Di frequente, nella politica italiana e nel conseguente dibattito pubblico, si parla di “aree interne” del paese, da sviluppare, sostenere, quale patrimonio da valorizzare, «motore del paese» eccetera. La definizione invero è tanto chiara nella forma quanto vaga nella sostanza: cosa bisogna veramente intendere con aree interne, in un paese come l’Italia le cui più grandi città, che pur amano farsi chiamare “metropoli”, sono piccoli centri rispetto alle megalopoli del pianeta, Europa inclusa? D’altro canto quello italiano è un territorio che per gran parte risulta collinare e montano, che appena oltre gli ultimi sobborghi delle città e nonostante la cementificazione fuori controllo – la quale tuttavia non significa urbanizzazione, anzi, a volte è l’esatto opposto – ritrova una dimensione rurale evidente e in certi aspetti pressoché immutata da secoli. Sviluppare questa parte preponderante del paese, dunque, non dovrebbe essere un’opzione che la politica possa discutere e valutare ma un obbligo ineludibile: semmai se ne discute di continuo proprio perché ciò rappresenta da tempo una grave mancanza della politica nostrana, la quale non di rado è sembrato che agisse (e agisca) per deprimere ancor più quelle aree “disagiate” – altro vocabolo spesso utilizzato, forse fin troppo ipocritamente.
Le ferrovie locali rappresentano un esempio assolutamente significativo di tale situazione italiana. Se dalla metà Ottocento in poi, quando cominciarono a essere realizzate e furono la prima occasione per molti italiani di uscire dai propri piccoli “recinti” paesani entro i quali si volgeva buona parte della loro vita e viaggiare, costituirono uno dei principali strumenti di autentico sviluppo per un paese che per tanti versi era ancora fermo al Medioevo, lungo il Novecento strategie istituzionali differenti puntarono molto di più sulle strade e sulle automobili, regalando agli italiani una (presunta) libertà di movimento individuale mai goduta prima ma al contempo scaricandosi di buona parte della responsabilità politica di mantenere efficienti molte linee ferroviarie, divenute nella suddetta “visione” istituzionale superflue. Cosa che non erano affatto, anzi, ma tanto bastò per decretarne la chiusura e la dismissione.
Oggi invece, in tempi di promesso «sviluppo delle aree interne», appunto, nonché di crisi climatica, conversione energetica, turismo sostenibile e slow, riscoperta di territori e luoghi di eccezionale valore culturale ma differenti se non antitetici a quelli deputati al turismo di massa, l’interesse verso le ferrovie secondarie e locali è tornato in auge, seppur ancora la politica sembra restare piuttosto indifferente al loro inestimabile valore, preferendo continuare a investire in strade asfaltate piuttosto che in binari. Di tale situazione italica posso ben dirmi diretto e costante testimone, lavorando quotidianamente tra una importante statale lombarda e una linea ferroviaria, entrambi congiungenti due città capoluoghi di provincia: la prima perennemente intasata di auto e soprattutto di mezzi pesanti, la seconda con soli due treni in transito all’ora e nessun convoglio merci. Cosa emblematica, ne converrete.
Ecco: tutta questa mia lunga premessa tematica vi può dare l’idea del valore non solo letterario di Binari. Racconti di viaggi e di treni sulle ferrovie minori italiane, l’opera più recente del piemontese Fabio Bertino, sorta di diario di viaggio lungo alcune delle più significative linee ferroviarie secondarie italiane per raccontarne la storia, la realtà attuale, i territori e i luoghi attraversati, la loro essenza per come la si può cogliere prima dai finestrini di un treno e poi nel micromondo locale che si esplora e scopre incamminandosi dalle varie stazioni lungo la linea […]
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