavia, è notizia delle ultime ore che la stessa Soprintendenza ai Beni Culturali pare lo abbia bocciato adducendo il fatto che «non rispetta le norme del Codice dei Beni Culturali», ovvero che «il regolamento non può considerarsi redatto secondo l’art. 103 del Codice dei Beni Culturali, in quanto il borgo di Corenno, secondo quanto definito dallo stesso Codice dei Beni Culturali, non può essere considerato “luogo pubblico della cultura” né “complesso monumentale”, e non vi è stata alcuna intesa col Ministero della Cultura.»
Ora, al di là delle conseguenti, immancabili beghe politiche che ne stanno scaturendo, trovo che far pagare un “pedaggio” per la visita di un luogo pubblico per giunta ordinariamente abitato – quantunque lo si definisca «museo a cielo aperto» ma in modo piuttosto superficiale nonché culturalmente discutibile, dal momento che una località abitata, pur pregevole, non può certo essere definita “museo” – sia un metodo parecchio arbitrario e per questo inevitabilmente controverso e controvertibile, il quale interpreta in modo fin troppo funzionale sia la pratica di tutela del patrimonio artistico e storico pubblico sia il concetto di place experience elaborato dalla sociologia del turismo contemporanea, ovvero un porre il luogo al centro delle strategie turistiche non per sostenerne i bisogni fondamentali e di conseguenza la vitalità sociale e civica (cioè quanto fa della località un luogo, un soggetto vivo e non un mero oggetto fruibile) quanto per sfruttarne troppo materialmente il richiamo turistico. Inoltre si crea un precedente che di sicuro è ben difficile da coniugare a realtà che pur possano sembrare apparentemente simili: il paragone con Civita di Bagnoregio è comprensibile ma piuttosto fuorviante e, in ogni caso, il pagamento del biglietto lì in vigore sta generando notevoli criticità culturali e di banalizzazione del luogo. D’altro canto ogni luogo fa a sé, possiede proprie caratteristiche e proprie esigenze anche dal punto di vista turistico: il pensare l’opposto è una delle grandi colpe imputabili al turismo di massa contemporaneo e a chi lo gestisce politicamente. È un precedente che genera il rischio effettivo per il quale ogni luogo che possa vantare anche minime attrattività spendibili in senso turistico finisca per pretendere un proprio “innegabile” pedaggio – seppur quanto sostenuto dalla Soprintendenza dovrebbe disinnescare tale rischio: ma siamo in Italia, paese nel quale ogni campanile suona le proprie campane come vuole pur quando vi siano norme specifiche al riguardo.
Un rischio invece ben concreto che ho già potuto riscontrare altrove, in circostanze assimilabili, è che alla base di iniziative come quella di Corenno Plinio si nasconda un sostanziale smarcamento degli enti pubblici di primo e secondo livello (province e comuni, in sostanza) sia “morale” che materiale, che si concretizza in una deresponsabilizzazione verso il luogo e le sue esigenze totalmente poste a carico degli enti locali, in primis i comuni, all’apparenza resi economicamente in grado di sostenersi in modo autonomo. Ciò consentirebbe ai soggetti pubblici superiori di risparmiare sui finanziamenti da destinare al luogo adducendo al riguardo una buona scusa (peraltro in un panorama generale di tagli dei contributi statali al settore culturale ormai “storicizzato”). D’altro canto, l’eventuale elargizione di finanziamenti pubblici a località e comuni dotati di queste entrate “turistiche” creerebbe una palese disparità nei confronti di altri comuni che ne sono privi, peraltro sia da una parte che dall’altra: il comune che ha il ticket può e deve ottenere meno soldi pubblici di chi non lo ha? E come si può quantificare una proporzione che sia equa e determinata, se per sua natura l’introito dei ticket è di misura variabile?
Insomma: pagare un pedaggio per accedere ad un luogo pubblico le cui valenze culturali pur significative risultano accessorie alla principale funzione residenziale (sia essa soddisfatta anche solo da pochi abitanti) mi sembra realmente una forzatura sotto molteplici aspetti e un’imposizione le cui motivazioni a sostegno risultano ben più deboli delle effettive obiezioni e delle problematiche che si generano. Non voglio dire che sia un sistema da cassare tout court ma, senza alcun dubbio, così imposto e giustificato, appare culturalmente e civicamente forzato nonché potenzialmente nuocente l’immagine turistica del luogo, anziché risultare per essa attrattivo. Infine, temo che queste pratiche di autosostentamento finanziario messe in atto dai soggetti pubblici non siano altro che l’ennesima conseguenza dell’arretratezza dell’Italia in tema di stanziamenti a sostegno del settore culturale (vedi sopra), che il recente Art Bonus ha solo parzialmente mitigato e al quale si lega l’atavico scollamento nostrano tra mondo imprenditoriale e panorama culturale per il quale, da noi, è assai rara – e non viene nemmeno granché coltivata – una pratica filantropica a sostegno di beni di pregio della collettività da parte di soggetti privati, che invece in molti paesi esteri è una parte importante del sostentamento economico e dell’attività degli enti culturali. A tal riguardo, un luogo come Corenno Plinio, autentico piccolo ma prezioso gioiello del Lario, forse meriterebbe un’attività più condivisa e coordinata di gestione e sviluppo della sua attrattiva culturale, e di rimando turistica, tra pubblico e privato, che sappia attivare pure un proficuo fundraising tra quei soggetti – i cosiddetti portatori d’interesse o stakeholders – che potrebbero essere coinvolti nel sostegno filantropico, ribadisco, delle emergenze storiche, architettoniche e artistiche del borgo, così come di tante altre località di pregio assimilabili di cui l’Italia è ricca – ma verso le quali fin troppo carente di cura.
In ogni caso, ticket o non ticket, di sicuro ciò che più conta è che Corenno Plinio – per citare la visione illuminante dell’antropologo Vito Teti – non venga trasformato in un mero “borgo” ma resti un paese vero, ovvero rimanga un luogo vivo e vissuto, non un «postoillusorio, un piccolo paradiso in cui vivere da turisti, con tutti i comfort, e poi tornare a casa» (cito sempre Teti) per di più “musealizzato” con tanto di biglietto d’ingresso: una tale eventualità non rappresenterebbe la valorizzazione della località ma la sua rovina. E credo che nessuno, a fronte di tanta bellezza, storia, paesaggio naturale e umano, cultura, voglia e vorrà correre un rischio così grande.
Ossimòro: s. m. [dal gr. ὀξύμωρον, comp. di ὀξύς «acuto» e μωρός «stupido», con allusione al contrasto logico]. – Figura retorica consistente nell’accostare nella medesima locuzione parole, espressioni o immagini che esprimono concetti contrarî.
Ecco. Ora, l’immagine che vedete lì sopra, tratta dal profilo Instagram di una celeberrima località sciistica (chi abbia un minimo di conoscenza delle montagne la saprà identificare facilmente, credo) ma riproducibile in ciò che mostra in chissà quante altre, a me va benissimo, nel senso che è una località famosa, siamo nel clou della stagione sciistica, è ovvio che ci sia il pienone di turisti e che a tali turisti siano offerti certi servizi di accoglienza, svago e ricreazione in quota, e l’economia locale, e l’indotto… Posso capire, in un contesto del genere mi può stare bene, lo ribadisco, gioco forza o meno.
Tuttavia, a essere sinceri, a me quell’immagine mi pare proprio un’efficace rappresentazione visiva del termine «ossimoro», già.
Magari sbaglio, non dico di no. Però la mia impressione fondamentale al riguardo, dal primo istante in cui ho osservato l’immagine, è quella espressa. Inesorabilmente.