«C’è qualcosa che non va bene, in questo tempo qui!»

Domenica pomeriggio sui monti sopra casa, 1000 m di quota, giorno 8 di ottobre.
Il termometro segna 25°, in pieno Sole si va oltre i 30°.
Sarebbe autunno ormai inoltrato.
Sarebbe, già.

Sono fuori da una locanda a chiacchierare con gente del posto, montanari vigorosi con i capelli già bianchi da un po’ e radici familiari ben profonde nel luogo. Calici di rosso d’ordinanza sul tavolo di pietra. È l’unico colore di quel genere visibile qui, dato che le piante non accennano proprio, se non minimamente, a vestire gli abiti autunnali.
Si sta bene all’ombra, inesorabilmente.
La conversazione si svolge per gran parte in dialetto locale, che italianizzo per evitare l’altrimenti certa incomprensibilità di chi non è di queste parti.
«Stamattina, alle 10, sono salito sul solaio ma non ci si riusciva a stare, sembrava di essere in un forno.»
«Trenta gradi, al dieci di ottobre. Non vanno bene le cose, così.»
«No che non vanno bene. Alle cinque ero al capanno (di caccia, n.d.L.), era pieno di zanzare! Le zanzare, a ottobre, a mille metri!»
«E le mie api, allora? Sono ubriache, ci sono le piante che con questo caldo stanno rifiorendo, non ci capiscono più niente!»
Passa una signora, ha una borsa piena di piccoli rametti raccolti nel bosco. Ci si scambiano i convenevoli del caso.
«Brava, niente di meglio di quelli per avviare il fuoco!»
«Io la stufa in casa l’accendo un attimo la sera ma giusto così per farla andare un po’, poi spengo che altrimenti si muore dal caldo, devo riaprire le finestre.»
«C’è qualcosa che non va bene, in questo tempo qui.»
«Già. Non va proprio bene.»
«No. Chissà come andiamo a finire, così.»
«Mah!»

Il locandiere appoggia sul tavolo un vassoio di caldarroste. In effetti solo il castagno sembra rimanere fedele ai suoi impegni stagionali. Forse è un albero talmente legato alla storia dell’uomo, e delle genti che abitano questi monti da secoli, che decide di star dietro al loro tempo e non a quello della Natura, non se la sente di lasciarle prive dei suoi frutti nel loro momento “giusto”. Anche se poi tanti restano a terra, non ce n’è più tanta di gente che va per selve a fare castagne.

«Sarà meglio che ti porti uno zampirone, per il capanno. Perché mi sa che il freddo non ha intenzione di arrivare, a breve.»
«Sì, sarà meglio. Tempo maledetto!»
«Già.»

Il tradizionale pragmatismo montanaro, quello che fa da base alla secolare resilienza di queste genti sulle loro montagne. Nessuna ecoansia, che come tutti gli stati emotivi indotti rischia di diventare mera e invalidante paura, ma un realismo che nasce dalla relazione costante con il luogo e con il divenire della realtà nonché dalla lettura obiettiva dello stato delle cose, di ciò che esprimono la Natura, le piante, il cielo, il tempo. Cose la cui tangibilità non si può negare (si verrebbe subitamente ritenuti rimbambiti), in un realismo funzionale a trovare sempre la soluzione migliore, o la meno peggiore, ai problemi che ci si trova ad affrontare, e che nella sua apparente semplicità si dimostra ben più saggio, e molto meno superficiale, di tante parole che si leggono o si ascoltano sui media.

Le ombre s’allungano, la luminosità si fa più intima, anche il Sole che scende a ponente in effetti continua a onorare i propri impegni stagionali. Probabilmente non se ne cura granché di noi qui sulla Terra. Fosse per lui saremmo – come siamo – effettivamente in ottobre, per il clima siamo a metà giugno o verso fine agosto.

Intanto oggi, lunedì, danno ancora quasi 30°, e domani pure.

Sarebbe autunno inoltrato, già.

Nessun bordello, in montagna

[La valle della Surselva, nei Canton Grigioni, Svizzera. Foto di Adrian Michael, opera propria, CC BY-SA 3.0, fonte commons.wikimedia.org.]

Una volta da giovane son dovuto scendere in macchina per un carico di rastrelli dal Giusep, poi grazie al cielo non mi è più successo, li avevo legati al tetto, dovevo consegnarli laggiù, mamma che casino di strade che hanno, non sai dove devi andare in quel bordello, semafori e strade e case e cartelli ma niente montagne con cui orientarsi, in questo noi ce l’abbiamo più facile, qui o sali o scendi la valle.

(Arno Camenisch, Ultima Sera, Keller Editore, 2013, traduzione di Roberta Gado, pag.70. Per la cronaca, Camenisch è originario della Surselva, la valle che vedete nell’immagine in testa al post nella quale sovente ambienta le sue narrazioni.)

In vacanza anche noi

[Coira, giugno 2010. Foto di Adrian Michael, opera propria, CC BY-SA 3.0, fonte commons.wikimedia.org.]

Un tempo si sarebbe voluto andare in vacanza anche noi, io da giovanotto qualche volta andavo a Coira, e mi sarebbe piaciuto berci un caffè, ma non ce n’era nemmeno per quello, altrimenti al ritorno avrei dovuto fare l’ultimo pezzo a piedi anziché in treno. E oggi corrono in vacanza da perdere le ciabatte, possibilmente in aereo, c’è da aver paura che ‘sti uccelli vengano giù dal cielo. E poi arrivano qui e ti cacciano via, dice l’Otto, chiudono le baracche e sprangano tutto quanto, sorride, leva la birra e il cappello e dice alla vostra. Il Luis scuote la testa, ti prendono a pedate con scarpe che non son mai grandi abbastanza.

(Arno CamenischUltima SeraKeller Editore, 2013, traduzione di Roberta Gado, pagg.42-43.)

Una bella chiacchierata

Quella con Tiziano Fratus a Colle di Sogno, in una domenica di fine ottobre brumosa, piovigginosa, convintamente e fascinosamente autunnale, è stata una delle chiacchierate letterarie più suggestive che abbia mai fatto, sviluppatasi intorno a Alberi millenari d’Italia, l’ultimo libro di Tiziano che allora era uscito da pochissimi giorni. Lo è stata per il prestigio dell’autore, per la curiosità verso il suo libro, per i temi affascinanti dei quali Fratus racconta in esso (e nei suoi altri pubblicati). E lo è stata per il luogo in cui eravamo: la vecchia scuola di Colle di Sogno, attiva fino agli anni Sessanta del Novecento, i cui locali nei giorni feriali facevano da classe unica per i bambini del borgo e nei fine settimana diventavano l’“Osteria Alpina” di Colle, una delle tre attive all’epoca, la cui insegna è ancora visibile all’ingresso dipinta in caratteri tipici. Un luogo minimo nella forma ma non nella sostanza, nel quale entrarci è come valicare una sorta di porta dimensionale verso uno spazio-tempo sospeso, ove tutto sembra fermo a più di mezzo secolo fa ma che d’altro canto rapprende in sé una vitalità ancora ben presente e in qualche modo atemporale, ancora narrante infinite storie, magari in modi flebili e all’apparenza evanescenti eppure del tutto chiari e sorprendenti, se si ha la sensibilità di coglierli. Il camino acceso, unica fonte di calore del locale nel quale eravamo, con il crepitare delle sue fiamme e i bagliori scaturenti e riverberanti sulle pareti ci ha riscaldato i cuori e illuminato le menti, così da rendere ancora più accogliente l’atmosfera e cordiale la chiacchierata.

Ci ho ripensato in questi giorni, a quella chiacchierata, ripassando accanto all’ingresso della vecchia scuola in una giornata di questo gennaio così scandalosamente serena e mite da sembrare inesorabilmente primaverile più che di pieno inverno, mentre in quella domenica di ottobre l’autunno era tanto intenso che già suscitava impressioni apertamente invernali. Anche per questo, io credo, è stata una così suggestiva giornata.

(Per chi ancora non conosca Colle di Sogno, può saperne di più visitando il sito web ufficiale del borgo, qui.)