Lasciano parecchio sgomenti le notizie (leggete questo articolo, ad esempio) che giungono in merito al futuro del Salone del Libro di Torino, principale evento dedicato alla letteratura e all’editoria in Italia, che appare quanto mai incerto per motivi diversi ma, soprattutto, per un buco nei bilanci da quasi due milioni di euro (dei quali 489.000 euro di “rosso” relativi alla sola ultima edizione), che al momento non è ripianato da nessuno degli enti coinvolti nella gestione della manifestazione.
Lasciano sgomenti, già, e non solo perché sorge spontanea la domanda su come sia possibile che un evento che anno dopo anno dichiara di superare i propri precedenti record di affluenza di pubblico, parallelamente e proporzionalmente aumenti il disavanzo di spesa fino alla insostenibilità finanziaria – ma ammettiamo che possa pure andare così, che l’investimento per la buona riuscita del Salone debba necessariamente considerare la possibilità che le uscite superino le entrate…
D’altro canto quelle notizie lasciano sgomenti anche perché negli ultimi anni è stato messo in atto, almeno nelle intenzioni (e parecchio strombazzato, bisogna notarlo), un notevole rilancio del Salone, grazie a un progetto con rimarcabili pregi e inevitabili difetti (senza che ora si valuti se gli uni fossero più degli altri o viceversa, non è questa la sede adatta) portato avanti in modo piuttosto inflessibile dal team guidato da Ernesto Ferrero, mente dell’evento torinese per lungo tempo. Possibile che non si sia parimenti panificata la sostenibilità finanziaria di esso?
Lascia sgomenti pure sapere che, almeno per quanto circola sui media al proposito, ufficialmente non c’è ancora un nuovo direttore, dal momento che Ferrero ha concluso il suo mandato e quello designato per la successione, Giulia Cogoli, ex numero uno del Festival della Mente di Sarzana, non ha ancora confermato il suo incarico, anche per ragioni economiche (si veda questo articolo per rendersi conto della confusione in essere al proposito), oltre che non ci sia c’è nemmeno un progetto editoriale per l’edizione 2016. Alla quale mancano pochi mesi, ça va sans dire, e sempre che non si voglia continuare sulla falsariga progettuale tracciata da Ferrero & C. nonostante il dissesto finanziario creatosi: cosa che credo pochi manager e/o imprenditori pur spericolati avrebbero il coraggio di fare.
Per tutto ciò, non può ovviamente valere (anzi, è ulteriore motivo di sgomento) la scusa che il Salone del Libro sia un evento no profit: voglio dire, buona cosa che una manifestazione dagli intenti culturali (o presunti tali) lavoro solo e soprattutto ad interesse di quelli e non di chi su di essi ci possa guadagnare, magari pure troppo (per via d’un pericolo di devianza meramente commerciale della gestione, ovvero organizzando un evento che in primis faccia guadagnare chi lo organizza, con tutto il resto da ritenersi secondario), d’altro canto al giorno d’oggi è fuor di logica immaginare l’esistenza di un evento che per manifestarsi perda un sacco di soldi, visti anche i tempi magri che stiamo passando.
Ma permettetemi di segnalare ciò che, più di quanto sopra e di ogni altra cosa, mi sgomenta: il fatto che il Salone del Libro, per il settore l’evento principale in Italia, come già detto, ovvero quell’evento che dovrebbe fare da motore per far girare al meglio l’intero comparto editoriale (e dunque anche letterario) nazionale, alla fine si è ammalato della stessa malattia – o crisi, profonda per giunta – di cui soffre l’editoria italiana, che dai grandi editori fino ai piccoli e indipendenti presenta bilanci e contesti finanziari drammatici, faticando sempre più a stare in piedi quando non presentando chiusure e fallimenti a frotte – includendo in ciò l’intera filiera di settore, dunque pure distributori e librai. Segno inequivocabile, insomma, di una situazione drammatica e di natura ormai pandemica, che coinvolge persino quegli elementi che fino ad oggi si pensavano ancora sani, al punto da affidar loro l’immagine migliore del comparto.
Ora, al di là che i debiti vengano ripianati o meno – e chiunque sia che lo potrà fare – viene inevitabilmente da meditare su un evento il cui futuro, almeno a breve, pare già drammaticamente cupo. Lavorare in perdita, ribadisco, è cosa contraria a ogni logica, non solo commerciale: e se vogliamo essere cinici fino in fondo, potremmo persino denotare come nonostante i celebrati successi di pubblico del Salone, pare che nessun effetto benefico sulle statistiche di lettura in Italia si sia concretamente avuto. D’altro canto, è difficile pure confutare l’idea che almeno un evento di portata internazionale relativo a libri, lettura ed editoria ci debba essere, in Italia: ripensato, riprogettato, modificato ovvero stravolto come e quanto si vuole (anche in considerazione delle frequenti critiche che ad esso sono state mosse dagli stessi attori del panorama editoriale e letterario) e naturalmente sostenibile in termini economici, ma ci vuole. Nella situazione precaria in cui si trova lo stato della lettura in Italia, temo d’altronde che la venuta meno del Salone finirebbe per peggiorare le cose anche più della sua permanenza in vita. Ciò pure a dispetto del sentore da alcuni generato su che dietro tutto quanto vi sia il progetto dei principali potentati editoriali nazionali di “scippare” il Salone a Torino per portarlo a Milano – sede dei potentati suddetti: potrebbe pure essere, ma al momento poco o nulla cambierebbe nella sostanza della questione.
Infine, e per considerare ogni opzione, potrebbero pure avere ragione quelli che ritengono il Salone del Libro l’ennesimo carrozzone mangiasoldi all’italiana, ancor più se foraggiato in maniera maggiore di prima per ripianare i debiti accumulati, ergo da eliminare tout court per pensare a qualcosa d’altro. Sempre che non si elimini da solo, ovvio.
Ribadisco: la situazione, che per i non addetti ai lavori s’è rivelata un po’ come il classico fulmine a ciel sereno, lascia mooooolto sgomenti. In un modo o nell’altro va sistemata, perché la lettura in Italia, e tutto quanto gira intorno, non può certamente sopportare altri “terremoti”, anche solo in termini d’immagine e di considerazione pubblica. Già dobbiamo combattere quotidianamente con l’affollato partito di quelli che “con la cultura non si mangia”; ci manca solo che “con la cultura si fanno debiti” e veramente la china da risalire, più che erta, diverrebbe verticale peggio di quella d’una parete patagonica!
P.S.: articolo pubblicato anche su Cultora, qui.