A Bormio sta per arrivare il treno?

No, non sta per arrivare il treno a Bormio, come forse molti penseranno nell’osservare la nuova passerella pedonale sul torrente Frodolfo inaugurata qualche giorno fa. Sembra in tutto e per tutto un ponte ferroviario, già, ma l’idea concepita più di un secolo fa di far continuare la linea ferroviaria della Valtellina oltre Tirano fino a Bormio e poi collegarla a quella altoatesina tramite un traforo sotto lo Stelvio è ancora mera utopia, purtroppo.

Fatto sta che, al netto della sua utilità e funzionalità, la nuova passerella è veramente brutta e fuori contesto. D’altro canto fa il paio – anzi, il terno* – con il nuovo Ski Stadium in costruzione per le Olimpiadi, che ha le forme di un ordinario capannone industriale (date un occhio qui e ditemi se non è vero), e con la sua “Family Lounge”, soprannominata “l’acquario” oppure “la fermata degli autobus” per quanto li ricordi. Niente a che vedere con una bella e ben pensata architettura montana, in pratica. Li vedete entrambi qui sotto:

Opere brutte, ribadisco, che non generano alcun dialogo con la geografia montana locale e con il paesaggio che la contraddistingue: è ammissibile che a fronte della loro poca o tanta utilità si debba accettare tale loro bruttezza? Oppure bisogna temere che le forme disgraziate e decontestuali che le caratterizzano siano un’ennesima manifestazione della scarsa cura, attenzione e sensibilità dei decisori pubblici e politici nei confronti del territorio amministrato nonché di quanto degradata sia la relazione culturale che essi intrattengono con le loro montagne?

[Per dire: questa è la nuova passerella pedonale sulla “Gola” del torrente Valsura/Falschauer a Lana (Bolzano). Come paragonare l’oro con il fango, insomma.]
Ribadisco il mio pensiero: la montagna è un ambito tanto meraviglioso quanto delicato che non può ammettere un’eccessiva superficialità negli interventi che vi vengono realizzati, i quali invece abbisognano di logica, contestualizzazione, reale (non solo presunta) sostenibilità e, soprattutto, di cura nei riguardi del territorio in cui vengono inserite. Purtroppo a Bormio, ultimamente, non mi pare che ciò stia accadendo.

Insomma: voi che speravate di poter raggiungere la Magnifica Terra bormina in treno dovrete aspettare ancora qualche anno. O lustro, o secolo, visto come vanno certe cose nel nostro paese.

In ogni caso a breve “tornerò” a Bormio, per occuparmi di nuovo dell’altra grossa, inquietante questione che minaccia la località valtellinese, quella della “Tangenzialina dell’Alute”. C’è poco da stare allegri, lassù.

(*: secondo alcuni è addirittura una quaterna, con riferimento alla ristrutturazione del “Pentagono”, il centro sportivo comunale.)

Dalla distrazione nei confronti del paesaggio alla sua distruzione il passo è breve

Nonostante quanto drammaticamente registrato dalle statistiche periodiche sul consumo di suolo, e pure nonostante l’intelligenza e la coscienziosità che da Sapiens dovremmo manifestare di default, mi pare che restiamo sempre troppo svagati riguardo la cura verso i territori che abitiamo e la sensibilità nei confronti dei paesaggi di cui facciamo parte.

Siamo indifferenti, noncuranti, impassibili quando non favorevoli – per meri interessi personali – al consumo degli spazi ancora non antropizzati, come fossero qualcosa di infinito. Una nuova strada? Ma sì, sarà larga solo qualche metro, cosa volete che sia? Un nuovo capannone industriale tra i campi? Tanto di terreno ce n’è ancora un sacco e poi chi lo coltiva più?! Delle nuove piste da sci o delle funivie tra i boschi o su qualche versante montano incontaminato? E vabbé, ce ne sono ancora tanti di alberi e di montagne senza impianti!

Così ecco una nuova strada, poi un’altra, poi un’altra ancora; un nuovo capannone, poi un altro un po’ più grande accanto e quindi altri nelle vicinanze; una nuova funivia in questo vallone, un’altra in quello accanto e poi altre sul versante contiguo… eccetera eccetera eccetera, fino a che di quello spazio che sembrava infinito ne resta ben poco e quel che resta è ammorbato e degradato da tutto ciò che è stato costruito attorno nel mentre che ce ne stavamo fermi a dire «che sarà mai?» e ad accusare gli altri di esagerazione, “catastrofismo” e cose simili.

[Il cantiere della “Pedemontana” nei boschi di Bernate di Arcore (Monza-Brianza). Immagine tratta da www.mbnews.it/.]
Quando si crede e ci si convince senza averne contezza o solo per convenienza che una cosa è senza fine, quella cosa finirà molto prima di quanto si possa immaginare. E se quella cosa che rischia di finire è il mondo in cui viviamo, l’ambiente naturale, il paesaggio, il Sapiens intelligente e coscienzioso dovrebbe capire che tale circostanza è inammissibile: a consumarsi non sarebbe solo il suolo ma pure la vita che si sviluppa in esso e di chi lo abita.

[Le Acciaierie”, centro commerciale abbandonato a Cortenuova, Bergamo. Immagine tratta da www.ilpost.it.]
Ecco: pare che di Sapiens intelligenti e coscienziosi come di norma dovremmo essere non ce ne siano in giro molti e, se ci siano, sovente voltino le spalle dalla parte opposta rispetto al proprio paesaggio e a come e quanto venga consumato.

Dalla nostra distrazione verso il mondo che abitiamo rischia di scaturire la sua distruzione. Possiamo permetterci di correre un rischio del genere?

Io credo proprio di no.

N.B.: nell’immagine in testa al post, dell’amica Annamaria Gremmo, vedete il Vallone delle Cime Bianche, territorio alpino valdostano pressoché incontaminato e privo di antropizzazione che qualche non Sapiens al quale non importa nulla del suo prezioso paesaggio naturale vorrebbe distruggere installandoci degli impianti funiviari al servizio dello sci. Una bieca e deprecabile vicenda della quale, se seguite il blog, sarete già a conoscenza – in ogni caso gli articoli nei quali ne ho scritto li trovate qui.

«A Milano le cose non vanno bene!»

[Foto Ansa/Fotogramma tratta da milano.corriere.it.]

A Milano le cose non vanno bene. Dopo il Covid il turismo non si è più ripreso, le persone non hanno più soldi perché la città è troppo cara e gli stipendi sono troppo bassi. […] Mancano i servizi che dovrebbe avere per aiutare le imprese. La metro chiude a mezzanotte: io ho i ragazzi della brigata e della sala che alle 23 devono andarsene altrimenti non sanno più come rientrare a casa. E anche i clienti: dopo una certa ora i mezzi pubblici scarseggiano. […] Sotto casa mia hanno rubato due auto e scippato una signora in pieno giorno, e abito in centro.

Di Milano scrivo spesso perché la considero a tutti gli effetti una città alpina, e non solo perché le vette delle Alpi appaiono vicine – come effettivamente sono – nell’orizzonte cittadino settentrionale, ma anche per il fatto che la storia di Milano è strettamente legata a ciò che in città è giunto dalle montagne (risorse naturali, persone, culture, saperi) e quindi, dall’Ottocento in poi, è la storia delle montagne lombarde a essersi legata a doppio filo con quella del capoluogo lombardo, nel bene e a volte nel male. D’altro canto è la stessa Milano a considerarsi “città alpina”, essendosi candidata e avendo ottenuto l’assegnazione delle prossime Olimpiadi invernali, ospitandone alcune gare.

[Foto tratta da milano.repubblica.it.]
Per tutto questo, la trasformazione di Milano in una aurea e scintillante scatola vuota trovo che sia una circostanza ancora più grave di quanto già non potrebbe essere per qualsiasi altra città. Ormai se ne stanno rendendo conto tutti eccetto le amministrazioni politiche in carica e gli affaristi loro sodali: le parole citate lì sopra dello chef Felice Lo Basso, cinque stelle Michelin, a suo modo “voce” di quella parte della comunità milanese che non dovrebbe avere troppo problemi a vivere in città e invece li ha eccome, sono alquanto significative della realtà cittadina di fatto e identiche a quelle che da qualche tempo si possono sentire da persone della più varia estrazione, milanesi di nascita o d’adozione che Milano sta espellendo fuori dalla città, verso la periferia o altre zone dell’hinterland, più vivibili e accessibili, così da fare spazio alla sua sempre più ingombrante immagine. Lo Basso, potendolo fare, invece chiuderà il suo ristorante di Milano e andrà a Lugano: non esattamente tra le località più economiche ma, evidentemente, molto meglio della metropoli lombarda.

[Immagine tratta da www.ilmessaggero.it.]
Ribadisco di nuovo ciò che Lucia Tozzi ha scritto nel suo “L’invenzione di Milano”, un libro che è sempre più necessario leggere, soprattutto se si è milanesi o se alla città e alla sua anima si tiene ancora: «È in atto la privatizzazione della città pubblica, dei suoi spazi e delle sue istituzioni sociali e culturali. […] Milano propone una grande illusione collettiva, una grande allucinazione, dove ciò che rimane è la disneyficazione delle città e la foodification.»

D’altronde, questa Milano sempre più finta e vuota di senso urbano appare parecchio consona con ciò che saranno le sue (e di Cortina) Olimpiadi, a giudicare da come stanno andando le cose: dovevano essere sostenibili e invece saranno variamente impattanti, ambientalmente e non solo, a basso costo e invece costeranno tre o quattro volte più del previsto, in grado di sviluppare i territori coinvolti che invece vengono e verranno sfruttati, cementificati, infrastrutturati con opere pensate male e dal futuro già ora incerto quando già ora palesemente inutili, e senza che le comunità residenti siano state interrogate al riguardo e coinvolte nei processi decisionali – a loro volta espulse, in buona sostanza, dal tempo e dalla storia (nonché dalla vita politica) delle loro stesse montagne.

Di questa passo, subito dopo l’inno olimpico durante la cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi, a Milano si potrà solo far risuonare e recitare il De Profundis.

Milano-Cortina 2026: Olimpiadi non bellissime da vedere, per ora

[Immagine tratta dalla pagina Facebook “Milano Scalo Romana“.]
A Milano sono stati tolti i ponteggi agli edifici del Villaggio Olimpico in costruzione per i giochi di Milano-Cortina 2026 sull’area dell’ex scalo ferroviario di Porta Romana (qui sopra una veduta), svelandone l’aspetto pressoché definitivo. E scatenando numerose critiche: il sito “urbanfile.org” parla di un «aspetto esterno veramente minimal che lo fa sembrare un blocco ex sovietico» (osservazione molto condivisa, questa), altri li definiscono «alveari di cemento», «un incrocio tra un carcere e un ospedale», «ecomostri in pieno centro» e così via. Veramente pochi, di contro, gli apprezzamenti. Naturalmente sul web potete trovare numerose immagini che possono aiutare a farvi un’idea della questione.

Posto che il cantiere non è concluso e che intorno agli edifici deve ancora essere realizzata l’area verde che correderà il villaggio (il quale dopo dovrebbe diventare uno studentato a prezzi calmierati), l’aspetto certamente poco gradevole degli edifici milanesi mi sembra faccia il paio con altre opere olimpiche in costruzione ugualmente spiacevoli alla vista e a volte pure decontestuali ai luoghi. Ad esempio il nuovo “Ski Stadium” di Bormio, del quale scrissi già qui (lo vedete nell’immagine sottostante): una specie di dozzinale capannone industriale piazzato in fondo alla pista “Stelvio” che non c’entra nulla con niente, lì.

In considerazione delle moltissime condivisibili rimostranze che le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 stanno generando fin dal loro annuncio, ovviamente non rivolte all’evento in sé ma a come lo si sta realizzando, in particolar modo riguardo le opere previste e il relativo esborso di denaro pubblico (la nuova pista di bob di Cortina ne è un esempio lampante), mi viene da pensare che la scarsa gradevolezza estetico-architettonica di quelle opere sia un’altra conseguenza, o effetto collaterale, del discutibile modus operandi olimpico in divenire. Ovvero: se un evento ben fatto e ben organizzato stimola opere altrettanto ben fatte e di bell’aspetto (così che da tale cura estetica l’evento acquisisca pure valore, prestigio e consenso generali, peraltro), realizzazioni così poco gradevoli non possono che far temere la condizione opposta.

Vedremo se finirà veramente così oppure se le cose miglioreranno, da qui al 6 febbraio 2026, data d’inizio delle Olimpiadi. La speranza è l’ultima a morire, come si dice.

«Un punto di accoglienza strategico per i “migranti verticali” in fuga dalle città» (a un’ora da Milano)

(Articolo pubblicato in origine su “L’AltraMontagna” il 30 settembre 2024.)

I Piani Resinelli sono senza dubbio una delle località montane più emblematiche delle Alpi lombarde. Posti sopra Lecco a 1300 m di quota, a un’ora d’auto da Milano e ai piedi delle celeberrime Grigne, sono stati culla dello sci (nel 1913 vi si disputò il primo campionato italiano assoluto) e poi dell’arrampicata su roccia, ma col tempo sono scivolati nelle dinamiche del turismo mordi-e-fuggi più massificato e degradante, a volte imposto da una politica locale poco attenta alle grandi potenzialità del luogo. Oggi cercano di invertire una sorte altrimenti segnata anche grazie a Resinelli Tourism Lab, una realtà di recente costituzione che propone e sperimenta nuovi modelli di sviluppo turistico partendo da presupposti culturali differenti. Ne ho parlato con Sofia Bolognini, co-fondatrice di RTL (e “neo-montanara” che ha scelto di vivere con la propria famiglia ai Piani) per “L’Altra Montagna”:

Come è nato Resinelli Tourism Lab e soprattutto perché avete sentito il bisogno di creare un “laboratorio turistico” per una località così significativa e nota come i Piani Resinelli?

L’idea ci è venuta subito dopo la fine del primo lockdown da Covid-19. Complice l’inaugurazione di un’attrazione turistica di massa (una passerella panoramica a strapiombo nel vuoto, che è subito diventata oggetto di reel da migliaia di views), nel momento delle riaperture l’intensità dei flussi ha rapidamente superato la capacità di carico della località. Colonne di automobili, grandi quantità di spazzatura abbandonata sui sentieri: i segni più evidenti lasciati dall’overtourism, che ormai abbiamo imparato a riconoscere. Ma ci sono anche segni meno evidenti: la progressiva perdita dell’identità e della memoria storica locale, i disagi vissuti dalla comunità residente. I Piani Resinelli sono sempre stati una località attrattiva: il turismo, però, ha tanti volti. Da un lato può contribuire a generare ricchezza per chi vive e lavora sull’altopiano; dall’altro, può cannibalizzare le risorse, distruggendo i servizi per i residenti e favorendo lo spopolamento. Dopo gli anni d’oro dell’alpinismo, questo luogo è stato la culla dello sci alpino lombardo. Sono ancora visibili i resti degli impianti dismessi, i grandi alberghi abbandonati tra cui il grattacielo, icona di un modello turistico che ha fatto grandi danni prima di collassare e fallire. Fin da subito, quindi, siamo nati con l’idea di sperimentare nuovi modelli di sviluppo turistico, partendo da presupposti culturali differenti.

[Veduta dei Piani Resinelli con lo sfondo della Grigna Meridionale, o Grignetta, e in primo piano il “famigerato” grattacielo, simbolo nel bene e soprattutto nel male della località.]
Di recente vi siete costituiti APS, Associazione di Promozione Sociale. Un obiettivo che finalizza la prima parte di vita della vostra realtà e al contempo rappresenta l’inizio di un nuovo percorso, conseguente al primo ma certamente pure diverso. Perché avete intrapreso questa decisione e qual è il piano d’azione che avete immaginato per il “nuovo” Resinelli Tourism Lab?

I Piani Resinelli non sono un piccolo Comune di montagna, ma un territorio diviso in 4 comuni e due comunità montane diverse. Per un motivo o per l’altro, è sempre mancata una comunità locale vera e propria. Quando siamo nati speravamo di poter attrarre attorno al progetto questa comunità ancora invisibile, aiutandola ad emergere. E così è accaduto: nel tempo, le persone sono arrivate. Oggi l’associazione nasce per essere un punto di riferimento sul territorio: tra i soci ci sono residenti, proprietari di seconde case, esercenti e operatori, ma anche appassionati, persone che amano il territorio e desiderano prendersene cura mettendo a servizio le proprie competenze. Il “nuovo” Resinelli Tourism Lab è un corpo collettivo, che si muove sul territorio interpretando i bisogni di una comunità sfaccettata: persone con background ed esperienze diverse, competenze professionali, aspirazioni, desideri e aspettative.

[Panorama dei Piani Resinelli e in lontananza della pianura lombarda dai contrafforti della Grigna Meridionale. Immagine di Valeria Viglienghi tratta da montagnelagodicomo.it.]
Cosa sono i Piani Resinelli, dal vostro punto di vista? Quali le potenzialità e quali le criticità che presenta un luogo così particolare e per certi versi raro (è l’alta montagna più vicina in assoluto a Milano) e come si possono e devono (dovrebbero) gestire, secondo voi?

Senza dubbio, i Piani Resinelli sono la Grignetta. La Grigna è l’orizzonte di questo luogo, il suo carattere, la sua anima. È una montagna iconica, il simbolo cult per la vicina Milano, la riproduzione in scala del suo Duomo. Le fragilità riguardano l’affastellamento istituzionale e la facilità con cui a fasi alterne nel tempo si è scivolati verso un modello turistico estrattivo, diverso nei modi ma identico nella sostanza. Dai tempi dello sci a quelli della passerella panoramica. In un’ora e mezza è possibile partire da Milano e arrivare in Grigna. Una prossimità che può potenzialmente trasformare i Piani Resinelli in un vero laboratorio di innovazione metromontano. Il termine “Lab” per noi è molto importante. Fin da subito, siamo nati con l’idea di fare dei Resinelli laboratorio per un’Altra montagna. In questi anni abbiamo collaborato con università e centri di ricerca, abbiamo ospitato studenti e studentesse, nomadi digitali e smart workers. La possibilità di sperimentare processi di innovazione civica e costruire un ponte tra le terre alte e la metropoli urbana qui ha una dimensione di concretezza anche geografica. Con l’orizzonte del cambiamento climatico e l’aumento delle temperature, i Piani Resinelli possono essere un punto di accoglienza strategico per i migranti verticali in fuga dalle città sempre più torride: vorremmo che il territorio fosse gestito con questa prospettiva, ovvero quella di rafforzare i servizi per rendere possibili diverse forme di abitanza. […]

[Il bello e il brutto dei Piani Resinelli: sopra, la spettacolare Grignetta con le sue innumerevoli guglie (e il Grignone che spunta dietro di esse); sotto, il parcheggio principale della località, nei weekend caoticamente pieno di auto, di rumore, di gas di scarico.]
(Potete leggere l’intervista in versione completa su “L’AltraMontagna”, qui. Invece i numerosi articoli che nel tempo ho dedicato ai Piani Resinelli li trovate qui.)