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L’irrefrenabile pandemia delle parole
P.S. (Pre Scriptum): scrivevo il post sottostante più di nove mesi fa, a marzo 2021, e mi pare che ancora oggi, forse anche più di allora, sia assolutamente, drammaticamente valido. E non mi sembra che siano in vista sviluppi positivi al riguardo: troppi sulla pandemia di parole inutili intorno al Covid ci stanno marciando – e magari pure guadagnando – alla grande. D’altro canto, da che mondo è mondo per le malattie prima o poi la cura la si trova, per certi cinismi e cert’altre meschinità è ben più difficile, purtroppo.
Comunque, se fin dall’inizio della pandemia la scienza si è impegnata nell’indagare la correlazione tra inquinamento atmosferico e diffusione del Covid-19, trovando significativi riscontri oggetto di un articolato dibattito scientifico (qui trovate una buona cronaca al riguardo), io credo che sarebbe finalmente il caso di indagare anche la correlazione tra propagazione del Coronavirus e sproloquiare mediatico, già. Dacché una cosa che io ritengo pressoché inconfutabile, generata dalla pandemia in corso, è stata l’aumento spropositato di parole a vanvera da parte di chiunque (o quasi) si sia ritrovato a parlare ad un media pubblico, le quali hanno generato un tale caos comunicativo e informativo da – io credo – aver influito inesorabilmente sulla situazione dei contagi rilevata in questi mesi.
Solo che io, be’, non sono virologo, epidemiologo, medico, scienziato o che altro, dunque mi verrebbe da invocare, alla comunità scientifica, la suddetta ricerca obiettiva e razionale al fine di comprendere meglio la questione. Una ricerca necessaria proprio in forza dell’irrazionalità della comunicazione che abbiamo subìto in questo ultimo anno, ecco.
Detto ciò, temo poi che anche stavolta da una tale ricerca e dalle sue potenziali evidenze non sapremo imparare nulla di buono e utile per il futuro: ma qui si tratta di un altro tipo di “pandemia”, di natura mentale, ormai congenita nell’uomo contemporaneo. Purtroppo.
Leggere Antonio Pennacchi
Ora che Pennacchi non c’è più, e di tale triste circostanza leggo un po’ ovunque sui media, la curiosità di leggere qualcosa di suo ce l’ho. E ammetto di trovare questa cosa un po’ imbarazzante, perché mi dico che potevo pensarci prima, quand’era ancora in vita, anche se per lui ovviamente non sarebbe cambiato nulla – forse invece per me sì, chissà. Ma sovente accadono queste cose un poco bislacche: come per certi artisti le cui opere in vita valevano cifre modeste e, dopo la dipartita, per la critica diventano capolavori e per i collezionisti acquisti milionari e contesissimi. Si usa dire in tali casi che la “morte rende famosi”, ma certamente è una considerazione piuttosto subdola; d’altro canto un altro grande scrittore (polacco), Stanislaw Jerzy Lec, fece un’altra considerazione apparentemente ovvia ma del tutto obiettiva e invero assai profonda: «La prima condizione dell’immortalità è la morte». È vero, nel bene e nel male, e se rimprovero a me stesso di non aver mai letto nulla fino a oggi di un autore così in vista, ora cercherò di mettere in pratica quell’osservazione di Lec proprio grazie a uno degli oggetti “immortali” per eccellenza, il libro. Di Pennacchi e di qualsiasi altro autore che mi ha attratto solo dopo la sua ora fatale, e sia nel caso che ciò mi permetta di formulare un apprezzamento che sarà postumo ma imperituro o che mi renda chiaro una volta per tutte il perché delle precedenti mancate letture, ecco.
La bandiera italiana e il Metternich
Ecco, queste iniziative io le trovo di una tristezza infinita e al contempo assai emblematica.
Si riduce la bandiera italiana a mero stendardo da tifosi (nonché a gadget commerciale) e di contro rimarca – indirettamente ma palesemente – l’assenza di un autentico sentimento culturale di appartenenza nazionale, visto che certifica che solo concrete “banalità” (in senso culturale, ribadisco) come la squadra nazionale di calcio riesce a “tenere insieme” la nazione. In un paese ricolmo di potenziali marcatori referenziali identitari di gran pregio come pochi altri al mondo, per giunta!
Comunque al riguardo non ci sarebbe nulla di male, se poi la consapevolezza identitaria nazionale – quale elemento culturale e antropologico, sia chiaro, mica altro di totalmente antitetico a ciò e sostanzialmente (ovvero “sovranisticamente”) indegno – sapesse manifestarsi in altri modi di maggior spessore e minor vacuità.
Ma, ribadisco, disse già tutto il buon vecchio Metternich più di 150 anni fa, già.
Sono solo canzonette (brutte)
C’è di peggio, però. Ho pure sentito, su una di quelle radio, un tal critico ovvero giornalista musicale affermare che mai come quest’anno il Festival sarebbe stato rappresentativo della scena musicale italiana. Be’, io, ascoltando le varie canzoni, ho maturato la convinzione che mai come quest’anno i brani sanremesi – salvo solo un paio, forse – siano particolarmente brutti. Piatti, insulsi, raffazzonati, banali. Non che potessi pensare il contrario, sia chiaro, ma senza dubbio, se veramente questa è la realtà musicale italiana attuale, con assai meno sconcerto rimpiango Il babà è una cosa seria di Marisa Laurito, ecco!