La comunicazione cacofonica

Da dieci o vent’anni non succede quasi più niente in ambito letterario. Esiste una marea di pubblicazioni, ma c’è una stagnazione spirituale. La causa di ciò è una crisi di comunicazione. I nuovi mezzi di comunicazione sono straordinari, ma provocano un immenso rumore.

(Emil Cioran*)

(*: citazione letta sul web, fonte ignota. Ogni indicazione al riguardo è gradita. Riguardo il post, si veda anche qui.)

Belle parole

[Foto di Steve Buissinne da Pixabay.]
Mi si consenta il seguente appunto.

Al summit virtuale sul clima convocato giovedì 22 aprile dal Presidente USA Joe Biden in occasione della Giornata della Terra, il leader del regime cinese Xi Jinping ha sostenuto che «Dobbiamo impegnarci per uno sviluppo verde, per un’economia sostenibile  per le future generazioni», dicendosi poi certo e ribadendo che «lasceremo un mondo verde alle generazioni future».

Belle parole, vero?

Peccato che nel 2020 in Cina la crescita del carbone, che ormai pure i sassi conoscono come un combustibile fossile tra i più inquinanti in assoluto, ha compensato le centrali spente nel resto del mondo, portando al primo aumento globale della potenza da carbone dal 2015. La Cina realizzato 38,4 GW di nuove centrali a carbone nel solo anno scorso, pari al 76% del totale globale (50,3 GW). Non solo: ha anche 88,1 GW di energia a carbone in costruzione, e altri 158,7 GW sono stati proposti per essere realizzati nei prossimi anni.

“Belle parole” quelle là, proprio vero!

Meditate, gente, meditate. Anche e soprattutto quando state/starete acquistando qualche prodotto e vedete stampigliata sopra la scritta “Made in China”, già.

Costruire le città di domani

[Mumbai, India. Foto di Abhay Singh da Unsplash.]

Continuiamo a costruire l’urbs senza pensare alla civitas.

Così afferma Stefano Serafini, filosofo e psicologo, consulente scientifico dell’Istituto Nazionale di Bioarchitettura, in merito a come cambieranno – ovvero a come potrebbero cambiare – le città a seguito della pandemia da Covid-19, in un articolo pubblicato sul sito italiano di “Euronews”.

Con quell’affermazione, Serafini vuole rimarcare che, nella città contemporanea, nonostante quanto sta accadendo a livello planetario segnali con tutta evidenza la necessità di una rinascita della relazione profonda e consapevole tra il luogo abitato e i suoi abitanti, «continuiamo a rafforzare le strutture ma non miglioriamo la vita politica, nel senso di partecipazione (sociale e civica, n.d.s.) delle città.»

Usando come pretesto argomentativo il tema delle installazioni di funivie in ambito urbano, che molti ritengono una soluzione al movimento metropolitano delle persone ma che invero è un’idea ormai vecchia di qualche decennio e che continua a essere proposta dalle amministrazioni pubbliche oggi per mera mancanza di altre idee più innovative e rivolte al futuro (ovvero per mancanza di programmazione, pianificazione e visione futura da parte di quegli amministratori cittadini), il dubbio dunque che Serafini pone è tanto semplice quanto gigantesco, nella sua portata: «Per una città del domani, i modelli di ieri sono ancora validi?»

Perché se ogni luogo abitato, anche il meno territorializzato e più sperduto, deve essere pensato (e gestito) dai suoi abitanti sulla base di una visione necessariamente rivolta al futuro, questo non può che valere massimamente per le città, che dei luoghi abitati dall’uomo rappresentano l’esempio fondamentale e, a volte, più deviato e deviante. Se ciò non avviene, la decadenza è soltanto una questione di tempo, proprio come alcune città stanno drammaticamente palesando – nonostante certi progetti “innovativi” ma, appunto, in realtà nati nel passato e concettualmente (ma pure concretamente) incapaci di andare oltre il presente e dunque, alla fine, civicamente sterili.

È una questione di importanza radicale, posto anche quanto denotavo qui al riguardo, che non può e non deve essere (più) trascurata, a partire dall’amministratore pubblico più alto in carica fino al singolo cittadino.

 

Grandi città, grande problema

[Panorama della città di Tokyo – cliccateci sopra per ingrandirla. Foto di Yodalica, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte Wikimedia Commons.]
Una delle questioni che a volte emergono nelle varie discussioni sulla pandemia in corso, anche al netto delle inesorabili vacuità al riguardo, è come molte persone avrebbero (condizionale d’obbligo) riscoperto la maggior salubrità delle zone meno urbanizzate e antropizzate rispetto alle città e agli ambiti a densità abitativa elevata che, nel contesto di un’epidemia di massa, rappresentano quelli a maggior rischio, di conseguenza riconsiderando i piccoli paesi in campagna e sui monti – quelli dai quali si è fuggiti a lungo, soprattutto dalla seconda metà del Novecento – come luoghi di vita e residenza i quali, a fronte di minori servizi in loco, senza dubbio offrono una generale maggior tranquillità – anche sanitaria, appunto.

Posto che ci sia da capire se effettivamente, dalle nostre parti, quella che ho qui rapidamente riassunto sia un’autentica tendenza demografica e socioculturale oppure se sia un mero fuoco di paglia dettato dalla situazione emergenziale in corso e dalle reazioni emotive che ne conseguono, certamente fa impressione constatare che il più grande agglomerato urbano al mondo, quello di Tokyo, ha ormai quasi raggiunto i 40 milioni di abitanti[1] – in pratica, una città che da sola fa due terzi dell’intera popolazione dell’Italia! – concentrati su una superficie pari a quella del Trentino-Alto Adige (che di abitanti ne fa quaranta volte meno).

Impressionante, appunto, e pure inquietante, per quanto sia evidente che un tale addensamento di individui generi inevitabili e varie problematiche (sociali, economiche, ecologiche, ambientali, sanitarie, eccetera) anche senza pandemie di sorta. D’altro canto, il continuo aumento degli addensamenti urbani un po’ ovunque sul pianeta rimarca come certe tendenze apparentemente contrarie siano in realtà fenomeni solamente ipotetici e del tutto effimeri, aventi qualche influenza negli ambiti locali ove si manifestano ma scompaiono letteralmente su scale maggiori. E nemmeno certe importanti valutazioni riguardanti la necessità della riscoperta delle aree marginali e dei territori meno urbanizzati per una migliore qualità di vita generale oltre che per una necessità dettata dai cambiamenti climatici – penso a Luca Mercalli e a uno dei suoi più recenti libri, per citare un esempio affine alla situazione italiana – temo potranno contrastare quella continua incessante concentrazione demografica nei centri urbani sempre più trasformati in megalopoli tentacolari, inquinate, rumorose, sempre più roventi in forza del riscaldamento globale, ricolme di non luoghi e di conseguente alienazione sociale pur a fronte (forse) di PIL cospicui – si veda qui sotto:

Eppure tutto questo, dal mio punto di vista, esorta vivamente noi che di territori ancora poco antropizzati e urbanizzati ne abbiamo a disposizione (in verità ve ne sono ovunque e altrove più di qui, ma qui abbiamo a disposizione i necessari strumenti culturali per apprezzarne compiutamente la presenza), a salvaguardarli sotto ogni aspetto, a difenderne la fondamentale dimensione vitale, a comprenderne l’inestimabile valenza culturale e antropologica. Se pure tali territori diventassero in qualche modo “città” – ed è inutile rimarcare che è già successo di frequente, questo, e nel caso sia accaduto è proprio dove si è smarrita la comprensione e la cognizione del valore di quei luoghi – perderemmo un’imprescindibile via di salvezza nei confronti di un futuro altrimenti demograficamente degradato e inesorabilmente caotico. E, personalmente, non credo proprio che un buon futuro per il nostro pianeta, in ottica umana, sarà proporzionale ai numeri indicati nella tabella lì sopra. Anzi.

P.S.: le due infografiche qui pubblicate le ho tratte da questo articolo – estremamente interessante in tema di futuro delle città – di “Artribune”.

[1] Il dato riprodotto nella tabella che pubblico, preso da qui, è peraltro inferiore rispetto a quello riportato da Wikipedia, che registra 38.140.000 abitanti; ma secondo quest’altra tabella la Grande Area di Tokyo avrebbe già superato i 40 milioni.

In difesa del buio

[Il paesaggio “luminosamente inquinato” dell’Altipiano Svizzero dalla vetta del Rosinli sopra Bäretswil, Canton Zurigo. Foto di Jan Huber da Unsplash.]
Un po’ come il silenzio, da qualche tempo parte anche il buio – elemento del tutto naturale e in ciò ordinario come il primo – è visto come un qualcosa di pauroso e inquietante, nonostante non si viva più in secoli nei quali si credeva ai mostri annidati nell’oscurità ma nell’era della “comfort zone” assoluta, quella che ci fa credere, a noi umani, di avere sempre tutto sotto controllo, in primis grazie alla nostra supertecnologia, ma che in verità è una delle cause primarie che generano quella paura. Per questo, appena usciamo dai coni di luce dei nostri begl’impianti di illuminazione, noi uomini del Terzo Millennio pronti a conquistare Marte torniamo ad avere paura dei draghi come rozzi contadini superstiziosi dell’anno Mille – così come quando percepiamo il silenzio, al quale il rumore della quotidianità ci ha del tutto disabituato, proviamo timore persino del nostro respiro.

Fatto sta che non solo ci dimentichiamo che, ribadisco, silenzio e buio (con altri elementi) sono il mondo che abitiamo e grazie al quale viviamo, ma non consideriamo che “l’omicidio” del buio commesso con tutte le luminosissime “armi” che possediamo e che disseminiamo ovunque nel territorio abitato in certi casi provoca molti altri problemi e rischia di “uccidere” a sua volta l’ambiente che di quel mondo rappresenta la manifestazione vitale fondamentale. Tutto ciò, se possibile, vale ancora di più nei territori dove quegli elementi naturali risultano ancora sostanziali nel paesaggio locale, come in montagna. Moria di insetti, diminuzione delle piante impollinate, uccelli migratori disorientati, disturbo del ritmo del sonno della fauna, sono solo alcuni dei danni collaterali cagionati dall’impatto dell’inquinamento luminoso sul mondo in cui viviamo. Lo ricorda con un breve ma importante articolo sul proprio sito la CIPRA – Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi la cui importanza, come detto, trascende il mero interesse rivolto alla regione alpina: dacché se in montagna la presenza eccessiva della luce artificiale appare un dato palesemente macroscopico (Mario Broggi, ex presidente della CIPRA International, sulla rivista tedesca “Nationalpark” scrive che «Nelle Alpi la percentuale di boschi completamente oscuri di notte varia dal quattro per cento delle Alpi centro-occidentali al 16 per cento del versante meridionale delle Alpi. Le ultime grandi aree di buio totale non si trovano nella zona del bosco, ma nelle aree al di sopra della linea degli alberi», il che è parecchio allarmante, se ci pensate bene), è nei piccoli/grandi conglomerati urbani che l’inquinamento luminoso assume aspetti a volte quasi sconcertanti – chiedete a un “cittadino” se sia in grado di vedere le stelle in cielo, quando cammina nelle ore notturne per le vie della sua città, per dire!

Dunque, proprio a tal proposito, ecco che Cipra indica una possibile “soluzione”, certamente parziale ma già alquanto significativa, i “Parchi delle stelle”: «Le aree con poca illuminazione artificiale diventano quindi sempre più importanti. Da ciò è nata l’idea delle aree di protezione dalla luce. Sono luoghi che vengono protetti dall’inquinamento luminoso e permettono l’osservazione di un cielo naturale, che di notte è ancora buio. La riserva della biosfera UNESCO Rhön/D, il parco naturale di Gantrisch presso Berna o l’area protetta Winklmoos-Alm/D in Alta Baviera sono i cosiddetti parchi delle stelle che sensibilizzano i visitatori al fenomeno naturale del cielo notturno, alla protezione degli animali notturni e all’uso efficiente dell’energia. Il progetto transfrontaliero italo-austriaco “Skyscape” vuole addirittura sviluppare nuovi prodotti turistici puntando sull’oscurità. Propone infatti in via prioritaria l’osservazione del cielo buio e l’esperienza del paesaggio notturno intatto e indisturbato in aree selezionate delle Alpi.»

Ecco. Insomma: non abbiate paura del buio, anzi, salvaguardatelo in tutti i modi possibili e cercate di viverlo nel modo più virtuoso ed emozionante possibile. Anche perché, se vogliamo essere persone in un modo o nell’altro luminose e illuminanti (in modi autenticamente umani e non in altri, artificiali e artificiosi), abbiamo pur bisogno del buio per brillare al meglio, no?