La fobia strisciante (per le “corde”)

[Foto di Dale Nibbe su Unsplash.]
Appena riemergo dall’ombra del bosco con il segretario Loki, sul sentiero percepisco qualcosa che si muove. Che striscia, anzi.

Di primo acchito mi spavento e spingo avanti Loki rudemente temendo che con le zampe possa schiacciare quella che potrebbe essere una vipera; in realtà il segretario a forma di cane nemmeno si accorge della presenza serpeggiante che intanto sta già sparendo nella vegetazione a lato del sentiero. Tuttavia, passata l’apprensione iniziale, faccio in tempo a riconoscere di chi si tratta: è un orbettino.

Un povero orbettino, già. Mi viene spontaneo voltarmi come a volergli chiedere perdono (ma è già scomparso) per come lo abbiamo messo in pericolo e soprattutto pensando alla malasorte evolutiva che ha colto la sua specie. Voglio dire: l’orbettino è creduto da chiunque se lo veda davanti – salvo che dagli esperti, ovviamente – un serpente, cosa che non è affatto dato che è un sauro, una lucertola in buona sostanza, che però nel corso dell’evoluzione ha perso le zampe così ritrovandosi suo malgrado a far parte della categoria di creature viventi più disprezzata in assoluto. Quando invece è giovane e non ancora cresciuto in lunghezza molti lo scambiano per un grosso verme, altra categoria animale assai repulsiva. Peraltro alcune vecchie credenze popolari lo pensavano cieco (da cui il nome popolare) e per questo velenoso per autodifesa, cosa del tutto falsa: gli occhi li ha mentre il veleno per nulla. Non solo: dai serpenti, con i quali viene confuso, è pure predato – in primis dai colubri, altra presenza che non di rado incrociamo, qui nei boschi (e con i quali personalmente ho un rapporto di cordiale indifferenza). Insomma: una batteria di scalogne non indifferenti, il povero orbettino.

Ho letto di un proverbio africano che così recita: «Chi ha visto un serpente di giorno, di notte ha paura di una corda» Verissimo. A volte però, da questa parte del mondo, sembra quasi che abbiamo paura delle corde di giorno anche più dei serpenti di notte, che d’altro canto non vediamo e dunque non temiamo. O li temiamo ma in forza di una ofidiofobia del tutto indotta e irrazionale che ci terrorizza ben oltre i suoi stessi limiti naturali: così le povere creature striscianti, per natura tra le più furtive, continuano a portarsi appresso lo stigma demoniaco della Genesi, sotto forma di fobia diffusa e quasi sempre immotivata. Anche quando non sono affatto serpenti, appunto.

[Albrecht Dürer, Il peccato originale, 1504.]

La wilderness dentro

Abitiamo un pianeta, noi umani, del quale abbiamo praticamente esplorato ogni suo angolo e addomesticato quando non antropizzato, nel bene e nel male, la sua componente selvaggia, al punto che – io credo – il concetto di wilderness, inteso come la Natura nel suo stato originario e non ancora contaminata da interventi umani, sia diventato meramente ideale e utopico. D’altronde il termine, così lessicalmente scenografico, è usato e abusato in modo ormai spropositato e sovente per identificare luoghi naturali che del proprio stato originario non hanno più nulla ma li si vuol far credere ancora “selvaggi” per turistificarli meglio. Ma forse, al riguardo, una domanda sarebbe da porci: cerchiamo e a volte crediamo di trovare il “selvatico” nel mondo che frequentiamo, ma lo abbiamo ancora dentro noi stessi? Ovvero, siamo capaci di percepirlo, comprenderlo e armonizzarci a esso?

Dalle possibili risposte a queste domande temo derivi la realtà di un controsenso sostanziale: quando pensiamo al “selvaggio”, ovvero alla Natura che ci viene di considerare tale, subito lanciamo la mente in territori lontani e remoti nei quali crediamo che quel termine abbia ancora un senso compiuto. Comprensibilmente ma, con ciò, in qualche modo anche palesando l’acquisita incapacità di identificarlo altrove proprio perché non sappiamo più percepirlo dentro di noi. Abbiamo voluto diventare così “Sapiens” da perdere totalmente la nostra genesi animale ma, in questo modo, restando diversi passi indietro agli animali veri e propri, i quali infatti con il mondo naturale mantengono una relazione ben più armoniosa e meno dannosa della nostra. È solo perché loro non sono “intelligenti” come noi? E se fosse vero invece il contrario e la nostra intelligenza fosse solo una dote di matrice meramente “tecnicista” (forse meramente dettata dalla fortuna di possedere un pollice opponibile) presunta, autodecretata e funzionale al nostro voler dominare in modo indiscutibile il mondo? E a saperlo distruggere, come diretta e terribile conseguenza.

Insomma: penso che se siamo in grado di ritrovare in noi stessi la natura selvatica che geneticamente possediamo, e se la sappiamo comprendere e contestualizzare alla nostra relazione con il mondo nel quale viviamo, forse nel nostro mondo iperantropizzato il “selvaggio” lo possiamo fortunatamente ritrovare anche nel bosco appena fuori casa, lì dove la Natura, nella sua vitalità biologica, c’è in forme diverse con sostanza uguale a quella che si trova nelle tundre artiche o nella foreste equatoriali. È la stessa cosa, la stessa vita, solo diversa in quanto è differente il territorio ma ciò non cambia di una virgola il senso e l’essenza della nostra relazione con essa.

In fin dei conti, vista la realtà storica della civiltà umana, se fossimo (rimasti) più selvatici e ci relazionassimo di più e con maggiore armonia con quel mondo, anche ove sia pesantemente antropizzato, potrebbe pure essere che il mondo in cui viviamo ne trarrebbe dei bei vantaggi. Magari no, ma io, forse sbagliando o equivocando, penso di sì.

P.S.: nell’immagine in testa al post, un angolo di selvatico domestico, con segretario personale a forma di cane a mollo e un ospite speciale laggiù in fondo (ingrandite l’immagine per scovarlo).

Come compatrioti sterminati

Quello deve essere stato uno degli ultimi orsi della regione. Verso la fine del secolo erano praticamente estinti. Lupi e linci ci avevano lasciato la pelle già prima, adesso era la volta degli orsi. Che smania avevano gli uomini di eliminarli. Avevano paura per i loro animali domestici? Per le pecore e le capre che spesso effettivamente erano vittime del loro appetito? O si trattava piuttosto di un impulso irrazionale: eliminare, cacciare, brama di persecuzione, un po’ come certi popoli che possono provare piacere a eliminare dei compatrioti d’altra etnia?

(Oscar Peer, Il rumore del fiume, Edizioni Casagrande, 2016, traduzione di Marcella Palmara Pult, pag.77.)

Compatrioti: è assai interessante che Peer utilizzi questo termine per mettere in relazione, seppur indiretta ma senza dubbio emblematica, uomini e orsi. Gli uni e gli altri abitanti degli stessi monti, razze diverse e separate ma ciascuna delle quali ha costruito nel tempo la propria comunità alpestre resiliente, su quei monti, dunque comunque per molti versi accomunate in un’unica “storia geografica” peculiare. Finché, come riflette Peer, l’uomo ha rotto la propria relazione armonica con il resto del mondo naturale autoeleggendosi razza dominante e soverchiante, così da arrogarsi il diritto – impulsivo e irrazionale anche perché dall’uomo ritenuto addirittura “piacevole” ovvero appagante la propria brama di dominio, appunto – di perseguitare, eliminare, cacciare, sterminare altre creature i cui diritti di presenza e di sussistenza su quei monti erano gli stessi, non certo minori o secondari perché generati da una comunità inferiore (anzi!), fino al punto di annientarle totalmente.

Ora, persino considerando la necessità di proteggere i propri animali e le proprie cose o i bisogni sussistenziali, non è sul serio un comportamento terrificante e totalmente folle, quello che troppo spesso gli uomini hanno manifestato, e purtroppo di frequente manifestano ancora, nei confronti dei “compatrioti” viventi nei loro stessi territori?

M49, sei tutti noi!

Giusto sabato scorso stavo cercando tra i libri di casa qualche bella citazione in tema di libertà – un argomento sempre più fondamentale e del quale occorre evidenziare e salvaguardare costantemente l’importanza perché, di contro, sempre più trascurato e messo in pericolo un po’ ovunque nel mondo (anche in quello che un po’ ingenuamente definiamo “libero”) da coercizioni d’ogni sorta, quasi sempre incomprese dai più anche perché imposte ingannevolmente. Ecco, di citazioni interessanti ne ho trovate parecchie e oggi mi ero ripromesso di sceglierne qualcuna dalla quale tratte un articolo, quando poi i media hanno pubblicato una delle “citazioni” migliori in assoluto e assolutamente più rappresentative del bisogno di libertà che ogni creatura vivente, intelligente e senziente dovrebbe sentire e riservare per se stessa – ad esempio questa:

[Immagine tratta da “Il Dolomiti“, cliccateci sopra per leggere l’articolo da cui è tratta.]
Eh già, caro M49, ancora una volta sei tu il vero e più efficace difensore del concetto e del senso di “libertà”, da queste parti. Ancora tu, “animale” se non “bestia”, «problematico» e pericoloso, stai insegnando a noi umani “Sapiens” quale sia la reale natura (in ogni accezione del termine) della libertà, e ci dimostri quanto ci siamo spaventosamente allontanati da essa, con la nostra civiltà tanto “evoluta”, in preda a una presunzione così ottusa da aver rotto gli equilibri e le armonie che ci relazionavano con l’ambiente naturale, causando danni anche a tutte le altre creature che lo abitano insieme a noi, verso le quali ci arroghiamo pure il diritto di decidere su come debbano vivere e comportarsi, ammettendo solo ciò che fa comodo a noi e considerando “pericolosa” ogni altra cosa. Un atteggiamento talmente stupido che qualsiasi creatura intelligente si fuggirebbe il più lontano possibile… ecco, appunto come stai facendo tu. Anche in ciò insegnandoci e indicandoci – almeno tentando di farlo, a modo suo – quale dovrebbe essere il giusto modo di far andare le cose, per non far che le cose – la Natura nel suo complesso, nello specifico – ci si rivoltino contro, come sovente accade.

[Lui non è M49 ma certamente ci assomiglia molto. Foto di Pexels da Pixabay]
Speriamo che, almeno stavolta, la tua rivendicazione di libertà serva a qualcosa, a favore tuo, dell’ambiente naturale e di tutti noi. Ho seri dubbi, visti certi personaggi in gioco nella tua vicenda, ma mi auguro che – come si dice – la speranza sia realmente l’ultima a morire. Anzi no, mi correggo… la penultima: non prima della libertà!

P.S.: qui trovate gli articoli che ho dedicato nei mesi scorsi a M49, nel blog.

Resisti, M49!

[Foto tratta da qui, cliccateci sopra per leggerne la fonte.]
Maledizione, M49!

Scrivevo solo ieri, qui sul blog, felicitandomi del tuo ritorno e purtroppo ti hanno già catturato e privato della tua naturale libertà, quei prepotenti!

Mi sembra evidente che ti aspettassero al varco, gli umani trentini in sodalizio “istituzionale” coi sudtirolesi, che gli bruciasse ancora il modo in cui lo scorso anno li hai bellamente buggerati… e ora, appena ne hanno avuto l’occasione, si sono voluti vendicare, imprigionandoti di nuovo nel recinto dal quale l’estate scorsa eri riuscito a fuggire, a volerti far subire oltre al danno pure la beffa!

Be’, non so se questa volta riuscirai nuovamente a riguadagnare la tua libertà, nonostante sia con tutta evidenza ben più intelligente dei tuoi carcerieri; immagino che ti terranno d’occhio in maniera alquanto stringente, continuando ovviamente a sostenere che tu sia “pericoloso”.
Tu, non loro. Al solito, già.

Mi auguro non ti facciano del male, quegli umani, e abbiano la decenza di riconoscere la tua naturale dignità. Come scrivevo ieri e qui ribadisco, il diritto degli umani di stare al mondo è basato sul dovere di garantire lo stesso diritto alle altre creature viventi. E che degli esponenti della razza umana vengano a raccontare che questo diritto tu non l’hai perché sei “pericoloso”, è come sentire un piromane indefesso che imponga con arroganza a qualcuno di spegnere il fiammifero che tiene in mano. Ecco.