Capisci che è la nostra sfiducia nel futuro che ci rende difficile il distacco dal passato. Non riusciamo ad abbandonare il concetto di quello che eravamo. Tutti quegli adulti che giocano a fare gli archeologi, cercando manufatti dell’infanzia, giochi da tavolo, il Paese dei Balocchi, il Twister, sono tutti terrorizzati. I rifiuti diventano sacre reliquie. Gli Hula Hoop. La Casa degli Orrori. La ragione per cui ogni volta che buttiamo via qualcosa ci assale la nostalgia è che abbiamo paura di evolvere. Di crescere, cambiare, perdere peso, reinventare noi stessi. Di adattarci.
(Chuck Palahniuk, Survivor, Mondadori, 1999, traduzione di Michele Monina e Giovanna Capogrossi, pag.149.)
[Foto di AlexRan, CC BY-SA 2.0; fonti qui e qui. Cliccateci sopra per leggere la recensione.]In tale passaggio del suo Survivor, Palahniuk mette nero su bianco una gigantesca verità della nostra società contemporanea. Nel bene e nel male, ovvero come caratteristica ineludibile dell’odierno stare al mondo ma pure, di contro, come colpa e condanna inesorabile che, insieme ad altre cose, ci priva della naturale libertà di muoverci verso il futuro – un buon futuro, ben concepito e costruito – e ci imprigiona (lo sostenevo già qui, tempo fa) in un eterno presente, in un costante vivere-alla-giornata che in realtà di vitale ha ben poco. Già.
Un quindici o venti anni fa, suppergiù, Chuck Palahniuk è stato certamente tra gli scrittori che più mi hanno affascinato. Lessi alcuni suoi romanzi che mi suscitarono sempre ottime sensazioni, poi, nella mia costante esplorazione dell’universo letterario umano, sono andato oltre e una recente ri-visione di Fight Club, film tratto dal suo omonimo romanzo, mi hanno fatto tornare la voglia di leggere qualcosa di suo. Così, tra i libri da leggere stipati sugli scaffali di casa ho trovato Survivor, (Mondadori, 1999, traduzione di Michele Monina e Giovanna Capogrossi), (ri)trovando pure il tipico stile dello scrittore americano, capace come pochi altri di intessere trame articolate che si sviluppano da spole di realtà, irrealtà, surrealtà, fili narrativi dai colori forti che s’intrecciano di continuo a volte in modi lineari, altre volte più ingarbugliati generando un disegno letterario certamente originale e tutt’oggi unico o quasi, altrettanto certamente molto americano ma pure capace di non restare troppo prossimo a spettacolarizzazioni narrative di matrice hollywoodiana che spesso caratterizzano la produzione letteraria USA. Survivor, della cui trama potete leggere qui, è un romanzo che forse con maggior humor (nero) di altri nella produzione di Palahniuk costruisce la propria storia intorno alla critica della società contemporanea americana, della quale amplifica e irride molti degli elementi grotteschi in essa presenti – in primis il culto dell’immagine mediatica e dell’inutilità resa necessità da un sistema consumistico che rende ogni cosa un bene potenzialmente vendibile e consumabile, inclusi gli individui e le loro vicende umane […]
[Foto di AlexRan, CC BY-SA 2.0; fonti qui e qui.](Leggete la recensione completa di Survivor cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)
[Opera di Alberto Ruggieri, da Irancartoon.]Consentitemi un appunto: l’autoreferenzialità va anche bene, per carità, se si è Einstein, Beethoven o Leonardo da Vinci ovvero una figura di simili capacità o quanto meno di riconosciute doti e opere, altrimenti no, non va bene.
Siccome pare proprio che il tasso di autoreferenzialità, nella maggior parte dei casi, sia un dato inversamente proporzionale alla presenza delle capacità e delle doti che lo giustificherebbero, e posto che obiettivamente le capacità, le doti e le opere di molte persone autoreferenziali sono di gran lunga inferiori a quelle, per dire, di una capra camosciata delle Alpi (creatura peraltro che non mi risulta essere così autoreferenziale, come d’altronde il resto degli appartenenti al mondo animale), fatemi dire che, a mio modo di vedere, l’autoreferenzialità è una delle piaghe maggiori della socializzazione contemporanea. E non va bene, ribadisco, per nulla. Ecco.
Ma se gli esseri umani, un po’ come per i beni e i prodotti deperibili, avessero a loro volta impressa da qualche parte sul corpo la personale “data di scadenza” (che potrebbe anche non coincidere con il momento del decesso, a ben vedere), secondo voi si comporterebbero meglio di come si comportano, oppure ancora peggio?
[Immagine tratta da qui.]Una volta non riuscivo a capire come mai molte persone avessero bisogno di psicologi e psicanalisti per risolvere i propri problemi di mentali, caratteriali e d’animo, e pensavo che di quegli specialisti ce ne fossero fin troppi, in circolazione.
Oggi non riesco a capire come mai molte persone non si rivolgano, o non vengano risolutamente rivolte, a psicologi e psicanalisti per risolvere i propri problemi mentali, caratteriali e d’animo, e ritengo che di quegli specialisti ce ne vorrebbero di più, a disposizione.
D’altronde spesso, in gioventù, si pensano cose che poi la maturità rivela errate, no?