«A Milano le cose non vanno bene!»

[Foto Ansa/Fotogramma tratta da milano.corriere.it.]

A Milano le cose non vanno bene. Dopo il Covid il turismo non si è più ripreso, le persone non hanno più soldi perché la città è troppo cara e gli stipendi sono troppo bassi. […] Mancano i servizi che dovrebbe avere per aiutare le imprese. La metro chiude a mezzanotte: io ho i ragazzi della brigata e della sala che alle 23 devono andarsene altrimenti non sanno più come rientrare a casa. E anche i clienti: dopo una certa ora i mezzi pubblici scarseggiano. […] Sotto casa mia hanno rubato due auto e scippato una signora in pieno giorno, e abito in centro.

Di Milano scrivo spesso perché la considero a tutti gli effetti una città alpina, e non solo perché le vette delle Alpi appaiono vicine – come effettivamente sono – nell’orizzonte cittadino settentrionale, ma anche per il fatto che la storia di Milano è strettamente legata a ciò che in città è giunto dalle montagne (risorse naturali, persone, culture, saperi) e quindi, dall’Ottocento in poi, è la storia delle montagne lombarde a essersi legata a doppio filo con quella del capoluogo lombardo, nel bene e a volte nel male. D’altro canto è la stessa Milano a considerarsi “città alpina”, essendosi candidata e avendo ottenuto l’assegnazione delle prossime Olimpiadi invernali, ospitandone alcune gare.

[Foto tratta da milano.repubblica.it.]
Per tutto questo, la trasformazione di Milano in una aurea e scintillante scatola vuota trovo che sia una circostanza ancora più grave di quanto già non potrebbe essere per qualsiasi altra città. Ormai se ne stanno rendendo conto tutti eccetto le amministrazioni politiche in carica e gli affaristi loro sodali: le parole citate lì sopra dello chef Felice Lo Basso, cinque stelle Michelin, a suo modo “voce” di quella parte della comunità milanese che non dovrebbe avere troppo problemi a vivere in città e invece li ha eccome, sono alquanto significative della realtà cittadina di fatto e identiche a quelle che da qualche tempo si possono sentire da persone della più varia estrazione, milanesi di nascita o d’adozione che Milano sta espellendo fuori dalla città, verso la periferia o altre zone dell’hinterland, più vivibili e accessibili, così da fare spazio alla sua sempre più ingombrante immagine. Lo Basso, potendolo fare, invece chiuderà il suo ristorante di Milano e andrà a Lugano: non esattamente tra le località più economiche ma, evidentemente, molto meglio della metropoli lombarda.

[Immagine tratta da www.ilmessaggero.it.]
Ribadisco di nuovo ciò che Lucia Tozzi ha scritto nel suo “L’invenzione di Milano”, un libro che è sempre più necessario leggere, soprattutto se si è milanesi o se alla città e alla sua anima si tiene ancora: «È in atto la privatizzazione della città pubblica, dei suoi spazi e delle sue istituzioni sociali e culturali. […] Milano propone una grande illusione collettiva, una grande allucinazione, dove ciò che rimane è la disneyficazione delle città e la foodification.»

D’altronde, questa Milano sempre più finta e vuota di senso urbano appare parecchio consona con ciò che saranno le sue (e di Cortina) Olimpiadi, a giudicare da come stanno andando le cose: dovevano essere sostenibili e invece saranno variamente impattanti, ambientalmente e non solo, a basso costo e invece costeranno tre o quattro volte più del previsto, in grado di sviluppare i territori coinvolti che invece vengono e verranno sfruttati, cementificati, infrastrutturati con opere pensate male e dal futuro già ora incerto quando già ora palesemente inutili, e senza che le comunità residenti siano state interrogate al riguardo e coinvolte nei processi decisionali – a loro volta espulse, in buona sostanza, dal tempo e dalla storia (nonché dalla vita politica) delle loro stesse montagne.

Di questa passo, subito dopo l’inno olimpico durante la cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi, a Milano si potrà solo far risuonare e recitare il De Profundis.

Le montagne “di destra”, anzi, le montagne “di sinistra”, no, viceversa

Dunque, proviamo a fare il punto della situazione.

Il clima che cambia è di sinistra, il clima che non è vero che sta cambiando è di destra.
Quindi gli ambientalisti sono di sinistra, gli altri di destra.
Lo sci su pista è ormai di destra, lo sci alpinismo e le ciaspole di sinistra. Ergo la neve artificiale è di destra, quella naturale di sinistra, i maestri di sci devono essere di destra e le guide escursionistiche di sinistra.
I rifugi “come quelli d’una volta” con polenta e brasato sono assolutamente di sinistra, i rifugi gourmet con ostriche e champagne ovviamente di destra.
Lupi e orsi sono di estrema sinistra anche se una volta erano più di destra, dunque pecore e capre sono di destra anche se fino a qualche tempo fa erano certamente di sinistra.
Le e-bike sono di destra, le bici a pedalata muscolare di sinistra.
Le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina non si capisce bene: in Valtellina e a Cortina sono di destra, però a Milano sono di sinistra.
L’economia è appannaggio della destra, l’ecologia della sinistra, l’etimologia delle due è di nessuno perché se la sono scordata tutti.
La “sostenibilità ambientale” invece è di entrambi, ormai…
…eccetera eccetera eccetera.

Ma non sarebbe ora di finirla con queste baggianate di parte che parrebbero fuori luogo persino in un asilo infantile? Invece no, continuano a rappresentare il pane quotidiano della politica sulle nostre montagne e di chi gli va dietro.

Io credo viceversa che proprio questo atteggiamento strumentale, pesantemente ideologico, radicalmente polarizzato (e complessivamente un po’ stupido) sia una delle cause alla base della gestione malfatta, sovente scriteriata e comunque priva di buon senso, delle nostre montagne. Non è una critica alle differenti ideologie, che chiunque è libero di professare, ma alla loro cronica alienazione dalla realtà effettiva delle cose e all’incapacità di evolvere da “ideologia” a idea, qualcosa veramente in grado di risolvere le questioni invece di peggiorarle e degenerarle.

Anche perché – un esempio tra i tanti possibili – se per l’aumento delle temperature (innegabile dacché scientifico dato di fatto) si scioglie il permafrost e un versante montuoso frana a valle seppellendo case e cose, non è che i massi in caduta scelgono se colpire solo quelli di sinistra o quelli di destra, ma il disastro coinvolge tutti e obbliga chiunque, i politici in primis e ineludibilmente, a mettere da parte le ideologie, constatare e comprendere la realtà delle cose e agire per il bene collettivo, non per il vantaggio della propria parte politica o della prossima campagna elettorale.

Ecco.

D’altronde, come disse mirabilmente già tempo fa il Signor G:

Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.

Salvare vite umane in mare, sempre [Off topic]

Questo è un post off topic rispetto ai temi che abitualmente tratto qui sul blog, ma al quale tengo molto.

Riguardo l’episodio della bambina migrante salvata e unica superstite di un natante affondato con decine di altre persone a bordo, tutte disperse ergo decedute, leggo sui giornali che avrebbe «riacceso i riflettori» (espressione giornalistica tipica, in questi casi) sulla questione dei flussi migratori irregolari nel Mediterraneo.

[Immagine tratta da mediterranearescue.org.]
Ma non è certo questo il punto di tale notizia diffusa in simili circostanze, semmai il punto vero è che quei riflettori siano spesso spenti e vengano riaccesi per qualche momento solo in presenza di una tragedia con numerosi morti – perché se i morti sono pochi l’interruttore per accenderli non viene nemmeno sfiorato.

Personalmente trovo questa situazione, ormai cronica, barbaramente spaventosa e inaccettabile. O si trova finalmente il modo di non costringere le persone a lasciare i loro paesi d’origine per migrare, facendo una reale pressione sui rispettivi governi affinché garantiscano condizioni di vita dignitose alle loro popolazioni (vi ricordate il «aiutiamoli a casa loro»? Ecco, il solito quaquaraquà propagandistico), oppure, se i migranti prendono la via del mare e in qualsiasi modo lo facciano, vanno salvati. Lo sanciscono le convenzioni giuridiche internazionali (che peraltro sono leggi di valore sovranazionale che non può essere in alcun modo scavalcato dagli stati nazionali), ma ancora di più lo sancisce il fatto di essere umani. La gestione politica dei flussi migratori, qualsiasi essa sia, viene dopo: prima si salvano le vite. Punto. In dieci anni nel solo Mar Mediterraneo sono scomparse più di 31.000 persone, molte delle quali bambini: è scandaloso, intollerabile, una macchia di vergogna ormai indelebile sulla “bella immagine” della civile e democratica Europa, che poi puntualmente versa lacrime di coccodrillo per qualche attimo e appena dopo spegne di nuovo i suddetti “riflettori” così che nel buio non si veda e non ci accorga più di nulla – ma intanto accende le luci natalizie augurando “pace e bene” a tutti. Proprio!

Da anni sostengo, per quel poco che posso, alcune Ong che tra le attività umanitarie svolte contemplano quelle SAR nel Mediterraneo. Ne sono fiero e spero di poter continuare questo sostegno ancora per lungo tempo. Ribadisco: per quanto mi riguarda non è per nulla una questione politica, qualsiasi cosa ciò possa significare, ma è antropologica, sociologica, culturale e, innanzi tutto, di umanità. E basta.

Le montagne, la natura, l’ambiente non sono di destra o di sinistra ma di tutti

Le evidenti conseguenze dei cambiamenti climatici pongono seri interrogativi sulla possibilità di continuare a immaginare un turismo, in particolar modo quello invernale, come se nulla fosse.

Siamo stati abituati ad aumentare tutto: più posti letto, più impianti. Molte località famose diventano grandi parchi giochi, con i locali che si trasformano in comparse e servitori.

È lampante che il “sistema neve” rimane ancora oggi un settore fortemente trainante dell’economia alpina, ma è possibile continuare a immaginare uno sviluppo turistico invernale alla luce dei cambiamenti climatici?

Se è possibile immaginare di spingere sull’industria dello sci in alcune località blasonate e oggi fortemente infrastrutturate — da Madonna di Campiglio a Plan de Corones — per altre l’invito è a immaginare un percorso opposto. Che tolga strutture invece di aggiungerne. Possiamo immaginare una dismissione degli impianti esistenti e la demolizione di tutte le strutture costruite nel corso degli anni? Siamo in grado di attivare un percorso di rinaturalizzazione e valorizzazione di un luogo da «sacrificare» alla classica fruizione fatta di impianti di risalita, ma da offrire invece come una montagna liberamente accessibile?

Questi sono alcuni stralci di un articolo pubblicato lo scorso 24 settembre sul “Corriere del Trentino” che cita… un’ambientalista radicale? No.
Un seguace delle idee sulla decrescita? No.
Un militante politico della parte opposta a quella che di norma sostiene l’industria turistica? Nemmeno.

Sono parole e opinioni di Alberto Winterle, rinomato architetto trentino direttore di “Turris Babel”, la rivista della Fondazione Architettura Alto Adige, già presidente dell’associazione Architetti Arco Alpino costituita dagli Ordini degli Architetti delle provincie alpine italiane. Le ha scritte nell’editoriale dell’ultimo numero della rivista (il #134) che potete leggere qui.

Uno stimato professionista di altissimo profilo, dunque, che esprime opinioni non in base a ideologismi di qualsivoglia natura ma alle proprie grandi competenze e all’autorità che ne deriva.

Già, perché l’ambiente non è né di destra e né di sinistra, è di tutti. E le montagne e la loro gestione non sono e non possono essere soggette alle convinzioni di questa o di quella parte politica, funzionali ai propri interessi particolari ma sono un patrimonio, una responsabilità e una facoltà di tutti, la cui amministrazione deve apportare vantaggi a chiunque e, innanzi tutto, ai territori montani stessi, ai loro ambienti, ai loro paesaggi. Alle montagne, insomma.

[Foto Ansa, fonte https://www.3bmeteo.com/.]
Una questione di competenze, visioni, buon senso, cultura, non di ideologie, slogan, propagande e partigianerie.

Sarebbe finalmente ora di considerare pienamente tale verità e di farne un punto fermo, per il bene di tutti.

Non si può sempre dire di «no» alle cose proposte per la montagna

[Foto di Sir. Simo su Unsplash.]
Sono d’accordo con chi sostenga che in montagna non si possa sempre dire di «no» a qualsiasi intervento antropico, come a volte certo ambientalismo molto schierato dà l’impressione di fare. Da secoli l’uomo abita i monti e li adatta ai propri bisogni: si può fare quasi tutto in montagna, basta farlo con consapevolezza e buon senso, trovando il giusto compromesso che preservi l’equilibrio tra uomo e natura e permetta a entrambi di coabitare il territorio.

Di contro, veramente non capisco perché spesso si impongano a tutti i costi alle montagne progetti e infrastrutture privi alla base di qualsiasi consapevolezza e buon senso, fatti per chi evidentemente non vuole elaborare una buona e sensata consapevolezza verso i territori montani – vedete un esempio al riguardo lì sotto. Per «valorizzarli», dicono i loro promotori, per attirare persone che altrimenti in montagna non salirebbero e così sostenere l’economia locale. Ma se senza tali infrastrutture (che non avendo come obiettivo la preservazione dell’equilibrio con i luoghi vi risultano parecchio impattanti), quelle persone non salirebbero in montagna, cioè se in mancanza di queste attrazioni essi non si sentono attratti da tutto ciò che di straordinario la montagna sa offrire, forse è perché queste persone non sono fatte per la montagna ma per altri luoghi di svago.

[Cliccate sull’immagine per leggere l’articolo.]
Insomma: se a molti l’arte contemporanea non interessa e non se ne sente attratta, bisogna piazzare delle giostre nei musei affinché ci finisca per entrare? E se anche ciò avvenisse, che tipo di esperienza ne trarrebbero quelli, così mediata dalla presenza di infrastrutture che nulla centrano con il museo? Credo proprio che nessuno accetterebbe qualcosa del genere pur di sviluppare la frequentazione dei luoghi d’arte: verrebbe rudemente contrastata.

Forse è meglio rendere i potenziali visitatori consapevoli del luogo che potrebbero visitare prima che ci finiscano: ma veramente c’è bisogno di fare questo con le montagne e la loro straordinaria bellezza? Veramente bisogna piazzare sui monti infrastrutture ludico-ricreative di varia (e spesso pacchiana) natura per far sì che molti ci salgano? Cioè per attrarre visitatori che, appunto, non sono in grado di capire da soli che la montagna è un luogo eccezionale e per scoprirne tutta la bellezza va visitato, senza bisogno di null’altro? Dunque per aiutare l’economia locale (?) si corre il rischio concreto (ma è più una certezza che una possibilità) di degradare e banalizzare il luogo così da renderlo nel giro di breve tempo sterile, tanto turisticamente e economicamente quanto socialmente e culturalmente?

Ribadisco: si può fare quasi tutto in montagna, basta farlo con consapevolezza, buon senso e in modi che veramente sostengano e sviluppino i luoghi nel modo più compiuto e benefico possibile. Riguardo invece ogni altra cosa che non rispetta queste naturali condizioni, il «no» è doveroso, inevitabile e irremovibile.