Sparare neve artificiale anche se farà caldo: una rivoluzione per gli sciatori o una involuzione per lo sci?

[Le piste dell’Aprica, in Valtellina, a fine dicembre 2023.]
Premessa: la stagione sciistica 2023/2024 è orami finita o volge al termine in tutti i comprensori alpini e appenninici, dunque sui vari media si leggono spesso gli articoli nei quali i loro gestori tracciano i bilanci stagionali, ovviamente e invariabilmente positivi quando non entusiastici. Anche perché i suddetti gestori, tanto comprensibilmente quanto poco obiettivamente, al riguardo omettono certe evidenze pur palesi: ad esempio che anche nell’ultima stagione invernale la neve è arrivata a febbraio inoltrato e fino a quel momento solo l’innevamento artificiale ha consentito l’apertura parziale dei comprensori, con chissà quali costi finanziari per le società di gestione degli impianti. Silenzio anche sui report climatici i quali hanno attestato che sulle montagne italiane tutti i passati mesi invernali hanno battuto i rispettivi record di temperatura, certificando lo scorso inverno come il più caldo dal 1800, cioè da quanto si rilevano i dati climatici. Insomma: un entusiasmo legittimo ma poco credibile, quello degli impiantisti.

Fine premessa, e andiamo al punto di questo mio post.

Posta la notizia di qualche settimana fa che vedete qui sopra (cliccate sull’immagine per leggere l’articolo), e al netto dei numerosi e ineludibili aspetti ambientali, economici, ecologici, culturali, etici di tali iniziative atte a mantenere in vita l’industria dello sci nonostante la realtà climatica in divenire, molto semplicemente chiedo: ok, si può/potrà produrre neve artificiale (in realtà neve tecnica, ma ormai tutti la conosciamo con la prima definizione) anche se farà più caldo. Tuttavia, una volta sul terreno quella neve sparata, se le temperature dell’aria saranno troppo alte e magari fino a certe quote ci pioverà sopra, come si potrà sciare in un’accezione ancora decente del termine? E come si potrà basare su tali circostanze oggettive – già oggi manifeste e nel prossimo futuro sempre più presenti – la qualità dell’offerta e i prezzi al pubblico del conseguente turismo sciistico? Si tenga presente che la neve artificiale è più “dura” rispetto a quella naturale e presenta cristalli di forma diversa: tende a sciogliersi meno rapidamente rispetto a quella naturale ma offre un fondo sciabile più ostico e pesante, in caso di temperature alte, essendoci più acqua nei suoi cristalli e presentando una maggiore permeabilità all’aria. Già da tempo in effetti se ne denuncia la maggior pericolosità per gli sciatori meno esperti; parlare di «piste perfette» in presenza di neve sparata, come riporta l’articolo linkato, è dunque una contraddizione in termini.

Inoltre: le stazioni sciistiche spareranno neve a spron battuto spendendo cifre esorbitanti che peseranno sempre di più sui loro bilanci per poi offrire piste innevate in condizioni decenti solo per qualche giorno? Forse infileranno delle serpentine sotto le piste da sci per raffreddarne la superficie e conservare il manto nevoso artificiale? Doteranno gli sciatori di visori 3D, incluso nel costo degli skipass giornalieri (tanto già in forte e costante aumento, qualche altra decina di Euro in più che sarà mai) per far vedere loro la neve anche sulle piste tornate a essere distese erbose?

Lo posso anche capire, nell’ottica dei gestori degli impianti messi spalle al muro dalla realtà corrente, il ricorso alla tecnologia più avanzata per cercare di limitare le conseguenze del cambiamento climatico e proseguire l’attività: ma, tanto a livello ambientale quanto – ribadisco – della qualità dell’offerta turistica, il gioco vale la candela?

[Foto di Hans da Pixabay.]
Forse sì, per alcuni comprensori grandi e dotati di caratteristiche geomorfologiche particolari lo vale – a quali costi futuri per chi vuole “giocare” non oso immaginarlo, e lo scrivo pensando anche alla sopravvivenza di quegli ski resort più grandi e strutturati. O forse, viceversa, quella candela presto diventerà un cerino il quale, ormai spento, resterà in mano ai gestori di innumerevoli comprensori sciistici e, cosa ben più drammatica, alle comunità dei territori che li ospitano. D’altro canto, se non c’è alcuna volontà di elaborare una transizione verso altre forme di frequentazione turistica post-sciistica che possano salvaguardare quanto possibile le attività e chi ci lavora mantenendo al contempo un’offerta turistica apprezzabile e completamente sostenibile a vantaggio dei luoghi e della loro economia (e d’altro canto questa transizione appare viepiù obbligatoria per tutte le località tanto, poco o non più sciistiche), quel cerino è come se fosse già spento anche se si crede di vederlo ancora acceso.

La montagna “bipolare”

«Sci, ultime discese di una stagione d’oro.»
«La stagione è andata molto bene.»
«In questi giorni le temperature sono alte, quindi verificheremo se riusciremo a garantire tutte le piste.»
«Martedì le condizioni della neve non erano ottimali, quindi, avendo ricevuto qualche lamentela, abbiamo deciso di tenere chiuso per qualche giorno.»
«Negli ultimi giorni non è stata facile da gestire viste le alte temperature.»
«Valuteremo nei prossimi giorni se sarà fattibile continuare.»

Certo che oggi è veramente dura la vita dei gestori dei comprensori sciistici!

Le dichiarazioni che avete letto qui sopra (le ho trovate qui) sono di alcuni di essi, referenti di altrettante stazioni sciistiche bergamasche: comprensori con piste per buona parte sotto i 2000 m di quota dunque in totale balìa del cambiamento climatico – ma è inutile rimarcare che dichiarazioni simili le si possano riscontrare ovunque sulle montagne italiane. Costretti, quegli impiantisti, da un lato a far credere che tutto vada per il meglio, dall’altro a dover ammettere, seppur a denti stretti, le crescenti difficoltà che rendono sempre più aleatoria la loro attività. Un atteggiamento forzatamente bipolare, insomma, che palesa chiaramente ciò che essi non possono ammettere, ovvero la consapevolezza che i loro comprensori sciistici hanno gli anni contati e di contro l’incapacità di capire cosa fare. O la non volontà di fare qualcosa, per motivi diversi ai quali non sanno sottrarsi.

D’altro canto capirete bene che legare un’attività imprenditoriale in un territorio già di suo difficile come quello montano, alla quale in modi più o meno leciti e giustificati si rimanda l’economia dell’intero contesto locale, al «verificheremo», al «valuteremo», al «non è stato facile» e al «se sarà fattibile», cioè a una incertezza pressoché totale nel presente e ancor più nel futuro, è cosa che lascia piuttosto interdetti. Non è per niente normale, insomma.

Ma non ero ironico, poco sopra, nel rimarcare quanto sia dura oggi la vita degli impiantisti. Lo è sul serio e non invidio affatto il loro stato. Hanno diritto a tentare di difendere il proprio business sciistico? Sì, ce l’hanno, e in tal senso si può capire che se ne escano con espressioni di esultanza forzate. Hanno diritto di continuare la loro attività? Sì, fino a che essa si dimostri pienamente sostenibile e in grado di reggersi da sola, come deve accadere per ogni impresa commerciale. Hanno diritto di rivendicare la predominanza della loro attività commerciale su ogni altra e per questo pretendere risorse pubbliche a non finire per andare avanti? No, non ce l’hanno: e, appunto, sono loro stessi a dimostrare ciò con quelle loro parole piene di incertezza e inquietudine. Hanno facoltà di ignorare la realtà ambientale – in senso generale – nella quale operano per procrastinare un modello economico-imprenditoriale che non vogliono cambiare? No, per nulla. È bene ricordare loro che non detengono il possesso della montagna e nemmeno l’usufrutto universale o il diritto di fare ciò che ad essi più conviene ma, come tutti, hanno il dovere di fare ciò che più conviene alla montagna e a tutti quelli che la abitano, non solo a chi va dietro ai loro affari – poco o tanto legittimi che siano.

Nella situazione che stiamo vivendo – dal punto di vista ambientale, economico, sociale, culturale – non si può più vincolare la montagna a questa situazione di precarietà e mantenere le comunità residenti ostaggio di un’economia che chiaramente – purtroppo! – è destinata per gran parte a svanire presto, nonostante ciò riservandole fiumi di denaro pubblico su iniziativa di politici miopi e incompetenti che inseguono i propri tornaconti propagandistici e elettorali. Di contro, non si può non fare nulla o quasi per progettare un futuro che rimetta al centro i bisogni, le necessità e il benessere dei montanari, nel quale sia certamente presente anche il turismo (quello sciistico ma non solo) ma in modi ben più razionali, sostenibili e contestuali ai territori e al tempo che stiamo vivendo. In tal senso anche la montagna viene resa forzatamente “bipolare”: da un lato soldi a gogò in attività economiche commerciali prossime alla fine, dall’altro lato nessuna alternativa e per giunta la continua perdita di servizi alla popolazione – sanità, trasporti pubblici, scuole, cura del territorio… insomma, le solite cose ben risapute da tutti meno che dai politici. In altre parole: da un lato la costrizione a un’esultanza svarionata e un po’ delirante, dall’altra la depressione sempre più profonda e tetra. In mezzo, la montagna che cambia – in primis per il clima – e la sostanziale negligenza al riguardo. Va tutto bene? Andiamo avanti così?

Che le risposte a queste domande possano essere le più obiettive, sincere e costruttive possibili.

La neve artificiale è bella! Oppure no?

In questi giorni circola sulle pagine social di molti comprensori sciistici (vedi sopra, tra i tanti che si possono trovare sul web) un post, che altrove è un vero e proprio “spot”, con il quale si esalta l’innevamento programmato (cioè la neve tecnica, più comunemente definita neve artificiale), ma che a ben vedere appare come un tentativo piuttosto maldestro di giustificare in chiave ecologica una pratica meramente economica dagli impatti ambientali inequivocabili. Una sorta di green washing in salsa sciistica, in buona sostanza. Be’, sarebbe molto più onesto e in fondo ammissibile, da parte dei comprensori sciistici, se piuttosto di spendere tante belle parole nel tentativo di giustificare l’ingiustificabile dicessero chiaramente: cari amici, sciatori e non, se non avessimo la neve artificiale con tutti i suoi impianti saremmo nella m**da e falliremmo in breve tempo. Amen.

Sarebbe più onesto e onorevole, appunto. Poi si potrebbe essere d’accordo o meno, ma almeno verrebbe evitata l’ipocrisia di fondo che invece traspare da certe dichiarazioni pubbliche come quella qui disquisita.

Ma, a tale proposito: analizziamo quel post dei comprensori sciistici con un poco più di attenzione.

Lo sci alpino è il volano dell’intera economia turistica montana invernale. Un settore che comprende 400 aziende, genera 1,5 miliardi di fatturato, 2,2 miliardi di immobilizzi e impiega 15.000 persone di cui un terzo a tempo indeterminato. Un settore che ha un indotto – ristorazione, attività ricettive, maestri di sci, negozi, noleggi, etc. – che moltiplica questo fatturato per 10 volte e i lavoratori coinvolti per 5.

Be’, questi sono dati che di frequente vengono esaltati dai comprensori sciistici, ma dei quali mai viene comunicata la fonte e/o il sistema di calcolo. Ciò non significa che non siano veritieri, tuttavia comporta che presentati in questo modo non dimostrano nulla, per giunta risultando contraddittori rispetto alla realtà socioeconomica effettiva di molti territori montani sciistici. Inoltre: siamo sicuri che veramente lo sci alpino è il volano dell’intera economia turistica montana invernale? Le analisi sui flussi turistici montani dicono cose molto diverse, in realtà.

Per fare neve:
– si usa solo acqua, aria ed energia elettrica;
– l’acqua viene prelevata tra novembre e dicembre e viene reimmessa poi nell’ambiente a fine stagione, a primavera, quando anche l’agricoltura ne ha più necessità;
– l’innevamento programmato ha vissuto negli ultimi anni uno sviluppo tecnologico costante che ne ha migliorato l’efficienza: oggi, a parità di acqua ed energia utilizzati, si produce quasi 10 volte la quantità di neve che si produceva 10 anni fa. E se ne produce solo la quantità minima necessaria.

Queste affermazioni sono effettive ma non obiettive. È vero che non vi sono più additivi chimici negli impianti come un tempo poteva succedere, ma sostenere che prelevare acqua a novembre e renderla a primavera non sia un danno è falsissimo: innanzi tutto comunque si toglie acqua al bilancio naturale del reticolo idrico locale del quale la popolazione usufruisce, e di norma nelle Alpi i mesi tra novembre e febbraio sono quelli con meno precipitazioni (clic) su base annuale, inoltre i cicli vegetativi naturali certamente rallentano nel periodo freddo ma non è che per questo non abbisogno di acqua per mantenersi stabili (qui trovate un’altra utile fonte al riguardo). D’altro canto l’agricoltura ai piedi delle montagne inizia in molti casi i cicli di irrigazione ben prima della fine stagione sciistica. Non solo: a differenza di quella naturale la neve artificiale induce modifiche chimico-fisiche nei terreni innevati, soprattutto in forza della maggiore densità, modificando di conseguenza anche le peculiarità vegetative di quei terreni: una mutazione che allo sciatore non interessa ma a chi fruisce dei prati/piste da sci per l’attività agricola deve interessare molto. È vero che gli impianti di innevamento più recenti sono più efficienti rispetto al passato, ma ciò non significa che non siano comunque pesantemente energivori, posto poi che la «quantità minima necessaria» di neve da sparare sulle piste con gli anni va sempre aumentando, al pari di quella complessiva nel corso dell’intera stagione, perché con il cambiamento climatico diminuisce sempre più la neve naturale, sia in termini di quantità che di durata al suolo. E con quali costi esorbitanti poi si produce oggi la neve artificiale? La risposta la trovare in buona parte negli aumenti costanti dei prezzi degli skipass!

Gli impianti di risalita:
– sono ecologici, usano trazione elettrica;
– non sono invasivi: se dopo qualche decennio di servizio si decide per qualsiasi ragione di chiuderli, il bosco in pochi anni riconquista naturalmente quello spazio;
– rappresentano un reale e concreto servizio di mobilità intervallivo, diminuendo drasticamente il traffico automobilistico, anche nella stagione estiva, per raggiungere le alte vie e programmare passeggiate, escursioni, scalate;
– rappresentano per i residenti, turisti e visitatori un concreto miglioramento infrastrutturale per limitare importanti flussi di traffico su gomma.

Anche qui, attraverso affermazioni reali ma rese funzionali a scopi particolari – ovviamente quelli degli impiantisti -, si cerca di giustificare l’attività sciistica con elementi oggettivamente marginali rispetto alla stessa e al suo impatto concreto nei territori, se non fuorvianti. Perché è sostanzialmente vero quello che viene dichiarato, tuttavia l’ecologicità e l’invasività degli impianti di risalita non si misura solo con il tipo di energia utilizzata, ma per come viene prodotta, sull’impatto ambientale nel territorio dell’infrastruttura, su quello visivo e sonoro nel paesaggio, su eventuali forme di inquinamento locale e del suolo derivanti dall’attività dell’impianto, dalle necessità manutentive… insomma, non si può farla troppo semplice. E quante centinaia di rottami di impianti non più attivi sono sparsi sulle montagne italiane che nessuno ha cura di smantellare bonificando di conseguenza il terreno coinvolto? Proseguiamo: che rappresentino un reale e concreto servizio di mobilità intervallivo che diminuisce il traffico automobilistico e limita importanti flussi di traffico su gomma è effettivamente una delle maggiori potenzialità degli impianti di risalita nei periodi non sciistici. Ma in quanti casi ciò avviene veramente? Quanti sono i territori che realmente potrebbero sfruttare tale potenzialità? E quanti di quelli che la potrebbero sfruttare la incentivano come dovrebbero in un’ottica veramente funzionale alla diminuzione del traffico automobilistico? L’unico territorio delle Alpi italiane nel quale la potenzialità degli impianti di risalita alternativi al traffico automobilistico risulta considerabilmente sfruttabile è quello delle Dolomiti: tuttavia, al netto di alcune iniziative certamente virtuose ma occasionali (come la chiusura in alcune giornate dei passi dolomitici) e di molte belle parole, non sembra che ci sia una reale volontà di sostituire le auto con le funivie e le telecabine, anzi.

Insomma, quelli dei comprensori sciistici sono un post e uno spot sostanzialmente poco credibili, oltre che piuttosto ipocriti.

Attenzione: con ciò non si vuole dar contro “dritti per dritti” all’industria dello sci, che è legittimata a fare ciò crede per salvaguardare il proprio business fino a che le sue azioni non vadano oltre la sostenibilità, in senso generale e non solo ambientale, che i territori montani dove operano possono sopportare e ammettere. Ma molta parte del marketing elaborato e messo in circolazione negli ultimi tempi dall’industria dello sci si è rivelato e si rivela così poco onesto, obiettivo e così spesso subdolo da minare la credibilità non solo del comparto turistico invernale ma della stessa realtà montana nel suo complesso. Un comparto che ad oggi resta indiscutibilmente fondamentale – anche per oggettiva mancanza di alternative turistiche e relative progettualità – per molti territori montani, ma che per questo non può e non deve esimersi dal risultare il più sostenibile possibile, e in qualsiasi modo il termine trova un senso (vero, non blaterato come spesso accade), nei riguardi delle montagne dove opera, delle comunità che le abitano, delle molteplici valenze storico-culturali che le caratterizza, dei loro paesaggi e dell’ecosistema generale che dà loro vitalità. Ecco, da questo ineludibile punto di vista, a mio parere, l’innevamento programmato può essere qualcosa di funzionale a certi obiettivi economici locali ma non si può considerare un’attività ecologica – e si noti che il termine indica lo studio e la gestione equilibrata della “casa comune”: dal greco oikos (dal quale viene eco-) che significa casa, appunto, e anche ambiente. Dunque, affermare come sto facendo che l’innevamento programmato non si può considerare un’attività ecologica significa anche che non lo è nemmeno a beneficio di chi abita la “casa comune” e “l’ambiente”, dunque delle comunità che abitano le montagne sciistiche.

A meno di voler far credere e giustificare ciò che non è credibile né giustificabile, già.

SONDAGGIO! La neve artificiale in Svizzera e in Italia

Cari amici, vi propongo di seguito un bel SONDAGGIO(NE)!

Leggete la domanda di seguito formulata e scegliete la risposta che ritenete più corretta:

Secondo voi, perché in Svizzera gli enti governativi disincentivano la realizzazione e il finanziamento di impianti di innevamento artificiale dei comprensori sciistici soprattutto al di sotto dei 2000 m di quota mentre in Italia la politica locale continua a stanziare centinaia di milioni di soldi pubblici per realizzare tali impianti soprattutto in comprensori sciistici al di sotto dei 2000 m di quota?

 

  1. Perché notoriamente gli svizzeri non capiscono nulla di montagne mentre gli italiani capiscono molto di più.
  2. Perché notoriamente gli svizzeri capiscono molto di montagne mentre gli italiani da tempo non capiscono più nulla.
  3. Perché c’è un equivoco di fondo: in Italia si è convinti di dover aver bisogno di sempre più «neve», solo che non si tratta della “neve” che è «acqua ghiacciata cristallina».
  4. Perché è tutto un magna-magna.

Forza, manifestate la vostra opinione!

Tra chi risponderà verrà estratto a sorte uno stagionale per la stagione 2024/2025 valido nel comprensorio sciistico dei Piani Resinelli (Lecco) oppure, in alternativa, una bottiglia di ottima birra artigianale! 😄

Quest’anno in montagna ci sono più turisti rispetto al 2023 o ce ne sono di meno?

Ogni anno a febbraio l’Osservatorio Turismo di Confcommercio, in collaborazione con la società di ricerche di mercato SWG, elabora e rende pubblica un’indagine sulle tendenze del turismo montano, focalizzata al primo trimestre dell’anno analizzato cioè al periodo tradizionalmente sciistico.

Dal confronto dei risultati di quest’anno con quelli del 2023 balza subito all’occhio la differenza notevole di quello che è il dato principale della ricerca, il numero di italiani che hanno scelto come destinazione per la propria vacanza la montagna: nel 2024 8,3 milioni, nel 2023 12 milioni (vedi le immagini sopra e sotto, cliccateci sopra per leggere i rispettivi comunicati). Una differenza di ben 3,7 milioni sull’anno in corso rispetto al precedente, pari a oltre il 30% in meno.

A meno che il dato del 2024 non comprenda le presenze giornaliere (cosa tuttavia non segnalata nei comunicati ufficiali di Confcommercio), una riduzione così ingente risulterebbe del tutto contradditoria ai tanti comunicati dei gestori dei comprensori sciistici che invece segnalano “record” di presenze sulle piste e nei propri hotel: basta fare una rapida ricerca sul web e di comunicati del genere se ne trovano numerosi. Com’è possibile?

Non essendo il caso di trarre conclusioni in merito, ho provveduto a chiedere direttamente a Confcommercio delucidazioni al riguardo. Nel frattempo segnalo un altro dato assai significativo che emerge dall’indagine dell’associazione, in tal caso indipendente dalla quantità di presenze, ed è quello della spesa media pro capite: 540 Euro nel 2023, 350 nel 2024. Un ulteriore dato in consistente riduzione, pari al 35% in meno, a sua volta formalmente in contraddizione rispetto alla tendenza all’aumento dei prezzi che nelle ultime stagioni ha caratterizzato l’offerta delle località montane, in particolar modo quelle sciistiche. Ovvero, per osservare la questione dal punto di vista opposto, un dato assolutamente legato a quegli aumenti, che pare costringano i turisti italiani a ridurre di conseguenza i propri budget per la spesa vacanziera. E se si rileva un ulteriore risultato dell’indagine di quest’anno, cioè che solo un italiano su tre praticherà sport e dunque, in molti casi, acquisterà uno skipass per sciare, la contraddizione tra quanto rilevato da Confcommercio e quanto dichiarato dagli esercenti turistici appare ancora più evidente.

Insomma, è il caso di capirci qualcosa di più e di meglio su questo tema: non tanto per dare ragione o torto all’uno o all’altro ma perché, in qualsiasi modo e qualsivoglia numero rilevino, questi dati risultano importanti e significativi rispetto alla direzione che deve e dovrà prendere il turismo montano nei prossimi anni e le conseguenti politiche di gestione delle sue dinamiche commerciali e socioculturali, al fine di generare sempre il maggior beneficio possibile per tutta la montagna e innanzi tutto per le comunità che la abitano e lassù restano, quando i turisti se ne sono tornati alle proprie case.

Conto dunque di tornare presto su questo tema, con ulteriori rilievi, dettagli e considerazioni.