Innevamento artificiale e risorse idriche di montagna: (ri)facciamo il punto della situazione

[©canva, 4FR, fonte www.cipra.org/it/notizie.]
Uno degli argomenti più dibattuti in tema di innevamento artificiale – i cui impianti hanno già cominciato a sparare “neve tecnica” in molte località alpine, al fine di preparare le piste alla prossima stagione sciistica – è quello legato al consumo di acqua dei cannoni piazzati ormai sulla grande parte delle piste italiane. Dell’argomeno me ne sono occupato più volte, nello specifico ad esempio qui e in altre occasioni con questi articoli.

Ovviamente i gestori dei comprensori sciistici, spalleggiati dalle aziende che realizzano gli impianti di innevamento artificiale, sostengono che non vi sia spreco di acqua:

«La neve artificiale è composta esclusivamente da acqua e aria, senza l’aggiunta di altre sostanze. Grazie a un processo di atomizzazione, gocce d’acqua vengono raffreddate e trasformate in cristalli di neve tramite l’uso di appositi generatori. Questo procedimento permette di replicare un fenomeno naturale, garantendo però maggiore prevedibilità e sicurezza per la stagione sciistica. L’acqua, quindi, non viene sprecata né inquinata: viene semplicemente trasformata in neve e restituita all’ambiente con il disgelo primaverile.» Così ad esempio scrive l’ANEF, l’Associazione Nazionale Esercenti Funiviari, che rappresenta buona parte degli impiantisti italiani.

[Cannoni già in azione sulle piste di Madonna di Campiglio a inizio ottobre, visti dal satellite Sentinel-2. Immagine di Alessandro Ghezzer.]
Le associazioni ambientaliste la pensano inevitabilmente in maniera opposta. Ecco ad esempio cosa sostiene Legambiente:

«Il sistema di innevamento artificiale non è una pratica sostenibile e di adattamento, dato che comporta consistenti consumi di acqua, energia e suolo in territori di grande pregio. In particolare, l’associazione ha fatto la seguente stima: considerando che in Italia il 90% delle piste è dotato di impianti di innevamento artificiale il consumo annuo di acqua già ora potrebbe raggiungere 96.840.000 di m³ che corrispondono al consumo idrico annuo di circa una città da un milione di abitanti.»

Tra i due “litiganti” c’è un terzo che è necessario ascoltare, non fosse altro che per l’autorevolezza sperimentale, cioè basata su dati e rilievi certi, delle proprie affermazioni al riguardo, ed è il mondo scientifico. In tema di risorse idriche montane Carmen de Jong è una delle massime autorità europee: è professoressa di idrologia all’Università di Strasburgo e da oltre 35 anni conduce ricerche sulla scarsità d’acqua e sui pericoli naturali nelle regioni montane di tutto il mondo.

Bene: la professoressa de Jong ha espresso le proprie idee ben chiare sul tema in questo articolo (con intervista audio annessa) pubblicato sul sito web della CIPRA, la Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi: in base ai propri studi e al lavoro pluridecennale svolto sul campo, de Jong critica il turismo sciistico alpino sostenendo che è stato raggiunto un punto di svolta pericoloso. Il consumo di acqua per l’innevamento artificiale è elevatissimo; spesso si attinge persino alle falde acquifere, con gravi conseguenze per l’uomo e la natura. E più della metà di quest’acqua va persa.

[Foto di moerschy da Pixabay.]
Nel corso dell’intervista (della quale trovate la trascrizione in inglese qui) de Jong afferma:

«Ormai quasi nessuna stazione sciistica può funzionare senza innevamento artificiale. E penso che la maggior parte degli sciatori e dei turisti non sappia che questa massa bianca è composta da acqua e che è molto, molto complicato portare quest’acqua sulle piste da sci. Non si tratta semplicemente di acqua che esce da un cannone sparaneve o da una lancia, ma dietro c’è un’infrastruttura immensa, davvero immensa e molto complessa, che viene ampliata e modificata continuamente.

L’innevamento artificiale viene preparato ogni notte nelle grandi stazioni sciistiche con veicoli diesel e, naturalmente, si produce sempre più neve, non solo perché la superficie coperta da neve si è ampliata, ma anche a causa del cambiamento climatico, poiché la neve deve essere reintegrata spesso, rimane al suolo per meno tempo, quindi naturalmente serve più acqua e tale acqua non è più disponibile localmente, motivo per cui vengono costruiti sempre più bacini idrici, anche a quote molto alte, dove i bacini idrografici sono semplicemente troppo piccoli per riempirli. Questo significa che gran parte dell’acqua deve essere pompata da valle e il problema non è solo questo: in alcuni casi non ce n’è nemmeno abbastanza e si pompa acqua direttamente dalle falde acquifere. Quindi, a mio parere, avendo lavorato in questo settore per molto tempo, abbiamo raggiunto un punto di svolta molto pericoloso, dove stiamo arrivando al nocciolo della questione, all’acqua di falda sicura che molti comuni utilizzano anche per l’acqua potabile.

Poi ci sono le controargomentazioni delle stazioni sciistiche, che dicono, sì, consumiamo risorse idriche ma l’acqua rimane nel suo ciclo, la stiamo solo usando, e non è vero che la vegetazione ne viene danneggiata. Sono tutte argomentazioni fastidiose perché non scientifiche. Non è vero che l’acqua rimane al 100% nel ciclo perché ne evapora molta di più rispetto a quanto farebbe se rimanesse nel sistema naturale. L’acqua deve evaporare quando nevica, fa parte del processo. Inoltre l’acqua evapora anche nei grandi bacini idrici, che si riscaldano, e naturalmente ci sono anche perdite lungo il percorso, spesso tubature difettose e così via. Anche l’SLF (l’Istituto svizzero per lo studio della neve e delle valanghe, n.d.L.) ha pubblicato uno studio su questo argomento qualche anno fa: da esso emerge che in media circa il 35% dell’acqua viene perso, ma questa percentuale può arrivare anche al 60%.

Ciò significa che le valli alpine o i pendii sottostanti si stanno letteralmente prosciugando. E io ho già lavorato su esempi molto specifici, su alcune specie vegetali che si sono estinte: vi stiamo ancora indagando.

E alla domanda finale dell’intervista circa il futuro delle stazioni sciistiche alpine, de Jong rimarca:

Di futuro ce n’è molto poco. Per quanto riguarda il turismo sciistico alpino, continuerà ancora per qualche anno e poi finirà molto rapidamente. Stiamo assistendo a un aumento delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici, anche più di quanto previsto dai modelli, e penso che lo sci finirà molto rapidamente per vari motivi, ma soprattutto per quanto riguarda la questione dell’acqua e della sua disponibilità.»

Ecco, questo è il punto della situazione in tema di neve artificiale e acqua. Ognuno può trarre le proprie considerazioni ovvero proporre ulteriori osservazioni di qualsiasi sorta, che siano ben argomentate e comprovate.

L’inevitabile fine dello sci, anche per chi non ci vuol credere

P.S. – Pre Scriptum: dissertare di sci e neve anche in piena estate? Certamente! Perché la crisi climatica e le dinamiche socio economiche che condizionano il turismo sciistico non fanno le ferie estive, e perché quanto accade sulle montagne ha bisogno di costante attenzione e visione lunga nel tempo: qualcosa che sovente manca, nella gestione del turismo invernale – e le conseguenze negative di ciò si vedono, purtroppo.

[Le piste di Nara, stazione sciistica in Valle di Blenio, Canton Ticino, senza neve nel febbraio 2023.]

Il cambiamento climatico sta trasformando la Svizzera e questo è particolarmente evidente nelle regioni turistiche. “L’aumento delle temperature è fatale per le attività turistiche sugli sci”, afferma Monika Bandi, direttrice del Centro di ricerca sul turismo dell’Università di Berna. “A ciò si aggiungono precipitazioni intense più frequenti in estate, inverni con meno pioggia e lo scioglimento del permafrost, che può rendere instabili i pendii”.
Il problema maggiore legato all’aumento delle temperature riguarda però le località di sport invernali. “Garantire 100 giorni all’anno con un manto nevoso di 30-50 cm sta diventando sempre più irrealistico”, afferma Bandi. Secondo una scheda informativa di Funivie Svizzere, l’isoterma di zero gradi salirà di altri 300 metri entro il 2050. In futuro, le precipitazioni cadranno più sotto forma di pioggia che di neve, soprattutto all’inizio e alla fine dell’inverno. La stagione sciistica sarà quindi più corta. I cannoni da neve non potranno compensare questa mancanza, poiché funzionano solo nei giorni con temperature inferiori a 0 °C.
Quanto saranno profonde le trasformazioni per le stazioni sciistiche svizzere è difficile da prevedere. “Oggi non sono più molti i bambini che imparano a sciare”, osserva Monika Bandi. Tra 10 o 20 anni, s’interroga la ricercatrice, ci sarà ancora il desiderio di spendere 80 o 100 franchi per una giornata sugli sci?
Anche l’associazione Funivie Svizzere prevede un calo della domanda nella sua strategia di adattamento. Già oggi, oltre 60 impianti di risalita sono all’abbandono e con l’aumento delle temperature il loro numero è destinato a crescere.

[Brani tratti dall’articolo Come il cambiamento climatico mette sotto pressione il turismo in Svizzera, pubblicato su “Swissinfo.ch” il 15 luglio 2025.]

C’è poco da commentare e molto da riflettere, a fronte di tali evidenze. In Svizzera da tempo lo stanno facendo, in Italia molto meno. Certo li posso capire, i gestori dei comprensori sciistici, messi ormai con le spalle al muro dalla crisi climatica, dalla situazione economica, dal cambio dei costumi e delle abitudini di chi frequenta le montagne in inverno.

[Immagine tratta da www.radiocittafujiko.it.]
Ma a fronte della comprensione delle loro difficoltà, quei gestori (e i loro sodali, soprattutto in politica) devono a loro volta comprendere che in molte località l’attività sciistica è ormai al capolinea (se non già oltre) e che la loro perseveranza nel continuare a mantenerla e a rifiutare la transizione a forme di frequentazione turistica invernale più consone ai tempi non è affatto una forma di resilienza ma un’imposizione di sofferenza alle montagne e alle loro comunità, tenute in ostaggio di quel loro business ormai esaurito e per ciò incapaci – ovvero privati degli strumenti al riguardo – di sviluppare ogni altra forma di economia ecosistemica locale. Realtà ancora più grave nel caso in cui i finanziamenti pubblici, invece di sostenere lo sviluppo socioeconomico locale, vengano impiegati per realizzare nuovi impianti e piste di discesa a quote dove ormai lo sci è ormai qualcosa di utopico.

È difficile cambiare, certamente, ma è altrettanto ineludibile: altrimenti non saranno solo gli impianti e le società che li gestiscono a fallire e chiudere ma l’intero territorio che li ospita. Un’eventualità che non è possibile accettare, in nessun modo.

Contro le previsioni del tempo “mainstream” (Repetita iuvant!)

Riprendo e continuo la mia donchisciottesca “battaglia contro i mulini a vento” della meteorologia mainstream (uso questa definizione per differenziarla dagli istituti meteorologici seri e meno inclini al clickbait).

Ecco tre cose da mettere in atto, a mio parere, al fine di poter ritenere ancora credibili tali servizi meteo mainstream:

  1. Le previsioni del tempo tornino a essere tali ovvero una previsione, cioè una supposizione, un’ipotesi, una possibilità per nulla certa, salvo rari casi, che le condizioni meteo siano di un certo tipo e non di un altro, e ciò sia chiaramente evidenziato. Che non siano più un mero pontificare meteorologico come spesso appaiono e certi servizi meteo pretendono che siano.
  2. Posto il punto 1, che le “previsioni del tempo” siano diffuse con l’uso di forme verbali al condizionale. «Domani potrebbe piovere», non «domani pioverà». Primo, perché l’imprecisione e l’inaffidabilità di molti bollettini meteo rende quei verbi indicativi al presente o al futuro incongrui; secondo perché il condizionale, oltre a essere più coerente, educa le persone a non affidarsi ciecamente alle previsioni e al contempo va pure a vantaggio (o a tutela) degli stessi servizi meteo.
  3. Sia decisamente disincentivata la diffusione delle previsioni del tempo che vadano oltre le 48 ore: sono illogiche e inaffidabili oltre che antiscientifiche. Ancor peggio quella delle tendenze («Come sarà la prossima estate?»), vera e propria invenzione da rotocalco di costume del tutto infondata che infatti spesso diventa autentica panzana. Un servizio meteo che si dice serio e vuol mostrarsi affidabile si dovrebbe rifiutare di diffonderle.

[Una cosa parecchio frequente: le previsioni del tempo in TV annunciate da bellissime ragazze in abiti sexy. Un po’ come rimarcare che, siccome le previsioni saranno facilmente errate, almeno il fatto che sia una bella ragazza a proferirle rende il tutto meno innervosente – alla faccia delle convenzioni di genere, già!]
Una cosa da attuare da parte di noi tutti, infine: al netto della scelta personale di non seguire più certe previsioni del tempo (che qui non posso sostenere ma solo perché non sta bene farlo), dovremmo recuperare quelle conoscenze tanto spicciole quanto profonde in grado di farci interpretare i segni e del cielo della Natura riguardanti l’evoluzione meteorologica. Spesso più dei (presunti) supercomputer dei servizi meteo, le previsioni le azzeccano certi vecchi adagi popolari, tanto vernacolari quanto basati sull’esperienza di secoli e la conoscenza dei luoghi e delle loro caratteristiche geografiche e naturali, dunque localmente più validi. D’altro canto, le informazioni al riguardo ci possono venire da innumerevoli elementi dell’ambiente naturale d’intorno, dalle nubi in cielo, dagli animali, dai venti, da certi fiori… semplicissime nozioni da libro delle elementari ma sovente parecchio attendibili: per leggerle e comprenderle bastano un minimo di conoscenza e un altro minimo di sensibilità e di curiosità verso la Natura. Niente di più.

Infine, se per una volta vi prendete una bella lavata per colpa d’un acquazzone imprevisto, be’, che sarà mai? Quante volte l’avrete presa nonostante i bollettini meteo letti sui social o visto in TV non lo prevedevano? E dunque, che cambia? Per giunta, se il fenomeno non è troppo intenso (ma questo è un altro discorso, ovviamente), il mondo naturale è bellissimo e affascinante anche sotto la pioggia o comunque in condizioni di “brutto tempo”, come ho ribadito tante volte. Basta coltivare un po’ di giocosa sensibilità in più e un tot di greve lamentosità in meno mantenendo sempre attivo il buon senso. E, nel caso, vedrete che della continua e a volte compulsiva visione dei bollettini meteo ne sentirete molto meno il bisogno. Ecco.

P.S.: se cliccate qui trovate un tot degli articoli da me scritti in passato a proposito di “previsioni (sbagliate) del tempo”.

Momenti unici (e impensabili) di estatica contemplazione

[Foto di Baptiste Lheurette da Pixabay.]
Trovo regolarmente qualcuno che si sorprende a sentirmi raccontare – o a leggere ciò che ne scrivo – di essere andato in montagna in giornate che abitualmente definiamo “brutte”, piovose o nevose, con cieli grigi, foschie diffuse e nebbie e tutti quegli altri elementi meteo-climatici che, appunto, non ci fanno pensare a quelle giornate come “belle”.

Ma, come sostengo a ogni simile occasione a costo di diventare noioso, in montagna le giornate brutte non esistono (salvo rarissimi casi di oggettiva rischiosità): ciascuna di esse, serena, piovosa, sfavillante di luce o grigia di nebbia, è una giornata a sé, è un unicum che diventa tale non solo per le sue caratteristiche ambientali ma perché noi lo siamo nel qui-e-ora che vi esperiamo in quella particolare circostanza, diversi da com’eravamo il giorno prima e da come saremo l’indomani, o come cinque anni fa oppure tra dieci esattamente come diverso è il luogo in cui ci muoviamo e con il quale interagiamo – cambiano le condizioni meteo, le stagioni, i colori della vegetazione, del cielo, le luci e le ombre, le vedute, le percezioni, le emozioni, gli avvistamenti di animali selvatici, le persone che incrociamo e magari con le quali ci fermiamo a scambiare due parole. È la rielaborazione costante della nostra relazione con il luogo e il suo prezioso arricchimento: a ogni elemento esperienziale precedente si aggiungono quelli nuovi, per quanto sopra differenti, e la prossima volta se ne aggiungeranno di ulteriori, ancora diversi. Come cambia il paesaggio esteriore, cambia quello interiore che introiettiamo nel nostro andare in ambiente, nel caso aggiornando quello che ci si era già depositato dentro in forma di mappa cognitiva personale nelle precedenti occasioni.

Tuttavia c’è un elemento, per certi versi più oggettivo ma non di meno fondamentale, che mi rende così piacevole vagare per le montagne (io vado lì, ma il principio è lo stesso per ogni altro luogo che possa offrire simili circostanze e esperienze) quando il tempo è “brutto”. Nel caso in cui le giornate sono belle, il clima è favorevole e l’intero territorio splende alla sua massima bellezza, in buona sostanza si ritrova la condizione che riteniamo di norma sperata e ideale per camminarci, vagarci, esplorarlo, ricavarci la più ampia soddisfazione: ed è così, ovviamente, nulla si può dire al contrario. O quasi: perché invero, quella massima bellezza dei luoghi c’è anche nelle condizioni ambientali peggiori, solo che da esse ne viene celata oppure ci costringe a non considerarla come potremmo proprio perché ci tocca restare maggiormente sensibili a quelle condizioni più o meno disagevoli. Passatemi la definizione: le giornate belle in montagna sono ciò che ci aspettiamo di trovare, sono la normalità, l’ovvietà attesa, sperata, ciò che rende tangibili le nostre aspettative come le abbiamo desiderate immaginando la gita da compiere. Il clima perturbato, invece, in qualche modo ridona mistero ai luoghi e ai loro paesaggi, li rende meno attendibili, costringe ad acuire verso di essi e il moto nelle loro geografie una maggior sensibilità che invece la giornata di pieno Sole non richiede, conferendoci un ben maggiore comfort. Giornate così belle nelle quali, forse, il Genius Loci del territorio nel quale stiamo non si fa vedere, si tiene nascosto, abbagliato da tanto sfavillio e per ciò timoroso di non essere considerato come meriterebbe. Per poi invece disvelarsi nuovamente proprio quando le condizioni si fanno meno confortevoli e dunque vi è necessità della sua presenza, del suo aleggiare sul luogo così da rimetterne in luce l’anima, e l’identità peculiare – che ci sono sempre, ripeto, con il bello e il brutto tempo.

[Foto di Полина Андреева da Pixabay.]
Le nebbie e le foschie che si sfilacciano intorno a punte, valloni, canali ridefiniscono a ogni istante le forme dei monti regalando spesso percezioni inedite delle loro morfologie e della presenza geografica nel territorio d’intorno, i boschi si ammantano di un’aura incantata, la pioggia che bagna il terreno consente il rilascio di innumerevoli olezzi naturali che altrimenti rimarrebbero sopiti, la neve ridefinisce dimensioni, forme, distanze oltre che i colori, variando spesso in modo sorprendente i registri cromatici della Natura. È la perturbazione della normalità, l’eccezione alla regola abitualmente sperata e magari invocata ma più superficialmente che per altri motivi, il cambio di prospettiva immateriale che, pur lasciando il luogo intatto nella sua materialità, lo ammanta di un’estetica e di una dimensione differente, capace – come detto – di donarci altrettanto differenti sensazioni, percezioni, visioni, emozioni ed esperienze del luogo, che accresceranno grandemente in noi la sua conoscenza e, ne sono certo, la voglia di tornarci di nuovo, per rivivere una tale perturbazione e raccoglierne l’inopinata contemplazione ogni volta come un dono che sarà sempre diverso dal precedente e dal successivo.

Ecco, la conquista di questi eccezionali, unici momenti di estatica contemplazione è forse ciò che più di altra cosa mi fa andare per monti anche nelle “giornate brutte”: perché ormai so bene di ritrovarli anche lì, ogni volta, immancabilmente, e come sempre arricchenti la mente, il cuore, l’animo e lo spirito come poche altre cose sanno fare.

N.B.: l’ispirazione alla base di questi miei pensieri viene da Franco Michieli, il più originale esploratore italiano e mio prezioso conoscente, che ne ha scritto in altri modi su Le Vie insivibili, l’ultimo suo libro pubblicato, del quale vi scriverò presto.