L’irrefrenabile pandemia delle parole

P.S. (Pre Scriptum): scrivevo il post sottostante più di nove mesi fa, a marzo 2021, e mi pare che ancora oggi, forse anche più di allora, sia assolutamente, drammaticamente valido. E non mi sembra che siano in vista sviluppi positivi al riguardo: troppi sulla pandemia di parole inutili intorno al Covid ci stanno marciando – e magari pure guadagnando – alla grande. D’altro canto, da che mondo è mondo per le malattie prima o poi la cura la si trova, per certi cinismi e cert’altre meschinità è ben più difficile, purtroppo.

Comunque, se fin dall’inizio della pandemia la scienza si è impegnata nell’indagare la correlazione tra inquinamento atmosferico e diffusione del Covid-19, trovando significativi riscontri oggetto di un articolato dibattito scientifico (qui trovate una buona cronaca al riguardo), io credo che sarebbe finalmente il caso di indagare anche la correlazione tra propagazione del Coronavirus e sproloquiare mediatico, già. Dacché una cosa che io ritengo pressoché inconfutabile, generata dalla pandemia in corso, è stata l’aumento spropositato di parole a vanvera da parte di chiunque (o quasi) si sia ritrovato a parlare ad un media pubblico, le quali hanno generato un tale caos comunicativo e informativo da – io credo – aver influito inesorabilmente sulla situazione dei contagi rilevata in questi mesi.

Solo che io, be’, non sono virologo, epidemiologo, medico, scienziato o che altro, dunque mi verrebbe da invocare, alla comunità scientifica, la suddetta ricerca obiettiva e razionale al fine di comprendere meglio la questione. Una ricerca necessaria proprio in forza dell’irrazionalità della comunicazione che abbiamo subìto in questo ultimo anno, ecco.

Detto ciò, temo poi che anche stavolta da una tale ricerca e dalle sue potenziali evidenze non sapremo imparare nulla di buono e utile per il futuro: ma qui si tratta di un altro tipo di “pandemia”, di natura mentale, ormai congenita nell’uomo contemporaneo. Purtroppo.

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Due possibilità

[Foto di Gerhard G. da Pixabay.]
Io comunque vorrei (riba)dire, a quelli che guidano l’auto con in mano lo smartphone leggendo/ascoltando i messaggi delle chat o scrivendone/registrandone di loro, nel mentre che in forza di ciò quella loro auto procede a scatti, sbanda, supera la mezzeria, curva in contromano e quant’altro di analogo, che in tali circostanze hanno due possibilità: o accostare e fermarsi, per inviare i loro messaggi o leggere quelli degli amici senza ulteriori rischi per se stessi e per gli altri, oppure ribaltarsi alla prima occasione (o curva) utile, senza farsi del male ma distruggendo la propria auto ed eliminando così qualsiasi ulteriore rischio – per gli altri senza dubbio.

È una bella fortuna avere a disposizione due possibilità così diverse eppure, a loro modo, ugualmente interessanti, non trovate?

 

Come la Regina Elisabetta

Non so se sia stato per qualche complimento ricevuto particolarmente caloroso, per gli sguardi irresistibilmente dolci di una cagnetta oppure per aver ottenuto il proprio nuovo record personale di pupù giornaliera o per chissà quale altro motivo, ma temo che Loki, il mio segretario personale a forma di cane, si sia un po’ montato la testa.

L’altro giorno, mentre ero in auto con lui dietro, si è piazzato sul sedile in modo da poter salutare i passanti lungo le strade percorse che nemmeno la Regina Elisabetta durante il Trooping the Colour o qualche altra simile celebrazione “regale”, d’un tratto lamentandosi con sonori abbai perché – ho dedotto, forse – stessi percorrendo vie con poco o senza pubblico. Che diamine, mica potevo violare le zone pedonale e a traffico limitato solo per soddisfare questa sua bizzarra fregola!

Chiedo agli amici che convivono con cani: è capitato pure a voi qualcosa del genere? Se l’avete risolta, come? Non è poi che i cani che manifestino tale smania pretendano pure una sontuosa carrozza trainata da cavalli per farla ancora più “seria”, vero?

Ecco, per sapere eh!

Non c’è storia, tra blog e social – e non ci sarà mai!

Qualche giorno fa, su skande.com, è uscito un interessante articolo nel quale Riccardo Scandellari riflette sul rapporto odierno tra blog e social, ovvero tra contenitore e contenuti di entrambi nonché, inevitabilmente, tra relativi fruitori.
Vi invito a leggerlo perché parecchio interessante, appunto, e perché in effetti dice qualcosa che anch’io penso ormai convintamente da tempo: non c’è storia tra qualità dei contenuti dei social e dei blog. Se i secondi col tempo si sono via via raffinati, i primi si sono invece drammaticamente banalizzati, il che comporta dunque che oggi, nei blog, si possono spesso trovare ottimi contenuti e notevole creatività, spesso espressa in modi innovativi; nel frattempo, sui social, la celeberrima boutade di Umberto Eco sui “cretini del web” sta sempre più diventando la norma – purtroppo per i tanti che, invece, i social li usano in maniera intelligente ma la cui bontà espressiva rischia di essere nascosta dalla crescente e rozza caciara.
Così Scandellari conclude il suo articolo:

Il blog è ancora attuale, lo vedo dalla quantità di persone che mi contatta quotidianamente e che acquista i miei servizi attraverso esso. Sono sempre più convinto che dal blog passi una maggiore energia comunicativa. Chi arriva sul blog ti dedica la massima attenzione, non è distratto dalle decine di notifiche o dal continuo aggiornamento della news feed. Attirare le persone attraverso le ricerche e le condivisioni sui social è difficile, ma se guardiamo ai risultati in fatto di contatti, fiducia e buone percezioni erogate non lo cambierei con nessun post di Facebook da mille like.

Poco prima, Scandellari denotava che Facebook “Rimane comunque molto interessante per la promozione a pagamento”. D’altro canto mi viene da pensare che niente altro ci sarebbe da aspettarsi da una macchina per far soldi quale è il social di Mark Zuckerberg, il quale anzi, per meglio dire, è una macchina congegnata appositamente per ottenere la massima banalizzazione dei contenuti al fine di conseguire parimenti la massima ottimizzazione economica degli stessi, a favore dei suoi utenti paganti ma soprattutto a favore di sé stessa. Ed è giusto così, sia chiaro: semmai è sbagliato pensare che non debba esserlo (magari solo perché sia gratis e dunque tutto debba essere parimenti svincolato dalla pecunia!)

Tutto ciò con buona pace dei tanti che, in passato, hanno deciso di chiudere i propri blog per passare armi (digitali) e bagagli (espressivi) sui social, Io, piuttosto, sono sovente tentato di fare l’esatto opposto, ovvero andarmene dai social e cercare una ben più autentica socializzazione culturale (e non solo) al di fuori di essi, con il blog come dimora principale nella quale trovarmi – e viceversa.
Ci resto forse solo perché i social, stante la loro partecipazione ormai capillare, sono un’efficace sistema di ricerca e contatto personale immediato tra le persone, e perché voglio illudermi che rimbalzare su di essi gli articoli del blog possa portare qualche lettore interessato in più senza troppo sforzo.
Ma per tutto il resto, ovvero volendo pensare di pubblicare solo sui social contenuti di “spessore” e qualità o inerenti tematiche non esattamente “banali”, e assoggettandoli allo stupido meccanismo dei “like”, è un po’ come credere di poter dissertare dei benefici della quiete e del silenzio in uno stadio durante un derby. Anche se almeno, in uno stadio, le persone le hai accanto in carne e ossa e puoi realmente (ovvero umanamente) interagire con esse.

Il DDT, o Drogato da Telefonino (Stefano Benni dixit)

Creatura recentemente apparsa ma ormai tristemente nota. Il suo dramma non è il cellulare, ma la dipendenza, cioè il non saper rinunciare al telefonino nei luoghi più improbabili e nelle situazioni più scomode. Per questa ragione è detto DDT, ovvero Drogato Da Telefonino.
Ad esempio il DDT è appena entrato nel bar e il cellulare trilla mentre sta bevendo un cappuccino. Il DDT continua a bere con la destra e risponde con la sinistra, oppure intinge il cellulare nella tazza e si attacca una brioche all’orecchio. Va alla toilette telefonando, e dentro si odono rumori molesti, sciabordio, e schianti dovuti alla difficoltà di compiere certe operazioni con una mano sola. Spesso quando esce ha il cellulare grondante e strane macchie sui pantaloni.

(Stefano Benni, Bar Sport Duemila, Feltrinelli, Milano, 1997, pag.119.)

«Be’, che c’è di strano?» vi chiederete, leggendo questo passo del libro di Benni. Niente, se non fosse che (guardate la data di pubblicazione) è stata scritta 20 anni fa, e non c’erano ancora gli smartphone, i social, whatsapp e tutto il resto ma, con tutta evidenza, già si capiva come sarebbe andata a finire.