Un’ennesima discutibile “ciclovia” all’Alpe Lendine in Valle Spluga?

[L’Alpe Lendine, 1700 m, sovrastata dal Pizzaccio, 2589 m. Immagine tratta da https://ape-alveare.it.]
Giorgio Tanzi, amico Accompagnatore di media Montagna “titolare” di Insubria Trekking oltre che Naturalista ed Educatore Ambientale, mi segnala che tra l’Alpe Lendine e l’Alpe Laguzzolo in Valle del Drogo, una laterale della Valle Spluga di grande bellezza alpestre relativamente poco conosciuta e frequentata e per questo capace di offrire angoli di natura sostanzialmente intatta (salvo che per la presenza della Diga del Truzzo e delle opere annesse, d’altro canto prossime al secolo di vita e dunque ormai storicizzate nel paesaggio), è stata realizzata quella che sembra un’ennesima ciclovia, o opera apparentemente similare, che per lunghi tratti ha totalmente stravolto il sentiero originario allargandolo e livellandolo ma di contro presentando pendenze sovente molti forti che appaiono inadatte per la percorrenza con biciclette elettriche o muscolari, semmai più consone ad un transito motoristico. Il tutto, anche qui come in numerosi altri luoghi che hanno subìto la realizzazione di tali tracciati, con ben poca cura dell’inserimento in ambiente e delle finiture dell’opera, al punto che, rimarca Giorgio, sono bastate le prime gelate notturne a generare dissesti sulla superficie del nuovo tracciato.

[Nelle foto di Giorgio Tanzi, sopra il sentiero originario, sotto la nuova “ciclovia” con il fondo già dissestato.]
Vista la zona, il pensiero mi corre subito ad un’altra recente e criticata ciclovia, quella realizzata nella vicina e poco più settentrionale Val Febbraro, tra l’Alpe Piani e il lago di Baldiscio, sotto l’omonimo passo sul confine con la Svizzera (dove è denominato Balniscio) e sopra l’abitato di Isola: ne ho scritto qui. Anche in questo caso, una zona fino ad oggi quasi per nulla turistificata e di grande pregio naturalistico (tant’è che viene definita spesso «selvaggia» dalla promozione turistica locale), ora diventa accessibile anche a chi lassù mai ci sarebbe potuto arrivare, se non a piedi e con un buon allenamento ovvero in forza di una passione autentica per i luoghi montani e la loro bellezza originaria.

Non sono stato di recente in Valle del Drogo, ma la segnalazione “edotta” di Giorgio (che ringrazio di cuore per avermela comunicata), viste le sue notevoli competenze montane, mi impone di salirci, appena possibile, per verificare di persona quanto è accaduto. Fatto sta che sono episodi, questi, che danno nuova forza al timore manifestato già da tanti in base al quale, per certi amministratori pubblici locali e per i loro sodali del settore turistico, sembra proprio che l’infrastrutturazione per ebike dei territori montani, e in particolar modo di quelli ancora intatti, stia diventando la versione estiva di quella sciistica oltre che la discutibile declinazione dell’idea di “destagionalizzazione”: un grimaldello con il quale violare zone in quota altrimenti non sfruttabili turisticamente al fine di piazzarci attrazioni conseguenti e, al contempo, spendere (e spandere) finanziamenti pubblici con l’altrettanto abusata scusa della “valorizzazione” (in passato ho scritto spesso sulla questione, vedi qui). Generando invece evidenti dissesti del territorio, il degrado e la banalizzazione dei luoghi, la messa a valore degli stessi per venderli come “merce turistica” senza di contro apportare alcun vantaggio concreto per le comunità locali, anzi, inquinando la relazione culturale e antropologica intessuta con le loro montagne.

Se per caso qualcuno passerà dalle zone citate e così sarà testimone diretto di quanto sopra riferito oppure di altre cose simili e similmente discutibili, me/ce lo faccia sapere. Grazie!

Sul disinteresse di molte amministrazioni pubbliche per il patrimonio storico-culturale vernacolare dei propri territori

Quella che vedete nella foto qui sopra è la nuova pista agro-silvo-pastorale che da Lecco, precisamente dal rione di Germanedo, sale nei boschi verso la località Campo de’ Boi: un’opera a tutt’oggi in realizzazione, deliberata dagli organi comunali tecnici e amministrativi competenti e da tempo contestata da molte parti, non solo dell’ambito ambientalista. La foto è di Maura Galli che ne scrive su Facebook qui, con altre significative immagini.

Ora qui non entro nel merito delle polemiche, anche se una precisa opinione al riguardo me la sto elaborando. Tuttavia l’immagine che vedete è del tutto eloquente nel dimostrare (per l’ennesima volta) che la nuova pista in costruzione sta distruggendo la secolare mulattiera selciata che saliva dalla città verso i nuclei abitati sulle pendici del Resegone, una delle aree rurali premontane più vicine al centro di Lecco e dunque storicamente fruite da allevatori, agricoltori e boscaioli fin dal Medioevo.

Trovo semplicemente sconcertante e irritante il frequente, palese disinteresse di molte amministrazioni pubbliche per questi elementi identitari fondamentali dei propri territori, vere e proprie scritture antropiche di valenza assoluta impresse nel paesaggio le quali testimoniano la storia delle genti che hanno vissuto e trasformato quel territorio e rappresentano le “narrazioni” che hanno anticipato e formalmente giustificano la contemporaneità e il presente degli abitanti di oggi.

Quelle mulattiere, come le opere storiche similari, non sono solo capolavori ingegneristici vernacolari di manifattura eccelsa, al punto da resistere spesso benissimo al passare del tempo e alle intemperie, ma rappresentano visivamente l’anima del territorio, della sua gente, manifestandone l’identità culturale attraverso un racconto di matrice antropologica, artistica e umanistica ancor più che architettonica. Sono opere che andrebbero giuridicamente tutelate esattamente come certi monumenti o manufatti storico-artistici in forza della loro importanza e delle molteplici valenze referenziali per i rispettivi luoghi: invece troppo spesso tutto ciò viene ignorato (consapevolmente o per mera ignoranza) innanzi tutto proprio dalle amministrazioni pubbliche che dovrebbero salvaguardarle e che invece deliberano tranquillamente la loro distruzione. Cioè il conseguente impoverimento culturale e identitario del luogo che amministrano – altra cosa di cui spesso proclamano e vantano la tutela, vanamente.

Inutile aggiungere che di casi simili a quello di cui vi sto scrivendo se ne possono purtroppo riscontrare a centinaia nei territori storicamente antropizzati delle montagne italiane (e non solo lì, ma su monti la cosa diventa particolarmente grave): credo che chiunque stia leggendo ne possa citare qualcuno nella propria zona.

[La stessa cosa accaduta a Lecco è stata perpetrata in Val Poschiavina (Valmalenco): la nuova pista di recente realizzazione ha distrutto in vari tratti la storica mulattiera lastricata che da secoli serviva l’alpeggio.]
Al netto dell’utilità o meno della nuova pista sui monti sopra Lecco e della sua sostenibilità ambientale, personalmente condotte amministrative di questo genere le trovo inaccettabili e parimenti trovo necessario, se non inevitabile, che la responsabilità di tali disastri debba in qualche modo ricadere su chi li abbia così scriteriatamente deliberati. Nel caso che li abbia deliberati ma poi gli stessi siano stati realizzati in maniera differente, è comunque dovere dell’istituzione autorizzante verificare la correttezza o sanzionarne la divergenza, tanto più in presenza di emergenze di grande valore culturale per il territorio, altrimenti è puro e semplice concorso di colpa.

Purtroppo l’Italia è un paese che ha messo nella propria Costituzione, all’articolo 9, la salvaguardia del proprio paesaggio e la tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione, ma poi a livello amministrativo se ne disinteressa altamente trovando tutti i modi per agire in senso opposto: dunque quella responsabilità, se non a livello giuridico (possibilità che da tempo io auspico), deve quanto meno essere imputata a livello politico e morale. Perché certe cose non possono e non devono più accadere, se veramente teniamo ai luoghi in cui viviamo, alla loro salvaguardia e alla nostra cultura. Altrimenti da una situazione del genere non ne usciremo più e da qui al prossimo futuro perderemo ogni strumento – giuridico, politico e culturale – per poter fermare qualsiasi scempio. Sarebbe un’evenienza degna di una cricca di barbari, non certo di una società civile progredita come pensiamo di essere.

Il grosso problema del cicloescursionismo sulle montagne

[La ciclovia verso il Passo del Muretto, in alta Valmalenco: a sinistra in fase di realizzazione nell’estate 2023, a destra come è ridotta un anno dopo, tra piogge intense e transiti eccessivi. Vedete altre immagini del percorso lì sotto.]
Scopro l’acqua calda nell’affermare che il cicloescursionismo è ormai diventato un problema, per le montagne. D’altro canto era inevitabile che accadesse: alla nascita e al rapido sviluppo del fenomeno turistico, favorito dalla diffusione delle e-mtb che consentono a taluni cicloamatori di giungere dove altrimenti mai sarebbero arrivati, non è seguita alcuna gestione da punto di vista politico e ambientale, come spesso accade in Italia. Non solo: molti, troppi soggetti pubblici e privati hanno invece pensato solo a ricavare tornaconti di varia natura dal fenomeno, spacciandolo come un “grande sostegno” alle economie dei territori montani interessati. Niente di più falso: la gran parte del fenomeno è ascrivibile all’ambito del turismo mordi-e-fuggi che poco o nulla lascia nei territori che frequenta, ma nel frattempo quei territori sono stati sconquassati da ciclovie d’ogni genere e sorta, funzionali a fare affari, spendere soldi pubblici e generare propagande elettorali ma spesso realizzate in maniera maldestra e distruttiva per le montagne: le immagini sopra pubblicate lo dimostrano perfettamente (e di esempi al riguardo ce ne sono a iosa, per le montagne italiane).

Intanto in Norvegia, paese che ha conosciuto la grande diffusione delle e-mtb prima dell’Italia e dunque è più avanti di noi anche nella constatazione delle conseguenze, «una proposta di legge che potrebbe vietare le ebike nei percorsi fuoristrada. Mai più gravel o MTB elettriche nei boschi norvegesi» (fonte qui). Ovviamente tale proposta sta agitando i bikers italiani e non solo, d’altro canto la realtà dei fatti impone al più presto, e definitivamente, una regolamentazione generale dell’attività cicloescursionistica negli ambienti naturali, soprattutto in quelli montani, concordata tra tutti i soggetti pubblici e privati interessati: per tutelare i bikers che praticano l’attività in maniera consapevole, salvaguardare ambientalmente i territori che ospitano i percorsi, impedire l’ormai diffuso conflitto tra bikers e camminatori lungo i sentieri, rendere la pratica ciò che dall’inizio doveva essere cioè una bella opportunità per le montagne, non un grosso problema per giunta in crescente aggravamento.

Si riuscirà a conseguire questo importante obiettivo, oppure tutto quanto resterà confinato al solito pour parler utile solo ad peggiorare la situazione fino a renderla definitivamente irrisolvibile?

P.S.: le immagini qui pubblicate me le ha gentilmente fornite Michele Comi, che ringrazio di cuore.

Un gran bel modo (tra gli altri) con il quale il CAI di Lecco festeggerà i propri 150 anni

[Una veduta di Lecco con alcune delle sue montagne. Foto di Emibuzz, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons.]
Un’altra sezione del Club Alpino Italiano quest’anno celebra la propria fondazione, una delle più grandi, prestigiose e tra le primigenie del sodalizio nazionale, essendo stata fondata solo 11 anni dopo l’istituzione del CAI nel 1863: è la sezione di Lecco, costituita ufficialmente il 22 maggio 1874 su impulso di grandi personaggi quali – innanzi tutto – Antonio Stoppani e poi Giovanni Pozzi, Mario Cermenati, Giuseppe Ongania, poi divenuta la sezione di alcuni dei maggiori alpinisti italiani e oggi intitolata a uno dei più grandi di sempre, Riccardo Cassin.

Ben centocinquant’anni di attività sono un traguardo di assoluto rispetto, che infatti il CAI di Lecco sta celebrando con un lungo calendario di eventi prestigiosi che copre praticamente l’intero anno in corso. Senza ovviamente nulla togliere agli altri, ce n’è uno che trovo particolarmente significativo: quello – intitolato Sasso a Sasso, vedete la locandina qui sotto – che sabato prossimo 20 aprile propone un’iniziativa collettiva di manutenzione, cura e ove possibile ripristino dei passaggi ammalorati dell’antica mulattiera tra Cereda e Montalbano, due località a monte della città di Lecco dalle quali per lunghi secoli è transitato chiunque salisse per la Valsassina e magari proseguisse per la Valtellina, inclusi i primi lecchesi che, quando l’alpinismo prese a diffondersi, si cimentarono con l’ascesa alle vette dei monti della zona. Un’opera storica di importanza eccezionale che deve essere preservata in ogni modo possibile come ogni altra presente sulle nostre montagne, per come rappresenti una scrittura antropica fondamentale impressa nel tempo sulle “pagine” del territorio, che oggi diventa un vero e proprio libro sul quale si possono leggere innumerevoli narrazioni affascinanti e importanti per l’identità dei luoghi, la comprensione approfondita del presente e per la costruzione del loro futuro. A patto, appunto, che tali scritture restino ben leggibili: per tale motivo trovo l’iniziativa del CAI lecchese quanto mai importante oltre che assolutamente affascinante. Andare per monti, raggiungendo le loro vette o vagando nei fondovalle, oggi significa anche se non soprattutto manifestare sensibilità e avere cura dell’ambiente montano, quanto mai prezioso, delicato e particolarmente esposto al cambiamento climatico e agli effetti delle attività antropiche. Che tutto ciò lo manifesti il principale sodalizio della montagna credo renda il tutto ancora più significativo.

Dunque applausi alla sezione CAI di Lecco e AUGURI per altri 150 e più anni di irrefrenabile vitalità e autentica passione per le montagne!