[Articolo originariamente pubblicato su “L’AltraMontagna” il 17 aprile 2025: lo trovate qui.]
[Il bacino dell’Albigna con la diga a gravità e, a monte del lago, l’omonima vedretta tra le cime del gruppo Masino-Disgrazia. Immagine tratta da www.rsi.ch.]Nella rilettura attuale di quella che si può considerare la grande epopea dell’industrializzazione idroelettrica delle Alpi, per la quale tra gli anni Venti e i Sessanta del secolo scorso furono realizzate centinaia di dighe con le relative opere atte al trasporto dell’acqua e alla produzione di energia elettrica, viene spesso evidenziata la contrapposizione tra l’importanza innegabile dei grandi manufatti idroelettrici per lo sviluppo non solo industriale dei paesi alpini, un aspetto certamente positivo, e il notevole impatto ambientale nei luoghi che ospitano i bacini artificiali, a volte situati ben oltre i 2000 metri, dal punto di vista dell’infrastrutturazione del territorio, della sommersione di nuclei abitati e dell’uso delle sue risorse idriche: un aspetto già all’epoca inesorabilmente critico e oggi, rispetto ad alcuni progetti di nuove dighe sui quali si dibatte (il più emblematico è quello del Vanoi, senza dubbio) considerato ancor più negativamente.
In effetti la gran parte dei progetti idroelettrici realizzati in quegli anni non prevedevano particolari forme di compensazioni a favore dei territori la cui acqua veniva sfruttata, se non quella indiretta e temporanea legata alla necessità di mano d’opera per la quale nei cantieri vennero impiegati migliaia di lavoratori dei territori montani limitrofi, e quella successiva derivante dalle concessioni idroelettriche pagate delle società dell’energia titolari delle derivazioni d’acqua. Tuttavia a questa situazione diffusa non mancarono eccezioni: una delle più significative in assoluto si trova in Svizzera a poche centinaia di metri dal confine italiano, in Val Bregaglia – uno dei territori di lingua italiana del Canton Grigioni.
[Veduta della Val Bregaglia con il paese di Vicosoprano; in alto verso sinistra si intravede parzialmente tra le montagne la diga dell’Albigna. Foto di Staublex, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]In una delle sue vallate laterali, la Val d’Albigna, nel 1959 venne inaugurata l’omonima grande diga a gravità, uno degli sbarramenti più spettacolari delle Alpi centrali in forza della sua posizione, sul ciglio di uno scosceso versante roccioso alto quasi mille metri che negli inverni più freddi si addobba di alcune grandi colate di ghiaccio (mentre prima della costruzione della diga ospitava una delle cascate più alte d’Europa), e del suggestivo bacino lacustre, circondato da verticali pareti di granito alpinisticamente molto rinomate e nel quale fino a qualche tempo fa confluiva la lingua glaciale della Vedretta di Albigna.
Si racconta che il 24 ottobre del 1954, quando gli elettori di Zurigo – alla cui EWZ (Elektrizitätswerk der Stadt Zürich), la società municipale di distribuzione dell’energia, appartengono le infrastrutture idroelettriche dell’Albigna – approvarono il credito finanziario per la realizzazione della diga, le campane di tutte le chiese della Val Bregaglia suonarono a festa. I lavori alla diga offrivano nuove prospettive economiche alle comunità di una regione periferica al tempo ancora legata all’economia sussistenziale di montagna, priva di attrezzature turistiche e a rischio di spopolamento; inoltre lo sbarramento sarebbe servito anche per eliminare il pericolo di inondazioni provocate proprio dalle piene del torrente Albigna, alimentato dalle acque di fusione dei ghiacciai della zona e dunque soggetto a piene improvvise e imprevedibili che periodicamente devastavano la vallata.
(Le immagini della galleria qui sopra sono di Anna Galliker, 2021, Hochschule Luzern – Technik & Architektur, tratte da www.architekturbibliothek.ch.)
Tuttavia, oltre al pagamento dei canoni per le derivazioni d’acqua atte a produrre un’energia che poi sarebbe andata a favore delle utenze di Zurigo e non della Bregaglia, la EWZ decise di realizzare anche qualcosa che nel tempo, cioè al termine della fruizione da parte della stessa società, sarebbe diventato un patrimonio significativo per l’intera valle: i due villaggi residenziali di Vicosoprano e di Castasegna. Costruiti per offrire una nuova confortevole casa ai dipendenti della EWZ provenienti da fuori che desideravano svolgere professioni “moderne” in un ambiente rurale che all’epoca offriva soltanto soluzioni abitative spartanamente montane, sono oggi considerati uno dei più importanti progetti architettonici grigionesi del secondo Novecento e, in particolar modo, quello di Castasegna è salvaguardato dalla Società per la Cultura dei Grigioni nell’ambito del progetto “52 migliori edifici. Cultura edilizia Grigioni 1950–2000”.
L’insediamento “Brentan” di Castasegna venne progetto (come quello di Vicosoprano) dall’architetto Bruno Giacometti (1907–2012), figlio più giovane del pittore Giovanni Giacometti e fratello di Alberto, tra i più famosi artisti della storia, e fu realizzato tra il 1957 e il 1959, in contemporanea ai lavori della diga… [continua su “L’AltraMontagna, qui.]
Una delle cose più deleterie che siano accadute alle nostre Alpi, al netto delle fenomenologie di natura variamente socio-antropologica che ne hanno caratterizzato negativamente la storia degli ultimi due secoli, è stata la loro trasformazione in baluardi naturali di confine in base alla dottrina cartesiana sulla quale si è incentrata la geopolitica europea dal Settecento in poi. Prima di ciò, le Alpi sono sempre state una “cerniera” tra popoli, culture, saperi, tradizioni, economie, hanno sempre unito le genti alpine e gli stessi stati nazionali puntavano a contenere il più possibile nei propri territori i gruppi montuosi nella loro interezza. Anzi, quelle fenomenologie degradanti prima citate in effetti sono state la conseguenza anche di tale suddivisione geopolitica cartesiana dei monti alpini, per non parlare delle varie guerre successivamente scoppiate tra paesi di opposti versanti – la Prima Guerra Mondiale su tutte.
Dunque, la morfologia pur ostica di vette, creste e dorsali delle Alpi mai ha diviso le comunità alpine, e praticamente ogni passo valicabile, anche a quote elevate, era sede di una via di transito, carrabile, mulattiera o sentiero che fosse. Ecco, se si “ribalta” la suddetta morfologia, anche visivamente, alle dorsali elevate verso il cielo corrispondono i fondivalle delle innumerevoli vallate alpine lungo le quali scorre quasi sempre un corso d’acqua più o meno importante; e alle mulattiere valicanti i passi corrispondono i ponti che superavano e superano quei corsi d’acqua, a loro volta unendo le sponde ovvero le genti che vi abitavano e che da quelle valli transitavano. Sono altrettante piccole “cerniere” alpine, quei ponti, e di grande importanza, al punto che attorno al loro secolare valicamento si sono condensate infinite storie, vicende, narrazioni culturali d’ogni genere ma tutte quante affascinanti e sovente emblematiche riguardo la stessa storia delle Alpi in generale.
Lorenzo Berlendis è nato proprio in una valle prealpina – la Val Brembana, nelle Alpi Orobie – ricca di ponti importanti che valicavano il sovente impetuoso Brembo, e molti altri ponti, anche e soprattutto culturali, Berlendis ne ha valicati a iosa, in primis come membro di Slow Food e coordinatore di gruppi tecnici su mobilità dolce, progettazione partecipata degli spazi urbani, valorizzazione di territori e saperi delle comunità locali. Dunque egli sa bene come un ponte non sia solo un manufatto meramente atto a superare depressioni e avvallamenti ma, come detto, una piccola/grande cerniera tra territori e genti: il suo ultimo libro Le vie dei ponti. Percorsi tra memoria e gusto, storia e arte. Dalle Orobie bergamasche ai Grigioni, attraverso la Valtellina e la Val Bregaglia (Altraeconomia, 2025) è costruito attorno a queste fondamentali cerniere che, nello specifico, uniscono sponde e versanti di una delle regioni più emblematiche delle Alpi, quella tra Lombardia e Grigioni circoscritta dal sottotitolo del libro. Una regione da sempre transitata come poche altre, collegamento millenario tra Nord Europa e Mediterraneo nella quale gli scambi tra le varie comunità sono sempre stati intensi al punto da potervi estrapolare una certa unitarietà antropologica, costruita e testimoniata da innumerevoli fatti storici e elementi culturali […]
(Potete leggere la recensione completa di Le vie dei ponticliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)
[L’abitato di Vicosoprano nel fondovalle della Bregaglia e le montagne che delimitano il lato sinistro idrografico della valle, sul confine con l’Italia, viste dal Piz Cam. Foto di Staublex, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]Negli scorsi giorni di vacanza ho finalmente visitato una località alla quale sono passato accanto centinaia di volte, lungo la veloce e trafficata strada cantonale che conduce da Chiavenna all’Engadina, in Svizzera, senza mai fermarmi perché sempre attratto da altre mete montane: Vicosoprano, capoluogo un tempo amministrativo e sempre morale/culturale della Val Bregaglia, una delle zone più speciali di tutte le Alpi.
Un abitato la cui grandezza è inversamente proporzionale al fascino che emana ogni elemento che lo compone, che pare forgiato direttamente dalla peculiare geografia naturale e dalle vicende umane che ne caratterizzano la storia della quale ne rapprende il divenire nel tempo. Vicosoprano infatti, con le sue case più o meno signorili, sovente affrescate, che ombreggiano un labirinto di vicoli selciati, le torri medievali, i fienili e le stalle con la struttura a blockbau (inopinata influenza Walser?), le chiese riformate o no, è un luogo realmente sospeso nel tempo – anche in presenza di pur frequenti edifici recenti appena al di fuori del centro – ma non solo: sospeso pure sull’irrequietezza che scazzotta di continuo il mondo ordinario e la nostra quotidianità la quale si palesa comunque nella velocità dei mezzi che corrono lungo la cantonale verso le allettanti attrattive turistiche engadinesi (come ho fatto anche io infinite volte, appunto, perdendomi inconsapevolmente cotanta bellezza; d’altronde è la stessa strada che letteralmente sfiora l’atelier – e la dimensione domestica – di uno dei più grandi artisti della storia, Alberto Giacometti, senza che tanti se ne rendano conto e vi rivolgano un minimo pensiero).
Sarà poi che Vicosoprano l’ho visitato in un tranquillissimo giorno feriale, caldo ma non afoso, durante il quale ho visto passare tra le sue vie più mezzi agricoli che autovetture ordinarie e contato le persone in giro con entrambe le dita delle mani avanzandone un paio (di dita), con le case che mi hanno protetto – e proteggono di norma, spero – dal rumore veicolare della strada cantonale (comunque già meno intenso di qualche giorno prima, intorno al Ferragosto) garantendomi una deliziosa quiete sonora e sensoriale, e la costante vista delle possenti vette bregagliotte dominanti l’abitato duemila metri e oltre più in alto (ma senza essere opprimenti, anzi, proteggendone la dimensione peculiare), insomma, tutto ciò mi ha fatto sentire bene, a Vicosoprano. Come ci si sente bene in quei luoghi che, fin dai primi istanti nei quali ci giungi ti accolgono con pacata e sincera cordialità, senza troppi fronzoli, senza pretendere che tu ti debba entusiasmare, senza strattonarti per mostrarti questa e quella cosa «da vedere assolutamente». Il Genius Loci del borgo, vecchio e saggio (vanta più di due millenni di storia accertata) nonché altrettanto gentile e bonario, non ti si mette davanti pretendendo che tu lo segua ma si tiene a lato, mezzo passo indietro, lasciando che sia il visitatore a praticare nel borgo una minima ma deliziosa flânerie, per la quale più che mai non contano tanto i passi camminati nel luogo (ne bastano circa 400 per attraversare il centro di Vicosoprano per la lunga!) quanto i dettagli peculiari raccolti, meditati, apprezzati in esso e resi emozioni, altrettanto piccole ma parecchio intense, a volte sorprendenti quando non stupefacenti.
Vicosoprano va visitato così, perdendosi in esso ben sapendo che sia impossibile farlo nella sua minuscola urbanistica ma di contro sia possibilissimo che accada nella sua delicata avvenenza e nel fascino distensivo dei suoi vicoli, peraltro già molto elvetici (siamo a pochi chilometri dall’Italia ma sembrano molti), lasciandosi incuriosire e attrarre da qualsiasi grande o piccolo dettaglio il suo paesaggio urbano offra allo sguardo sensibile. Non serve una guida se non per sapere sommariamente cosa si ha di fronte, in fondo le informazioni storiche e turistiche sul paese si riassumono in poche righe (ma non dimenticate che lungo la Bregaglia è passata molta della storia delle Alpi, antica e moderna); basta essere curiosi e appassionati flâneur o, se preferite, psicogeografi alla deriva, facendosi guidare dai sensi, dalla curiosità, dall’intuito e dall’istinto, dalla voglia di scoprire e dalla consapevolezza che spesso le scoperte più belle non si misurano in quantità ma in qualità e che tale qualità a volte non si vede, non si coglie, resta discosta o nascosta e dunque alla fine scoprirla regala suggestioni ancor più vivide e profonde.
Trovate che sia un consiglio di visita piuttosto eccentrico, questo? Be’, sappiate che, tra le varie iscrizioni che accompagnano gli affreschi di tante case di Vicosoprano se ne legge una che dice: «Non c’è uomo su questa terra che non abbia un briciolo di follia». Evviva i luoghi artistici, architettonici, monumentali, turistici all’ennesima potenza, quelli che bisogna giustamente, logicamente, necessariamente visitare e vedere almeno una volta nella vita – ritrovandosi spesso tra decine di migliaia di altri visitatori e tra rumore, confusione, chiasso, calca… inevitabilmente, appunto. A volte c’è più “follia” nelle cose ordinarie, nonostante ci si aspetti che siano esattamente così (ve la immaginate una visita solitaria al Colosseo o alla Tour Eiffel? Sarebbe del tutto straniante e confondente, a ben vedere!) invece che in certi altri luoghi che sfuggono al tempo presente, sempre così forsennato e pretenzioso verso le nostre vite, e si lasciano governare da dinamiche differenti, non per questo migliori (almeno per chiunque) ma diverse, appunto, inconsuete, speciali e anche per ciò alla fine più sorprendenti di quelle solite, forse.
In effetti anche i flâneurs venivano presi per dei tipi un po’ fuori di testa e la stessa deriva, pratica fondamentale della psicogeografia, per come venne teorizzata da Debord è un metodo di abbandono degli schemi mentali ordinari, quelli che facilmente provocano fenomeni di alienazione nell’uomo contemporaneo ma che dal suo stesso sistema vengono ritenuti (e imposti) come il “pensiero comune”. Un abbandono necessario al fine di cogliere ciò che la realtà offre in abbondanza ma la nostra mente non è più in grado di percepire e apprezzare come dovrebbe, nonostante sappia regalare infinite, preziose fascinazioni.
Ecco, anche Vicosoprano – si può dire – è un luogo sospeso al di sopra degli schemi mentali ordinari nel quale si può invece ritrovare il gusto, il piacere e la bellezza della scoperta minima ma intensa, facendosi influenzare dal fascino del luogo e diventando parte del suo paesaggio geografico e antropico, naturale e umano. Cioè parte di una bellezza solo apparentemente piccola, in realtà delicata tanto quanto penetrante nella mente, nel cuore e nell’animo.
N.B.: salvo quella in testa al post, che infatti è bella, le altre foto le ho fatte io e non sono granché, d’altro canto non sono un fotografo e uso uno smartphone non recentissimo. Accontentatevi, se potete.
[La diga dell’Albigna sovrasta l’alta Val Bregaglia, in Svizzera. Immagine tratta dall’appendice fotografica de Il miracolo delle dighe, autore Schölla Schwarz, CC BY 3.0, fonte originale qui.]
L’eventualità di rottura di una diga è piuttosto remota, ma non può essere del tutto esclusa. È anche per questo che annualmente vengono portati avanti i test delle sirene. In caso di anomalie a un impianto d’accumulazione, la popolazione viene esortata in primis tramite l’allarme generale ad accendere la radio e a seguire le istruzioni di comportamento diramate dalle autorità.
Quando viene emesso l’allarme acqua (dodici suoni continui e gravi in sequenze di 20 secondi ad intervalli di 10 secondi), invece, non vi è più tempo per informarsi; a questo punto alla popolazione non rimane altro da fare che abbandonare al più presto la zona di pericolo. In linea di principio, il sistema di sorveglianza e d’allarme degli impianti d’accumulazione consente di avvisare la popolazione con sufficiente preavviso, ma in caso di rottura completa e improvvisa il tempo di preallarme è molto breve.
Nel mio libro Il miracolo delle dighe. Breve storia di una emblematica relazione tra uomini e montagne racconto, tra molte altre cose, del fascino che buona parte delle persone subisce nei confronti delle dighe, soprattutto quanto durante un’escursione in montagna se ne ritrova davanti una, cercando di spiegarne le motivazioni rapportandole all’immaginario comune riguardo il paesaggio montano e, appunto, alla nostra relazione con esso. È una fascinazione ambivalente, in effetti: da un lato dettata dalla grandiosità della diga nella grandiosità dell’ambiente naturale entro il quale è inserita, dall’altro dall’impressione un po’ inquieta che il ciclopico muro incute in molti, alla quale si può assommare il timore che il pensiero d’un suo cedimento potrebbe generare, memori noi tutti di alcune grandi tragedie cagionate dalle dighe, Vajont in testa (la cui diga tuttavia non cedette – ma racconto tutto meglio nel libro).
Fatto sta che la possibilità del cedimento di una grande diga, quantunque remota e oltre modo calcolata e prevista dai modelli progettuali e di sicurezza degli impianti, non si può escludere. Come ci si può cautelare, dunque?
[Veduta da nord della Val Bregaglia con nel fondovalle il villaggio di Vicosoprano e, indicata dalla freccia gialla, la diga dell’Albigna, della quale se ne vede una parte. Foto di Staublex, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]L’argomento, sull’onda dei fatti bellici relativi alla distruzione della diga di Nova Kakhovka in Ucraina ad opera dell’esercito russo, è stato trattato di recente da un articolo del canale d’informazione svizzero “Tio.ch” chiedendo il parere di un esperto del settore e richiamando alcuni interessanti documenti della Confederazione Elvetica al riguardo; da tale articolo ho tratto la citazione che avete letto in principio di questo post la cui fonte originaria è l’UFPP – Ufficio Federale della Protezione della Popolazione. Leggendolo mi sono tornati in mente certi ricordi di me bambino per ciò che osservavo a valle della grande diga di Albigna, in Val Bregaglia (Canton Grigioni, Svizzera), quando a bordo dell’auto di mamma e papà si risaliva la strada che da Chiavenna attraverso il Passo del Maloja porta alle piste da sci engadinesi. Quella di Albigna è una delle dighe alpine più impressionanti da ammirare, essendo piazzata sul ciglio di un versante scosceso mille metri sopra il fondovalle, e dai finestrini dell’auto la osservavo ammirato tanto quanto intimorito per tutto il tragitto stradale che ne consente la visione, all’andata e al ritorno, confidando che se ne restasse lì ben ferma e salda e non scivolasse a valle spinta dalla massa d’acqua del grande lago (ben 70 milioni di m3) trattenuto lassù. Tuttavia, prima di arrivare in vista della diga, a nutrire la mia curiosità era la visione, sui tetti dei villaggi posti lungo lo strada della Bregaglia a valle dello sbarramento, di alcuni grandi altoparlanti posti in modo da dominare le case: proprio quelli delle sirene di allarme citate nell’articolo. Peraltro già allora, pur nella mia ingenuità bambinesca, mi chiedevo quanto tempo effettivo, al suono dell’allarme, gli abitanti di quei villaggi potessero avere prima che l’onda d’acqua fuoriuscita dalla diga che avesse tragicamente ceduto spazzasse via ogni cosa. Calcolata sulla mappa, la distanza tra la diga e Vicosoprano, il primo centro abitato di una certa importanza (445 abitanti) a valle è di circa 5 km, il che equivale a un tempo di 3 o 4 minuti, più o meno, prima dell’arrivo dell’onda: in effetti pochissimi per mettersi in salvo fuggendo dal fondovalle per risalirne il più possibile i fianchi al fine di togliersi dal volume d’acqua. L’affermazione che «Il tempo di preallarme è molto breve» citata dall’UFPP svizzero suona parecchio eufemistica.
Ovviamente, l’augurio è che una tale spaventosa evenienza non debba mai (più) essere vissuta e che simili grandi catastrofi – Gleno, Molare, Vajont e Stava, per l’Italia – restino confinate nelle pur tristi cronache storiche a far da ineludibile bagaglio d’esperienza. Anche per ciò la Svizzera è particolarmente diligente nei test d’allarme collettivi per la popolazione: a fronte dei controlli estremamente accurati che ogni grande diga subisce continuamente al fine di prevenire con largo anticipo qualsiasi possibile problematica, l’evento estremo non si può escludere totalmente. Eppure, ribadisco, è anch’esso parte integrante – sorprendente, quasi paradossale – del grande fascino che le dighe suscitano nelle persone che se le ritrovano di fronte. E che, in cuor loro, ne vengono affascinate anche perché a quei grandi, possenti, apparentemente solidi muraglioni affidano più o meno consapevolmente tutta la loro fiducia che tali restino, lì dove sono, fino a che al di là dell’enorme muro vi sarà un altrettanto grande lago, dunque che la loro forza statica sappia sempre ben contrapporsi alla spinta dinamica dell’acqua.
Ma, come detto, ne Il miracolo delle dighe vi racconto in modo ben più articolato e suggestivo questo fascino, cosa comporta per la nostra presenza sulle montagne e come ha influito, e influisce, sulla relazione che ne consegue. Una relazione assolutamente emblematica, appunto, anche per quanto vi ho raccontato in questo articolo.
Per saperne di più, sul libro, cliccate sull’immagine della copertina lì sopra.
Ancora un’originale visione fotografica di Cesare Martinato, un’altra veduta della diga dell’Albigna, in Canton Grigioni, una delle più particolari dighe delle Alpi, posta sul ciglio di una parete quasi verticale sospesa mille metri sopra l’alta Val Bregaglia e circondata dalle spettacolari guglie granitiche di questa regione delle Alpi Retiche occidentali – quelle visibili nell’immagine proprio sopra il muro della diga possiedono i pittoreschi oronimi di Spazzacaldeira e Fiamma.
Della diga dell’Albigna ne parlo nel mio libro Il miracolo delle dighe, raccontando della sua peculiare presenza nel paesaggio della Bregaglia e della particolare relazione intrattenuta con i suoi abitanti, per i quali la diga è molto di più di un ciclopico muro di cemento e ovviamente ben più di un’attrazione turistica – dacché la diga è visitabile anche all’interno e pure dentro offre qualcosa di inaspettato e sorprendente.
Ringrazio ancora molto Cesare Martinato per le sue sublimi fotografie e, se volete saperne di più sul libro, cliccate qui sotto: