Siamo 8 miliardi di giardinieri (ma spesso non ce ne rendiamo conto)

[Foto di Damian Markutt su Unsplash.]

L’apparizione dell’ecologia è un avvenimento senza precedenti nel rapporto storico dell’uomo con la natura. Ciò che la comparsa dell’ecologia cambia nel rapporto uomo/natura è legato, oltre che a una visione sistemica, dunque globalizzante del vivente, alla percezione di una finitezza: la vita non si spinge oltre i limiti della biosfera. Terribile rivelazione: la Terra come territorio riservato alla vita è uno spazio chiuso. È un giardino. Non appena enunciata, questa constatazione rinvia ogni umano, passeggero della Terra, alle proprie responsabilità. Eccolo divenuto “giardiniere”.

[Gilles Clément, La saggezza del giardiniere. L’arte del Giardino Planetario, DeriveApprodi, Roma, 2021. La citazione però io l’ho presa da Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet 2014, pag.97.]

Già, siamo tutti “giardinieri” di quel meraviglioso, inestimabile, unico e irripetibile giardino che è la Terra, il pianeta sul quale abitiamo. E chi può essere tanto stupido da possedere un giardino così bello e trascurarlo, guastarlo, rovinarlo se non distruggerlo?

Il “non fare” che ha dignità politica (più del “fare”)

[Immagine da Gilles Clément, Giardini, paesaggio e genio naturale, Quodlibet, 2013.]

Istruire lo spirito del non fare così come si istruisce lo spirito del fare.
Elevare l’indecisione fino a conferirle dignità politica. Porla in equilibrio col potere. […]
Poco importa cosa spinga la politica ad adottare la non-gestione, purché questa – come la gestione – sia integrabile nei piani urbanistici locali e nelle politiche di gestione dello spazio agricolo, in qualità di principio accettabile che si dia le proprie regole.

[Gilles ClémentManifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet 2014, pag.71]

A proposito di consumo di suolo – il post di questa mattina, sì – e in relazione alla regione italiana che più si “distingue” in questa scellerata pratica, la Lombardia, la quale si vanta spesso di essere la «terra del fare» quando poi gli effetti di questo slogan – perché tale è, essendo in concreto pressoché vuoto di cultura politica e umanistica – sono proprio quelli decretati dalle statistiche dell’ISPRA, mi è tornato in mente uno dei passaggi a mio parere più illuminanti del Manifesto di Deleuze, quello che avete letto nella citazione lì sopra (e la cui mia recensione potete leggere cliccando sull’immagine qui sotto).

«Lo spirito del non fare», «la non-gestione» del territorio a cui venga conferita «dignità politica» esattamente come al fare. Intuizioni tanto semplici quanto geniali che aprono un universo di riflessioni, considerazioni, domande, dubbi. Già: perché la politica pensa sempre al “fare” e mai al “non fare”? Perché è incapace di comprendere che anche il “non fare” fa, e spesso fa molto di più e meglio del “fare”? Basti pensare al “non fare” altri capannoni sopra terreni naturali o agricoli: significa fare ambiente, preservare il territorio naturale e la sua biodiversità, conservare la salubrità derivante, difendere l’identità culturale del paesaggio, pianificare (verbo che sovente possiede accezione ben più negative, per il paesaggio) un futuro migliore per la comunità che abita quel territorio. Se il “fare” viene considerato economia, perché il “non fare” non lo si sa correlare all’ecologia – posto che economia e ecologia sono due sorelle in origine, poi separate a forza e diventate antitetiche? Perché, come suggerisce Clément, anche la non-gestione quale pratica di conservazione della naturalità di parti del territorio, non può far parte di un programma politico e di un progetto di amministrazione territoriale? Solo perché non si è in grado di capire – ribadisco – che il “non fare” e il “non gestire” non significa affatto evitare di realizzare qualsiasi cosa o di amministrare il territorio ma l’esatto opposto, è la forma di gestione più articolata, meditata e equilibrata che si possa attuare nonché l’unica che possa giustificare il “fare” altrove?

Solo un potere squilibrato, asimmetrico e disarmonico con il territorio che gestisce non sa concepire e comprendere tutto ciò. Con i risultati che statistiche come quelle dell’ISPRA poi inesorabilmente registra, già.

Gilles Clement, “Manifesto del Terzo Paesaggio”

Tempo fa lo storico e teorico del paesaggio italosvizzero Michael Jakob ha scritto che il paesaggio «non sarebbe un concetto misurabile, identificabile e oggettivo, bensì un fenomeno che si sottrae a qualunque tentativo di fissarlo; la sua rappresentazione, con parole o immagini, si scontra con l’identità fluttuante, aperta e forse irritante del fenomeno». Un altro svizzero rinomato, il sociologo e urbanista Lucius Burckhardt, affermò che «Il paesaggio è un costrutto. Questa parola terribile significa che il paesaggio non va ricercato nei fenomeni ambientali, ma nelle teste degli osservatori.» Insomma, non è concetto semplice da maneggiare, quello di “paesaggio”, nonostante sia tra quelli più utilizzati da chiunque quando vi sia da descrivere il mondo che ci circonda; parimenti la sua “gestione” non è facile dal punto di vista politico – quello principale, in effetti – stante questa sua indeterminatezza, e non di rado in forza di essa accadono cose opinabili anche se di testi che trattano tali argomenti, e che appaiono utili alla loro conoscenza e competenza, ne siano stati prodotti innumerevoli e molti di grande rilevanza.

Tra questi, nonostante sia uno di quelli con meno pagine ma di contro tra i più alternativi e per certi versi “destabilizzanti”, bisogna certamente annoverare il Manifesto del Terzo Paesaggio di Gilles Clément (Quodlibet 2014, a cura di Filippo De Pieri, traduzione di Filippo De Pieri e Giuseppe Lucchesini; prima edizione italiana 2004, orig. Manifeste du Tiers Paysage, 2004), anche per come il suo contenuto possa essere facilmente reso contestuale e adattabile a molti dei temi relativi alla nostra relazione con il territorio che abitiamo e alla cura che dobbiamo riservare ad esso nel contesto della sua antropizzazione, di qualsiasi genere e entità sia []

(Potete leggere la recensione completa del Manifesto del Terzo Paesaggio cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)

 

Alberto Magnaghi

Mi rattrista molto leggere della scomparsa di Alberto Magnaghi, una delle figure italiane più importanti negli ambiti di ricerca, studio e divulgazione dei temi del paesaggio, che ebbi la fortuna di incontrare e conoscere – l’ultima durante un bel seminario in Valle Imagna sul tema del “Riabitare le Alpi” organizzato dal locale Centro Studi. La sua idea di «coscienza di luogo» è tra quelle che, fin da quando la conobbi e studiai, mi ha maggiormente ispirato e che trovo tra le più significative da proporre e sviluppare nelle discussioni e nelle pratiche di interazione con i territori, i luoghi e i loro paesaggi. Un’idea, peraltro, sempre più necessaria per favorire e coltivare la salvaguardia collettiva dei territori in cui abitiamo e ridar loro la doverosa e più compiuta dignità politica, a fronte di frequenti iniziative  – di certa “politica” ma nell’accezione più bassa possibile – così incoscienti del valore culturale dei luoghi e del paesaggio da risultare drammaticamente dannose non solo per gli spazi che le subiscono ma pure per chiunque li viva, stanzialmente o saltuariamente.

Rip.

No, il cretino non prevarrà (forse)

P.S. (Pre Scriptum): solo dopo che ho scritto di mia più spontanea riflessione il testo sottostante, ho letto dell’ultimo “Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese”, pubblicato oggi 03 dicembre (dal quale è tratta la tabella qui sotto riprodotta), che fotografa una società italiana per troppa parte impregnata di “irrazionalismo” – un bel termine per definire la cretinaggine nelle sue varie forme. Una coincidenza, insomma, di quelle che tuttavia non appaiono poi così casuali.

Comunque, uno dei problemi fondamentali di questo nostro mondo resta quello per cui le persone capaci, competenti, talentuose e argomentative vengono ancora troppo spesso messe a tacere o in ombra da persone incompetenti, ignoranti, incapaci di far tutto fuorché alzare la voce e farsi sentire, e ciò con la disdicevole complicità dei media contemporanei sempre pronti a dare eco alla banalità, più facile da trasmettere e comprendere senza usare il cervello, che alla complessità con la quale agevolare il pensiero intellettuale. In tal modo si alimenta la “rotazione” del relativo circolo vizioso il cui moto spinge sempre più in basso il livello di cognizione generale diffuso, al contempo indebolendo l’efficacia degli strumenti culturali che potrebbero contrastare questo degrado.

Di contro, quei media contribuiscono pure a ingigantire il problema: in realtà gli incompetenti restano in minoranza, la «prevalenza del cretino» evocata dai mirabili Fruttero & Lucentini in tempi non sospetti, ovvero quando non c’era ancora la cassa di risonanza “perfetta” dei social network, non è affatto soverchiante. Solo che, appunto, i competenti e i talentuosi, consci delle loro doti, fanno e dicono cose senza aver bisogno di urlarle e di doversi “realizzare” attraverso la pubblica compiacenza, mentre gli incompetenti a volte fanno notizia anche per l’entità dei danni che compiono o delle stupidaggini che proferiscono – danni e stupidaggini poi mitigate e risolte proprio dagli altri, in silenzio e lontano dalle luci della ribalta mediatica. D’altronde, se non andasse così, la civiltà umana si sarebbe estinta già da un bel po’.

C’è da essere fiduciosi e pazienti, insomma, coltivare le personali capacità, competenze, cognizioni e doti (o lavorare sodo per formarle e renderle sempre più valide), aumentare gli strumenti culturali a disposizione personale e nel frattempo aspettare che gli inetti si estinguano da soli, facilmente con le proprie mani. Il cretino pensa sempre che i cretini siano gli altri e di non dover imparare nulla perché crede di sapere già tutto: in forza di ciò, prima o poi subisce le conseguenze delle sue azioni senza nemmeno rendersene conto (e continuando a incolpare altri, ma tant’è). Bisogna solo osservare l’unica accortezza di starsene lontani, da quelli, e di contenere le loro azioni affinché le conseguenti reazioni dannose non coinvolgano niente e nessun altro, ecco.

P.S. (Post Scriptum): anche se, ammetto, leggere dal rapporto Censis sopra citato che più di tre milioni e mezzo di italiani, anche con livello di istruzione elevato, crede che la Terra sia piatta non mi rende affatto tranquillo, riguardo il buon futuro – almeno di quello prossimo – del nostro mondo.