Vedo ma non ci credo

P.S. – Pre Scriptum: ecco un altro di quegli articoli scritti tempo fa – quattro anni per la precisione, gennaio 2018 ovvero quando il Covid non esisteva  – che se riletti oggi e meditati rispetto al mondo odierno e alla sua realtà, non perdono nulla del loro valore. Il che è sempre un brutto segnale: significa che il tempo passa ben più di quanto stiano passando certe mancanze umane. Anzi: essendo il tempo un concetto relativo semmai legato al moto, e non essendoci qui moto ma al contrario immobilità se non arretramento, è come se restassimo sempre più bloccati in un passato che ci ingloba e impedisce di andare verso il futuro. Il quale intanto scappa, e chissà quando lo si riprenderà.

Fino a qualche tempo fa, quando ci si trovava di fronte a qualcosa di dubbio oppure non lo si aveva davanti e dunque c’era la necessità di una relativa constatazione diretta, valeva la celebre “regola pseudo-evangelica” del “se non vedo non ci credo”.

Oggi, a quanto pare, l’analfabetismo funzionale pandemico sta sempre più imponendo una nuova “non regola”: non vedo ma ci credo. Alla quale l’unione di un’altra “regola” questa volta di genesi biblica, “vox populi, vox dei” (che oggi potrebbe essere drammaticamente aggiornata in “vox social, vox dei”), finisce per generare danni culturali (e dunque inevitabilmente sociali) spaventosi.

Vediamo invece di rendere valido un ulteriore e ben diverso “precetto”: vedo ma non ci credo. Ovvero, giammai l’invito a un relativismo rigido e radicale ma a verificare sempre e nel modo più articolato possibile una realtà prima di poterla ritenere una “verità”. Vedo ma ci crederò, insomma – dopo aver appurato ciò che mi è stato detto e/o spacciato per cosa certa.

È questione di qualche attimo, con le infinite possibilità informative e culturali disponibili grazie al web. Sì, appunto: mica ci sono solo i social – così come non c’è solo la TV – e mica vale più come un tempo il citato “vox populi, vox dei”. Perché se il popolo per sua ampia parte non capisce ciò che dice, state pur tranquilli che non ci sarà onniscienza divina che tenga. Anzi, l’esatto opposto, purtroppo per noi tutti.

(Immagine trovata sul web con testo in inglese, semplicemente tradotta.)

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Essere un po’ orsi

Ora, comunque, ditemi ciò che volete e guardatemi storto, se lo ritenete il caso, ma non potete negare che essere un po’ “orsi” – come effettivamente sono io, lo ammetto, nonostante la mia vena sociale a volte fervida e niente affatto repressa – è uno dei migliori metodi di autodifesa nel corso di una pandemia come questa. Si tornerà quanto prima possibile, mi auguro, a produrre tutti insieme socialità, assembramenti e baldorie, ma nel frattempo bersi una birra in distanziata solitudine non è ‘sta gran tragedia, alla fine.

N.B.: che poi sulla “solitudine” ci ho già disquisito in modo articolato, qui sul blog. Date un occhio a questo post, ad esempio.

L’irrefrenabile pandemia delle parole

P.S. (Pre Scriptum): scrivevo il post sottostante più di nove mesi fa, a marzo 2021, e mi pare che ancora oggi, forse anche più di allora, sia assolutamente, drammaticamente valido. E non mi sembra che siano in vista sviluppi positivi al riguardo: troppi sulla pandemia di parole inutili intorno al Covid ci stanno marciando – e magari pure guadagnando – alla grande. D’altro canto, da che mondo è mondo per le malattie prima o poi la cura la si trova, per certi cinismi e cert’altre meschinità è ben più difficile, purtroppo.

Comunque, se fin dall’inizio della pandemia la scienza si è impegnata nell’indagare la correlazione tra inquinamento atmosferico e diffusione del Covid-19, trovando significativi riscontri oggetto di un articolato dibattito scientifico (qui trovate una buona cronaca al riguardo), io credo che sarebbe finalmente il caso di indagare anche la correlazione tra propagazione del Coronavirus e sproloquiare mediatico, già. Dacché una cosa che io ritengo pressoché inconfutabile, generata dalla pandemia in corso, è stata l’aumento spropositato di parole a vanvera da parte di chiunque (o quasi) si sia ritrovato a parlare ad un media pubblico, le quali hanno generato un tale caos comunicativo e informativo da – io credo – aver influito inesorabilmente sulla situazione dei contagi rilevata in questi mesi.

Solo che io, be’, non sono virologo, epidemiologo, medico, scienziato o che altro, dunque mi verrebbe da invocare, alla comunità scientifica, la suddetta ricerca obiettiva e razionale al fine di comprendere meglio la questione. Una ricerca necessaria proprio in forza dell’irrazionalità della comunicazione che abbiamo subìto in questo ultimo anno, ecco.

Detto ciò, temo poi che anche stavolta da una tale ricerca e dalle sue potenziali evidenze non sapremo imparare nulla di buono e utile per il futuro: ma qui si tratta di un altro tipo di “pandemia”, di natura mentale, ormai congenita nell’uomo contemporaneo. Purtroppo.

La variante Omicron, ovvero noi e l’Africa

[Immagine di Fusion Medical Animation da Unsplash.]
E dunque ora ecco la variante Omicron del Covid-19. Che viene dall’Africa. Non a caso.

Leggo (clic) dal sito di Amref Health Africa:

  • Il Sudafrica (da cui proviene la nuova variante) rappresenta il Paese più colpito del continente, con 2.922.222 di casi e 89.179 decessi.
  • Al 24 novembre, è stata vaccinato completamente il 42,16% della popolazione mondiale. L’Europa al 57,29%; gli USA al 57,83%; l’Italia all’85%; l’Africa al 7,02%.

Il 7,02 per cento della popolazione africana, già. Che di contro rappresenta il 17% della popolazione mondiale.

Quante belle parole sono state spese negli anni scorsi (e ancora oggi) in generale sul tema dell’aiuto allo sviluppo dei paesi “poveri” e in particolare intorno alla questione dell’immigrazione soprattutto dai paesi africani, le quali parole poi si concentravano ad esempio intorno a quel “bellissimo” slogan (multinazionale, sia chiaro) «Aiutiamoli a casa loro»: la “soluzione perfetta” al tema e a ogni sua ricaduta su di noi dell’“Occidente avanzato”, no? Be’, ora che c’è una questione di gravità planetaria per la quale verrebbe facilissimo mettere in pratica il succitato slogan sbandierato per così tanto tempo con tutto il “pensiero” che ci sta al fondo, facendolo proprio in quel continente che guardiamo con inguaribile pregiudizio – il che significa mandare laggiù vaccini in numero adeguato, ovvio – che si fa? Si fa il 7 e briciole per cento, ovvero quasi il nulla. E poi ci arriva una nuova variante del Covid-19, forse assai pericolosa, proprio dall’Africa. Ma tu guarda il “caso”!

Insomma: chi semina vento raccoglie tempesta, chi non semina vaccini raccoglie varianti*. Ecco.

*: ovviamente è un principio generale che vale non solo per le questioni sanitarie ma per innumerevoli aspetti del rapporto tra la parte di mondo ricca (l’europea innanzi tutto) e quella meno, Africa in primis.

No vax? No way!

[Immagine tratta da lastampa.it, cliccateci sopra per leggere l’articolo dal quale è tratta.]
Mi pare evidente che questi poveri individui “no vax” e “no green pass” (che poi è la stessa cosa) che sfilano vestiti da deportati nei lager nazisti o insultano chiunque non la pensi come loro o blaterano di “dittature” e di “libertà” sovente palesandosi ideologicamente come l’esatto opposto siano persone con grossi problemi di disagio e di alienazione sociale, che cercano a tutti i costi di guadagnarsi un poco di attenzione molto probabilmente perché percepiscono, magari senza realmente comprenderlo, di non avere nulla, in sé e nella propria quotidianità, che qualche attenzione da chicchessia la meriti.

Questo però non giustifica affatto i loro atti pubblici e le loro parole, soprattutto nel caso in cui la libertà di pensiero e d’azione da essi goduta per fare quel che fanno e dicono diventa strumento di violenza oltre che di un livello di inciviltà e ignoranza che una società considerabilmente avanzata non può accettare e tanto meno sopportare.

Per tale motivo, credo che l’attenzione che pretendono attraverso quei loro atti pubblici così alienati e meschini e che purtroppo i media concedono troppo sia del tutto insensata e deleteria: vanno completamente ignorati e lasciati in preda al loro disagio e alla sorte “naturale” che gli spetta, che è quella di finire al di fuori della società civile. Sperando per loro – lo dico con inopinata magnanimità – che nel frattempo non finiscano dentro una terapia intensiva. Ecco.