La (solita) politica delle patate

Qualche anno fa il presidente dell’Iran Mahmud Ahmadinejad, giunto a fine mandato e desideroso di farsi rieleggere, per conquistare il voto degli elettori iraniani fece distribuire 400mila tonnellate di patate, soprattutto tra le classi meno abbienti del paese le quali peraltro già rappresentavano la sua principale base elettorale. Per la cronaca, Ahmadinejad vinse le elezioni, ma poi le cose per l’Iran e la sua gente non andarono proprio benissimo: lo possiamo ben constatare oggi.

Quella mossa elettorale di Ahmadinejad, che sembrò (e sembra tutt’oggi) così rozza e anacronistica, risulta in fondo tipica dei sistemi politici dei paesi meno civicamente e culturalmente progrediti, nei quali all’assenza di competenza democratica diffusa nella società si sopperisce da sempre con elargizioni ben più materiali dunque più facilmente comprensibili, meglio ancora se in grado di generare tornaconti terzi. Ovviamente, per l’Iran di Ahmadinejad non erano tanto importanti le patate in sé e il fatto che fossero cibo utile ma la loro elargizione e l’inesorabile riconoscenza (per così dire) generata.

Ecco. Ogni eventuale riferimento a cose accadute, persone esistenti o paesi altri non è così puramente casuale.

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Paesaggi inconfondibili. O forse no

Si usa dire che «la bellezza è negli occhi di chi la guarda» o come meglio scrisse David Hume, «La bellezza nelle cose esiste nella mente che le contempla». Ciò vale assolutamente anche per il paesaggio, e infatti quei detti trovano il loro pari al riguardo nelle parole del grande sociologo e urbanista svizzero Lucius Burckhardt (di lui ho già scritto qui), il quale osservò che «Il paesaggio è un costrutto, non va ricercato nei fenomeni ambientali ma nelle teste degli osservatori». Come a dire: il paesaggio è bello non tanto perché lo sia materialmente, ma perché così lo riconosciamo (lo dobbiamo riconoscere) immaterialmente, ovvero intellettualmente. I sensi vengono appagati dalla sua percezione, ma la mente e l’animo abbisognano anche della relativa interpretazione.

Così nelle teste degli osservatori non si forma solo l’estetica del paesaggio ma pure la sua identità e la conseguente identificabilità, che tuttavia senza un’adeguata consapevolezza culturale rischia di essere equivocata o confusa, rovinandone così anche il senso estetico oltre che la possibilità di intessere con il luogo una conscia e proficua relazione, quella che serve per farcelo vivere pienamente e per farci stare realmente bene in esso. In quel caso il paesaggio lo apprezziamo ma in modo superficiale e distorto oppure lo trascuriamo, non comprendendolo come meriterebbe.

Ad esempio, nella fotografia sopra riprodotta appare in tutta la sua scandinava bellezza invernale uno scorcio della Svezia del Nord – avrete certamente riconosciuto i luoghi, più o meno – con la neve abbondante che ricopre ogni cosa, le montagne tondeggianti e fittamente boscose sullo sfondo, le case semplici ricoperte di lamiera rossa per meglio proteggerle dalle intemperie del clima rigido di lassù, le basse conifere, le betulle accanto alla strada, la palpabile dimensione ambientale di gelo, quiete, silenzio… un’immagine che rappresenta quelle terre scandinave nel modo più tipicamente nordico, suggestivo e indentificante, vero?

E invece no: riprende un angolo della Sila, in Calabria. 4.500 km più a Sud, 500 km circa dall’Africa, nel bel mezzo del caldo Mar Mediterraneo. Ma che pare in tutto e per tutto un angolo della Scandinavia più classica.

Capite ora cosa intendo dire?

P.S.: grazie di cuore a Teresa Barberio per avermi concesso di arricchire questo post con la sua bellissima e così suggestiva immagine fotografica.

La stessa fine

[Le immagini che potrete vedere sono tratte da questo articolo di “Greenme“.]
Vedo immagini semplicemente spaventose dei danni provocati dagli incendi di questi giorni, di migliaia di animali arsi vivi o gravemente ustionati, di boschi inceneriti – in Sardegna in special modo ma non solo. Immagini che flagellano il cuore e feriscono nel profondo: personalmente non riesco a guardarle che per pochi attimi ma da molte tolgo via lo sguardo subitamente, tanto sono terribili.

Be’, molto semplicemente, chiunque abbia causato e agevolato un crimine così orrendo, deve fare la stessa fine di quegli animali. La stessa fine, punto.

Ripeto: la stessa fine.

Ribadisco: la stessa fine.

Non può esistere pena “severa” per qualcosa di tanto crudele, ciò che prevede il Codice Penale per il reato di “incendio doloso”, pur apparentemente “pesante”, è una bazzecola rispetto al disastro e alla sofferenza cagionati. Per circostanze come quelle viste in Sardegna, e non solo lì dato che casi simili si stanno susseguendo anche altrove, il termine “severità” apparirà sempre inadeguato, manchevole di senso compiuto.

Chi ha provocato quella catastrofe, quella distruzione, quelle morti, deve fare la stessa fine, lo ribadisco una volta ancora. Se così non è, significa che questo mondo dove noi umani purtroppo siamo razza dominante non sarà mai un luogo giusto. Mai.

P.S.: e la si smetta una volta per tutte con la storiella che «si indaga sulle eventuali cause dolose degli incendi». Sono sempre dolosi, questi incendi. Sono sempre colpa dell’uomo – di individui che non hanno nulla per cui poterli definire “esseri umani”.