Torre de’ Busi, una delle “capitali” orobiche dei rissöi

Credo che Torre de’ Busi, in alta Val San Martino, si possa considerare senza tema di smentite una delle capitali dei rissöi o ressöi, come nella parlata bergamasca vengono chiamate le mulattiere selciate, antiche vie di percorrenza dei territori rurali diffuse ovunque, sulle montagne, e dovunque dotate di fattura simile ma dettagli peculiari e identitari dei vari luoghi in cui si trovano.

Conosco poche zone come quella del territorio comunale di Torre de’ Busi che custodiscono una cosi alta quantità di mulattiere selciate, alcune certamente vecchie di qualche secolo e sovente ancora ben conservate come è difficile riscontrare altrove, di tipologie varie ma tutte aderenti alla tradizione e allo “stile” locali, in certi casi dotate di opere accessorie (ponti, muretti a secco di sostegno…) di foggia altrettanto affascinante: un ricco campionario di architetture e ingegnerie vernacolari (come le ho definite qui, quando già ne scrissi) diffuso per il territorio e custodito dai suoi boschi e dalle selve.

Questi antichi manufatti rappresentano un patrimonio culturale oltre modo prezioso sia in senso storico che artistico, tecnologico, etnologico, antropologico, identitario, così come sono una forma di scrittura litica impressa sui monti la cui lettura narra la storia delle genti che li hanno abitati lungo i secoli: una lettura che si compie camminandoci sopra, seguendone il percorso tra boschi, prati, vallette, nuclei ancora abitati oppure ormai abbandonati che a loro volta rappresentano tanti capitoli da leggere di quella storia umana locale.

Un percorso nello spazio e nel tempo, dunque, sugli stessi passi di donne e uomini che nei secoli passati hanno modificato, territorializzato, umanizzato queste montagne e vi hanno intessuto relazioni d’ogni genere: agricoltori con gerle sulle spalle a e attrezzi nelle mani, pastori con le proprie bestie, ambulanti con le merci da vendere nei mercati della pianura, bambini e ragazzi che andavano a scuola, soldati e partigiani armati, briganti, viandanti d’ogni sorta fino ai moderni e contemporanei escursionisti. È pressoché impossibile immaginare quanti tipi umani abbiano mosso i loro passi nel tempo lungo questi rissöi, carichi delle loro cose, delle loro storie e dei destini che ne hanno caratterizzato le vite, ma è parecchio affascinante ripercorrere oggi le stesse antiche vie così contribuendo a propria volta nel continuare a “scrivere” la loro storia, rileggendo con il cammino quelle storie di varia umanità che hanno definito il paesaggio antropico del luogo caratterizzandone l’anima più autentica.

Tutto ciò rappresenta un piccolo/grande tesoro che Torre de’ Busi possiede e che rende prezioso il suo territorio anche più di quanto già non faccia la geografia del luogo, del cui valore gli abitanti devono essere ben consapevoli e sensibili tanto quanto i visitatori devono esserne avveduti e rispettosi. Conosco bene l’attenzione e l’attività ammirevoli della Pro Loco di Torre riguardo la valorizzazione delle rilevanze culturale che il territorio comunale presenta: ma è bene rimarcare che la prima forma di salvaguardia e valorizzazione di questi preziosi segni antropici è sempre quella che ognuno – sia un residente o un forestiero – può e deve elaborare nonché manifestare, comprendendone la bellezza, l’importanza storica, l’armonia con il luogo nel quale si trovano, prestando attenzione e riguardo affinché quel loro valore resti a disposizione di tutti senza essere maldestramente consumato e danneggiato.

Con una attitudine del genere, e i sensi ben aperti alla ricezione del loro fascino peculiare, vagabondare e “leggere” queste antiche vie inscritte sulle montagne è un’esperienza oltre modo emozionante che vi invito caldamente a vivere e a trasformare nella conoscenza approfondita del luogo e del notevole fascino di questa zona della Val San Martino, palcoscenico naturale proteso sulla pianura lombarda, sul bacino dell’Adda e dei laghi prealpini, sulle valli bergamasche e verso il grande orizzonte delle Alpi che a quelle scritture di pietra che si sviluppano sul territorio fanno da inestimabile iconografia.

P.S.: per vagabondare al meglio il territorio in questione, potete contare anche su questa ottima carta dei sentieri, della cui qualità garantisco io – visto che ho partecipato alla sua creazione e alla pubblicazione! La trovate in tutti gli esercizi commerciali della zona – salvo che l’abbiano esaurita.

 

Pubblicità

La stagione migliore per il Monte di Brianza

P.S. – Pre Scriptum: la recente “ospitata” presso il CAI di Calco per la presentazione della guida DOL dei Tre Signori mi ha riportato alla mente l’articolo che potete leggere di seguito e dedicato alla montagna di casa per gli amici calchesi e per chi abita le zone limitrofe, ovvero il Monte di Brianza. Un “piccolo” massiccio prealpino che sa regalare grandi sorprese, la cui scarsa elevazione altitudinale è inversamente proporzionale all’ampiezza di vedute panoramiche e di possibilità escursionistiche per le quali peraltro sono proprio i mesi invernali il periodo migliore, quando altre mete più prettamente montane sono irraggiungibili mentre qui il fascino intrigante dell’inverno prealpino si manifesta in tutta la sua suggestività. Ve lo ripropongo, dunque, insieme all’invito a conoscere e esplorare il Monte di Brianza: la sua bellezza e le peculiarità che offre vi sorprenderanno, ne sono certo.
Buona lettura.

Il fascino discreto (e un po’ magico) del Monte di Brianza

[Il Monte di Brianza dalla sommità del Monte Tesoro. Foto di © Alessia Scaglia; cliccateci sopra per ingrandirla.]
Il Monte di Brianza è uno dei quei luoghi per diverse “ragioni” (tutte assolutamente opinabili) troppo poco considerati e apprezzati. Vuoi perché troppo “facile” da raggiungere, così a ridosso della Brianza (come suggerisce il toponimo) e del milanese, vuoi perché monte dalle fattezze di tozza collinona boscosa priva delle più suggestive asperità tipiche della montagna “vera”, vuoi perché troppo bassa al cospetto dei monti vicini, ben più elevati e rinomati al confronto dei quali sembra appiattirsi intimorito. Be’, tutte cose oggettive ma fuorvianti, perché il Monte di Brianza è invece un luogo assolutamente affascinante e ricchissimo di numerosi piccoli e grandi tesori, un lembo di rigogliosa Natura inopinatamente poco contaminato e antropizzato a pochi km dall’ultracementificata (e inquinata) Brianza e dalla grande Milano, che veramente sembra galleggiare tra i troppi e disordinati segni dell’uomo in questo territorio come un’isola magica, misteriosa e attraente (si veda l’immagine notturna nella galleria fotografica qui sotto e la macchia scura del monte tra le mille luci dei paesi e delle città d’intorno, per cogliere una tale percezione), nella quale il vagare – tra i suoi boschi lungo sentieri e mulattiere secolari che raggiungono luoghi di delicata e antica bellezza – (ri)genera sensazioni piacevolissime, tanto imprevedibili quanto intense.

Ci si sente sospesi, sul San Genesio (altro toponimo del monte, dal nome di una delle sommità principali) in una sorta di piega dello spaziotempo, nella quale certamente giungono i rumori e le visioni della pianura ma sono come filtrati dai “bordi” della sfera ambientale che circonda la montagna e la separa, in modo geograficamente indistinto ma paesaggisticamente netto, dal resto del mondo d’intorno. Ci si trova a poche centinaia di metri in linea d’aria da impianti industriali e strade estremamente trafficate ma da essi ci si sente ben più lontani: forse proprio grazie al vivido e inatteso piacere di ritrovarsi in un’isola di virente quiete così bella e – per molti, ribadisco – inaspettata, che risintonizza i sensi su armonie diverse, fuori dall’ordinario.

Volendo lasciar libera la mente di vagare nei reami della fantasia, verrebbe da pensare che, muovendosi sul placido crinale del Monte di Brianza – che ha orientamento Nord-Sud, più o meno – lungo il sentiero che lo percorre interamente, ci si potrebbe credere in cammino lungo la schiena del Genius Loci del monte, il cui corpo si manifesti nelle fattezze di un ciclope addormentato a pancia in giù, appunto, la testa nascosta sotto il Monte Barro (l’altura adiacente a settentrione) e le gambe che affondano nelle pianure a Sud, verso le colline del Curone; un gigante placidamente a riposo ma assolutamente vivo, vibrante di energia e vitalità al punto da poterla percepire, camminandoci sopra, e sentirla come una forza naturale preziosa e benefica, di quelle che certi luoghi speciali sanno emanare consentendo a chi vi si trova di stare bene lì, di sentirsi ben accolti e compiaciuti di starci. E, a ben vedere, quanto vi ho appena raccontato può essere considerato un volo della fantasia solo nella sua forma metaforica dacché, al di là delle mere suggestioni “letterarie”, veramente il Monte di Brianza – o il suo Genius Loci – emana una propria vitalità peculiare: tenue, delicata, eterea più che altrove, in territori montani maggiormente scenografici (per l’immaginario comune), eppure nitida, a suo modo definita, che si può cogliere con un minimo di sensibilità in più rispetto all’ordinario.

Comunque, anche chi invece volesse far vincere la fantasia sulla razionalità e da essa lasciarsi piacevolmente irretire, sul San Genesio può farlo “a ragione”, viste le numerose leggende che sul monte si possono trovare, e che la fotografa Maria Cristina Brambilla ha raccontato sul numero di novembre 2020 della rivista “Orobie” e in questo suggestivo video:

Insomma: se non l’avete mai fatto prima, o non ancora con la più consona e sensibile attenzione, esploratelo, il Monte di Brianza. Per farlo in modo ben consapevole, potete consultare il sito web dell’Associazione Monte di Brianza (dal quale ho tratto anche le fotografie qui presenti), dove trovate ogni informazione utile al riguardo e molte altre suggestioni altrettanto utili e intriganti.

P.S. – Post Scriptum: sul Monte di Brianza ho scritto anche qui.

 

La dote rara dei Piani di Nava

Ogni volta che raggiungo e poi attraverso i Piani di Nava, come la prima volta rimango piacevolmente sorpreso della bellezza particolare di questo angolo di Valsassina.

Sarà perché salendoci dalla via d’accesso principale, la carrabile cementata che sale da Baiedo – piuttosto monotona, anche se a tratti regala scorci interessanti – il bosco che l’avvolge termina quasi di colpo e, dopo una leggera svolta sulla destra, oltre una vecchia casa, ecco che i Piani è come se apparissero all’improvviso in tutta la loro ariosità morfologica, scintillanti di ogni tonalità che il colore verde può presentare. L’impressione è quella di un sipario frondoso che si apra all’istante così che ci si ritrovi su un palcoscenico di rara bellezza, sul quale tuttavia sono gli attori che diventano spettatori di un paesaggio soave e ospitale i cui elementi geografici e antropici “recitano” – son loro gli “attori protagonisti”, già – un copione inaspettato e coinvolgente. Gli ampi prati ondulati, le case che li punteggiano, le staccionate che disegnano i meridiani e i paralleli della piccola geografia locale, il bosco d’intorno e, attore non protagonista ma assolutamente presente, lì in alto a sinistra, la possente mole del Pizzo della Pieve, il quale sembra dare le spalle ai Piani ma non per scortesia, semmai per evitare di mostrare ai viandanti il suo vasto, ombroso e per certi versi inquietante versante nord est, la celebre “Parete Fasana” (dal nome di Eugenio Fasana che per primo la vinse insieme a Vitale Bramani, l’inventore della suola “ViBram”) ovvero l’“Eiger delle Grigne”, che s’innalza dal fondovalle della Valsassina per quasi 1700 metri dei quali 800 di parete rocciosa.

Ma della particolare bellezza dei Piani di Nava spicca al primo sguardo una peculiarità oggi non così frequente, sui monti: la notevole cura che i proprietari di stabili e terreni in loco evidentemente dedicano al luogo. I prati sono ben tenuti e regolarmente sfalciati, buona parte delle case sono ristrutturate e abitate e poche quelle che abbisognerebbero di interventi, le legnaie mirabilmente ordinate, la strada che attraversa l’altopiano (in verità i Piani di Nava sono una convalle, ma uso quel termine per maggior comprensibilità) anch’essa ben manutenuta, nulla appare fuori contesto o eccessivo. Sembra quasi un angolo di Svizzera finito chissà come all’ombra delle Grigne, il frutto di una relazione che mi verrebbe da credere ancora viva, solida e premurosa, quasi affettuosa degli abitanti con il luogo, sì che il paesaggio conseguente rifletta in maniera chiara tale armonia che contribuisce a acuirne il fascino e l’attrattiva. D’altro canto, e in tal senso, la gradevolezza del luogo determina in qualche modo nel viandante la speciale percezione della sua delicata bellezza, e l’impressione che chiunque transiti dai Piani debba osservare verso il luogo un’attenzione particolare, se possibile anche maggiore rispetto a luoghi montani più selvatici e rudi. Inoltre che, il viandante il quale giunga lassù, debba ugualmente porre attenzione alla comprensione della peculiare armonia locale tra uomo, territorio e paesaggio: una dote rara, come detto, nonché preziosa, emblematica per ogni altro luogo montano e oltre modo pedagogica per chiunque frequenti i monti, i quali sono quasi sempre (le eccezioni risultano rarissime) il frutto della più virtuosa interazione tra uomo e Natura. Ed è inutile rimarcare che questa interazione troppo spesso non genera frutti – e relazioni, luoghi, paesaggi – altrettanto virtuosi. Anche per questo, ribadisco, i Piani di Nava sono un angolo alpestre così bello, da salvaguardare quanto più possibile.

P.S.: non trovate altre immagini dei Piani di Nava da me prodotte, salvo quella recente lì in testa al post, perché non credo di essere un così bravo fotografo, e dunque lascio il compito a quelli veramente bravi le cui immagini dei Piani potete trovare facilmente sul web.

Il Percorso Libropedonale di Songavazzo

Arrivo purtroppo con deprecabile ritardo ma spero non oltre tempo massimo per segnalarvi una bella e esemplare iniziativa che verrà inaugurata domani (alle ore 11) a Songavazzo, piccolo comune posto in uno degli angoli più belli della montagna bergamasca, in bella vista della “Regina” Presolana: il Percorso Libropedonale di Songavazzo, un progetto che si propone di valorizzare il territorio di Songavazzo dal punto di vista turistico e culturale attraverso la letteratura e segnalando l’“alta concentrazione di lettura” presente in loco. Nel 2011 viene infatti inaugurata la Cà di Leber (“Casa dei libri” in lingua bergamasca), tra i primi esempi di bookcrossing presenti sul territorio nazionale, alla quale si uniscono nel 2014 le quattro Casette dei Libri, realtà fortemente volute e progettate proprio al fine di permettere un’ampia condivisione culturale a residenti e turisti. Il Percorso è stato infatti pensato per collegare tutte e quattro le Casette presenti sul territorio, intersecando la loro natura letteraria ad alcuni luoghi panoramici e a monumenti di interesse storico-artistico. Il fil rouge che collega tutto il progetto è costituito da brani scritti da diversi autori che hanno trovato spunto proprio dal paesaggio di Songavazzo per le proprie opere, dalla storia all’arte presente nel Paese.

[La Cà di Leber. Immagine tratta da qui.]
Il Percorso Libropedonale di Songavazzo prevede nove soste intervallate dalle quattro Casette dei Libri segnalate da appositi leggii sui quali si potranno leggere i brani letterari proposti. Vari sono gli autori che hanno partecipato al progetto, proponendo brani inediti od estratti delle loro opere già pubblicate. Tramite il QR Code presente nella grafica dei pannelli di ogni tappa, si potrà accedere alla pagina dedicata al percorso sul sito di Borghi della Presolana e qui ascoltare direttamente la lettura integrale dei brani dalla voce degli autori stessi. Oltre alle letture, ogni pagina contiene tutte le informazioni storico-artistiche relative al territorio e alcune notizie sugli autori che hanno partecipato al progetto: Lorenza Garbarino, Quinto Antonelli¸ Giuliano Covelli, Grazia Milesi, Oriana Bassani, Andrea Cammelli, Laura Benzoni, Urmila Chakraborty e il caro amico Davide Sapienza, imprescindibile Nume tutelare di questi luoghi orobici che abita da tempo nonché di innumerevoli altri paesaggi, e che ringrazio per avermi segnalato il progetto.

Sulla locandina lì sopra trovate le principali informazioni sull’evento, mentre qui potete leggere il relativo comunicato stampa.

Di antiche storie scritte “sul” Monte di Brianza

Questa volta io e Loki, il mio fidato segretario personale a forma di cane – sempre più abile nella sua mansione di «scovavecchisentieri» -, siamo andati a leggere antiche narrazioni di paesaggi antropici inscritti con caratteri selciati di vario stile sulle “pagine” del libro-Monte di Brianza, lì dove le prime propaggini prealpine si innalzano tra la pianura alto-milanese e la valle dell’Adda, le cui acque da poco uscite dal Lago di Como fluiscono verso Sud.

Anche qui, a poche centinaia di metri in linea d’aria da strade ipertrafficate e abitati rumorosi, boschi giovani ma già orgogliosamente rigogliosi nascondono e sovente inglobano nel proprio manto virente innumerevoli segni umani che oggi raccontano – a chi sa coglierle – di relazioni ormai dimenticate degli abitanti di queste zone con il monte e i suoi fianchi i quali, sempre aguzzando la curiosità e lo sguardo per intrufolarsi tra le ramature ombrose e i fitti cespugli, rivelano la presenza frequente di terrazzamenti e altri adattamenti che l’uomo ha invocato alla montagna e la montagna – d’altro canto qui del tutto bonaria e quasi del tutto priva di precipitevoli rudezze più classicamente alpestri – per secoli ha concesso.

Poi, anche qui come in innumerevoli altri posti, tutto è cambiato: per fortuna (forse) per gli abitanti, purtroppo per la montagna, che da inseparabile sodale di esistenza e resilienza quotidiana è diventata quasi del tutto estranea, all’improvviso lontana, quasi temuta con questi suoi boschi ora così densi e ombrosi da sembrare diffidenti verso chi ora li penetra.

Ma quassù, se pur a molti questo luogo suscita ormai un che di selvaggio, in verità c’è ancora un paesaggio, diverso da com’era un tempo ma nemmeno troppo. Il libro-territorio ha pagine polverose e un po’ sgualcite sulle quali tuttavia si possono ancora leggere piuttosto bene molte scritte, numerose narrazioni, diverse storie stese sul monte come sul tempo che raccontano il paesaggio e che consentono al viandante di farne parte, anche solo per qualche momento. Trovo sempre affascinante constatare la realtà di questi luoghi nei quali la Natura s’è rapidamente ripresa lo spazio che aveva concesso all’uomo, il quale in origine glielo aveva richiesto, a volte anche in modo pressante e poi, nel giro di breve tempo, ha deciso di disinteressarsene. Affascinante è il contrasto tra il bosco rigoglioso che ammanta la gran parte del monte e di primo acchito suscita sensazioni di vigorosa selvatichezza inglobando rapidamente ogni cosa, come se fosse lì da secoli, e la presenza comunque ancora lampante di tantissime tracce umane che raccontano d’un passato assai meno selvatico, appunto. Come la bellissima mulattiera selciata che io e Loki abbiamo seguito: nella prima parte assai deteriorata al punto da poter essere confusa con l’alveo di un ruscello in secca (ma che tale ritorna a essere nel caso di forti piogge, temo), la mulattiera rivela se stessa e la propria storia penetrando sempre più nel bosco e salendo in quota, quando comincia a diventare visibile l’artificialità della disposizione delle pietre che spuntano dal terreno le quali poi si conformano in una selciatura ormai evidente e particolare, diversa rispetto a quelle che si possono riscontrare a solo pochi km di distanza sui monti dell’altra sponda della valle dell’Adda (storicamente un altro mondo, tuttavia, che il fiume ha diviso politicamente e sotto certi aspetti anche culturalmente per molti secoli) e con peculiarità a volte insolite – come l’improvviso cambio di tipologia di selciato che si vede bene in una delle immagini che vi propongo qui.

Poi, la mulattiera – le cui origini, al di là della selciatura oggi visibile, sono sicuramente antiche, visto che porta a un nucleo abitato già citato su documenti dell’anno 1085, sbuca nel bosco e giunge nei pressi della propria meta, a suo modo del tutto emblematica rispetto – ovvero in antitesi – all’itinerario appena percorso e altrettanto parossistica riguardo la relazione tra l’uomo contemporaneo e la montagna che si è sviluppata dal dopoguerra in poi, quando l’ambiente naturale è spesso diventato uno mero strumento da sfruttare per ricavarne interessi e tornaconti del tutto avulsi dal contesto geografico, dalla sua storia e dal patrimonio culturale che il paesaggio conserva. Sto parlando di Consonno, sì: forse uno dei primi non luoghi in altura nel senso più significativo della definizione (quando la definizione non esisteva ancora, peraltro). Ma in effetti questa è un’altra (non) storia, ecco.